L’ultimo dei Camuni

Tempo fa sono andato a visitare il Parco rupestre della Val Canonica a Nacquane nel comune di Capodiponte, anzi a rivisitarlo, dato che c’ero già stato venticinque anni fa. La visita in sé è stata normale, poco entusiasmante, anzi quasi deludente: ricordavo le lunghe pietre lisce, affioranti dal terreno come i dorsi di animali preistorici, scavate in forme insolite dalla pressione di ghiacciai scomparsi da millenni, ma mi ero dimenticato quanto fossero piccole, e poco visibili, e quasi evanescenti le figure scolpite dai sacerdoti camuni, tanto che basta l’ombra di un albero o di una nuvola per farteli quasi sparire sotto gli occhi. Le guide del posto, mentre noi camminavamo nel bosco di alberi giovani e verdi, erano efficienti e scolastiche, ripetendo con precisione raggiunta tramite l’esercizio innumerevoli cose a loro volta lette e rilette sui libri.

Sono sceso dalla collina, lo confesso, se non proprio demoralizzato certo non entusiasta, al punto che al book-center doverosamente apprestato all’uscita ho comprato la mia bella guida quasi più per non sentirmi in colpa che altro.

Ricordavo però, dalla mia precedente visita, che qualcuno vendeva calchi in gesso delle incisioni rupestri. Ho chiesto e ricevuto indicazioni: davanti alla chiesa, una vetrina, ma tanto non c’è perché è sempre in giro. Mia moglie e io siamo scesi in paese (si chiama Capodiponte, ed è una sorpresa che meriterebbe un discorso a parte), ci siamo un po’ persi negli inevitabili sensi unici che aggrovigliano i vecchi borghi, per quanto microscopici, e infine abbiamo trovato la vetrina: aperta, nonostante fosse domenica.

E dentro è cambiato tutto. Non un negozio chiaro e distinto, pensato per vendere ai clienti, ma il laboratorio di un’artista e di un ricercatore, luminoso ma non troppo, pulito ma non troppo, e decisamente non molto ordinato. Un bancone in fondo, pieno di radici d’albero; sculture in legno abbozzate qua e là, appese alle pareti o messe per terra negli angoli: madonne, animali, una spada appena disegnata nel blocco di legno; un enorme calco in gesso, lungo almeno un metro, grigio e bianco, pieno di figure aggrovigliate, appeso a una parete e incorniciato da uno strano telaio; la parete di fondo che lascia intuire dietro una stanza che potrebbe essere un piccolo laboratorio o un grande deposito affardellato di lavori iniziati.

Un signore anziano, dalla parlata comprensibile a fatica per l’accento e dalla lingua impastata per l’età, lento nei movimenti ma dagli occhi limpidi e vivi ci ha accolto senza sorpresa. No, non aveva più calchi. No, quello alla parete non era in vendita: l’aveva promesso alla Sovrintendenza. No, lui era vecchio e non aveva più forze. No, non sapeva se e quando ne avrebbe fatto altri.

Ma la passione non si lascia annacquare dall’età. Senza volerlo, forse, ha cominciato a spiegare perché aveva fatto quel calco: voleva dimostrare che la rosa camuna non è affatto camuna (e intuisco adesso la volontà ironica e sottile di opporsi al potere ufficiale della cultura regalando proprio ai depositari dell’interpretazione scolastica l’icona che dimostra il contrario di quanto la vulgata insegna). E sotto le sue parole la scena quasi incomprensibile, poco più che guazzabuglio di segni picchiettati nella roccia e riprodotti nel gesso, ha preso vita: cinque uomini, grossi, dal tronco largo e quasi rettangolare, armati di lance, contro uno solo, raffigurato in modo inequivocabilmente diverso, tronco piccolo, tutto picchiettato all’interno, chiaramente deciso a difendere il tesoro (o il simbolo) che stava alle sue spalle: la rosa camuna, appunto.

«Quelli di Nacquane sono scesi dalla collina e hanno lottato contro questo qua» così rilegge il vecchio la pietra, e la scena improvvisamente mi si fa viva sotto gli occhi: non astratte spiegazioni per scolaretti, ma lotta per la vita e per la morte di uomini in carne ed ossa che sono scesi dalla collina (o forse hanno percorso la valle) e hanno trovato qualcuno che ha opposto resistenza. Non un evento qualunque, come milioni di volte avvenuto nella storia dell’uomo, ma qualcosa di così speciale da essere ritenuto degno di venir trasmesso all’immortalità della pietra (e, immeritatamente, essere visto da me). Chi ha inciso la pietra? I cinque vincitori, per rivivere nel tempo la loro vittoria? O l’uomo solitario, che forse alla fine è sopravvissuto, anzi, forse alla fine è uscito lui vincitore dal confronto senza speranze e proprio per questo poi ha trascritto nella pietra la gloria della sua impresa? Il finale è affondato nel silenzio senza memoria del tempo, come un sasso dalla forma insolita e bella sfugge di mano e affonda per sempre nel lago senza fondo dopo essersi lasciato scorgere per un attimo solo, lasciando il rimpianto di non essere stati noi più abili e svelti a capire l’importanza di quello che la sorte per un momento ci aveva messo tra le dita.

La pietra morta parla di uomini vivi.

In quella stanza né buia né luminosa vedevo risvegliarsi un mondo vivo di simboli attraverso gli occhi di un vecchio che (si vede e si sente: basta ascoltarlo e non solo starlo a sentire, basta guardarlo e non solo gettargli un’occhiata distratta) ha nel sangue lo stesso sangue di chi ha inciso quelle rocce e che comunque sa aprirsi alle piante e all’acqua, al monte e alla collina, al cielo e alle rocce, e sa come ascoltarle, e riesce a comunicare almeno un po’ di quello che ha visto e sentito.

Tutto ciò non è nei libri di scuola, si capisce: la vita è più grande, e se questa non deve essere solo una battuta ad effetto bisogna andare fino in fondo e accettare le conseguenze, come per esempio un vecchio che mostra un grande frottage di un’altra incisione e sostiene davanti al mio sguardo dubbioso: «Avevano capito che la terra è rotonda. Questo è un cerchio perfetto, e questa è una linea diritta che divide la terra. Qui fuori» e indica l’angolo in alto a destra «cosa c’è? La luna, questa è la luna. E cos’hanno visto? Un uomo che scende dalla luna» e addita una figura umana sotto il segno lunare «e che appoggia il piede, il piede destro, sulla roccia» e indica nell’angolo in basso a destra quello che, mentre lui parla, è senz’altro l’orma di un piede destro.

Perciò, dopo, mentre mia moglie e io ce ne andavamo da lì, tutta la valle aveva un sapore diverso, nonostante la folla di case anonime e vacue, le sciabolate della superstrada, i rumori delle automobili frettolose e delle famiglie vocianti. Aveva un sapore diverso la montagna, aspra e maschile su un lato, morbida e femminile dall’altro; aveva un sapore diverso la chiesa romanica di san Siro che siamo andati a visitare, addossata alla montagna, su un ripiano fatto apposta per dominare la valle, non a caso eretta nel punto dove da millenni i camuni e chi era venuto dopo di loro avevano eretto luoghi di culto.

Ho contrattato per il calco di gesso, si capisce, barando e bluffando, ma nonostante tutti i miei sforzi ho in tasca solo il suo biglietto da visita e la promessa che quest’estate, forse, rifarà dei calchi. Ho però ancora negli occhi l’immagine di una siepe d’edera, due metri d’altezza per uno abbondante di larghezza, tronchetti che crescendo si sono fusi in forme vitali che sembrano studiate dall’uomo, simili a figure di ninfe, che il vecchio dice di aver trovato lì attorno e pulito e lisciato: un lavoro ancora incompleto ma che riassume ai miei occhi la presenza numinosa degli dei della vallata, che certo i camuni avvertivano e presagivano, e che in qualche modo l’ultimo di loro continua a vedere e sentire e perciò a farci vedere e sentire.