Sono sempre stupito dalla capacità di Dante di dire le cose. Forse perché era il primo; forse perché se la tirava; forse perché la Commedia era fatta apposta per un parlare “alto”. Comunque stiano le cose stamattina sono inciampato, letteralmente (avevo aperto a caso una copia della Commedia) su questo verso Si che dal fatto il dir tuo non sia diverso (Inf. XXXII 11) C’è tutta una teoria gnoseologica condensata in questo verso, ma anche un’etica. Bellissimo. [immagine creata con MidJourney]
Ho sempre pensato che la menzogna nasca quando si crea una scissione tra l’essere e l’apparire, tra il modo in cui siamo e il modo in cui ci presentiamo, e che quindi sotto il profilo etico l’obbiettivo sia cercare di ridurre al minimo questo iato. Tutti gli anni a scuola leggo con i miei ragazzi e ragazze il passo di Rousseau del Discorso sulle scienze e le arti in cui dice: “nessuno osa più apparire come è” per impostare una base filosofica per la critica alla nostra società dei social. Eppure alcuni episodi mi fanno dubitare di questa certezza. Sto pensando alla situazione che si è creata in Cina, dove dalla fine del 2022 i ragazzi protestano contro il regime semplicemente mettendo un foglio bianco davanti al volto. In Cina il bianco è un colore del lutto, e l’inizio della protesta era collegato a un incendio in cui erano morte delle persone. Ma subito la protesta era diventata politica, contro le restrizioni imposte dal governo per lottare contro il COVID. E poi era diventata globale, contro la censura imposta da Pechino: il foglio bianco come simbolo di tutto quello che si sarebbe potuto dire e che invece non si poteva…
Zio è una webzine non banale che parla di come i giovani vivono la rete. Devo al suo curatore e autore Vincenzo Marino la “scoperta” di un fenomeno di cui io, come insegnante, sarei dovuto essere a conoscenza (e invece non ne sapevo nulla): il trionfale successo sui media di una canzone-spazzatura come Auto tedesca del rapper napoletano Vincenzo Pattera, in “arte” (si fa per dire) Packy (è la abbreviazione di pakartas, che in lituano significa “impiccato”). L’articolo (che potete leggere qui) in realtà è una intervesta a una ragazza di Palermo, Valeria Sampino, che ha tentato di reagire postando su TikTok un video in cui si limitava a chiedere se gli estimatori del rapper avessero davvero letto il testo della canzone (lo metto in fondo a questo post, mi vergogno troppo a inserirlo nel testo e d’altronde non voglio regalare nemmeno un clik a chi pubblica queste cose) ed è stata travolta da una classica shitstorm mediatica con decine di migliaia di commenti (pesantemente) negativi sul suo intervento. Una volta si sarebbe detto: “vorrei portare la mia solidarietà” a questa ragazza che ha fatto quello che noi “grandi” non abbiamo saputo fare: vigilare, guardare quello che guardano i ragazzini,…
Fare politica a scuola è lecito? Certamente no, se si intende con ciò fare propaganda a favore di un singolo partito; certamente si, se si intende con ciò sensibilizzare i ragazzi ai temi del bene comune sui quali si decide la qualità della vita di ognuno di noi. Per questo mi pare che uno degli argomenti più interessanti da affrontare nelle nostre lezioni in questi anni sia quello della città. E’ un tema apparentemente anodino, da confinare appunto sulle pagine di qualche manuale di storia, o al massimo di qualche paragrafo di qualche libro di storia dell’arte che affronti il tema dell’urbanismo. Eppure le città sono i luoghi in cui viviamo le nostre vite reali; sapere come si sono formate e quali logiche sottintendono è il modo migliore per riuscire a intuire come cambiarle per vivere meglio. Far crescere persone che abbiano coscienza di ciò e che, una volta diventate adulte, sappiano e vogliano almeno chiedere agli amministratori di render conto delle loro (degli amministratori) scelte, questo è già far (buona) politica. Se poi si riuscisse a dare vita a un incipit di incubatore di nuove idee per organizzare meglio la concretezza delle città, ancora meglio! Senza nessuna pretesa di…
Una riflessione al volo sul fatto che questo blog, ben lungi dall’essere un porto sicuro per i miei pensieri, sparirà nel nulla poco dopo che avrò interrotto per qualsiasi motivo il pagamento dell’affitto dello spazio web ad Aruba. Se vuoi che qualcosa rimanga, affidalo alla carta. O almeno a un DVD. O almeno mettilo su una chiavetta. Il tutto, sperando che tra dieci anni i software siano ancora compatibili…
Leggo oggi 5 gennaio 2002 sul Corriere della Sera che gli stoccaggi di gas in Italia sono ancora all’83% della capienza massima. E’ un’ottima notizia: siamo già a gennaio, una parte del periodo più freddo dell’anno è già alle spalle, ci avviamo verso la primavera, e siamo riusciti a resistere senza troppi problemi alle minacce di Putin. Il nostro stile di vita è rimasto sostanzialmente invariato. Non stiamo correndo rischi. Allora perché queste cose non sono sulla prima pagina dei quotidiani, ma bisogna andare a scovarle nelle pagine di economia, dove comunque sono scritte ben in piccolo?
In questi giorni, grazie a una mia studentessa, che devo chiamare solo I. per la privacy, ho scoperto una funzionalità del mio cellulare che non conoscevo: l’utilizzo della app Lens. Voi direte: ma che tardone che sei! scrivi e parli dell’uso delle ICT nella didattica e non conoscevi questo programma? E che vi posso dire? Così stanno le cose: non lo conoscevo. Google Lens è un’app mobile di riconoscimento delle immagini sviluppata da Google. Annunciata durante Google I/O 2017, è stata progettata per portare informazioni pertinenti utilizzando l’analisi visiva. Inizialmente veniva fornita come app a parte, in seguito è stata integrata nell’app Fotocamera di Android. (fonte: voce Google Lens su Wikipedia) Il trucco sta nell’uso delle reti neurali che permettono un riconoscimento quasi perfetto del testo scansionato. La cosa funziona così: si apre l’app, la si punta su un testo e si scatta una specie di foto. Il programma individua il testo e chiede cosa fare: scansionare il testo, tradurlo, cercare una parola… Scegliendo “testo” scansiona il testo, che viene evidenziato, poi ti chiede di nuovo cosa vuoi fare: il software (perché sempre di software si tratta, non di magia) può leggerlo oppure selezionarlo per la copia. A me interessa…
Sono un insegnante da quasi quarant’anni. Per moltissimo tempo ho salutato mia moglie, al mattino, dicendole: “Ciao, vado a scuola”. Arrivato alla mia età, superati da un pezzo i sessanta, penso di aver sbagliato a usare quella frase per tutto quel tempo. Certo, era una cosa spontanea: in fondo, andavo effettivamente a scuola, nel senso che andavo nell’edificio del mio liceo. Ma in italiano la frase “vado a scuola” ha una gamma di significati che non ha, per esempio, la frase “vado in ospedale” detta da un medico. Dal momento che il medico è sano, la frase può voler dire solo che sta andando in quell’edificio per svolgere il suo lavoro: nessuno ascoltandolo penserebbe che sta andando al nosocomio per farsi curare, o qualcosa del genere. “Andare a scuola” invece può mantenere una sfumatura diversa: io, come tutti, sono “andato a scuola” per tutti gli anni della mia infanzia e della mia giovinezza (diciassette anni, in effetti, contando l’università e lasciando perdere l’asilo) per imparare, restando in una situazione di subalternità a qualcuno (la maestra, i professori, i docenti universitari). Ripetere la stessa frase adesso può trascinarsi dietro questo vago riflesso di “non lavoro” che era il suo mood principale…
Il titolo di questo post è il titolo di un articolo che sto leggendo proprio in questo momento e che è dedicato alle ultime lettere dei condannati a morte. Non voglio discutere le loro parole: piuttosto, vorrei riflettere sul fatto che nessun computer potrebbe scriverle. Il programma che ha appena spostato in alto, e di parecchio, la fruibilità della “intelligenza artificiale” a livello popolare, ChatGPT non potrebbe scrivere un testo del genere. O meglio, potrebbe mettere in file le parole, la “hyle” del discorso, ma non potrebbe ricrearne la “morfè”, ossia la loro unità di senso. L’aspetto performativo del discorso è del tutto assente da un programma, per l’ovvia ragione che dietro le parole messe in fila da una macchina non c’è nessuna vera “decisione” e quindi nessuna vera “presa di posizione” nell’essere. Cosa che invece dovevano fare per forza i condannati a morte: sotto tortura le parole chiave, “si” o “no”, diventano trigger di fatti e mutamenti di stati dell’essere. Il computer invece può far apparire sullo schermo delle lettere, ma non può modificare nulla nello stato dell’essere. Potrebbe essere quindi che la comparsa di questi programmi in grado di simulare alcuni aspetti del discorso umano abbiano come risultato…
da Il fatto quotidiano, 24 setttembre 2020