Note in margine all’uso della “intelligenza artificiale”

La cosiddetta intelligenza artificiale è ancora difficile da decifrare. I suoi algoritmi sono a un livello di complessità che mi (che ci) sfuggono. Tuttavia una cosa forse si può dire: se la AI combina in modo casuale ma statisticamente significativo le parole, è come se sfornasse a getto continuo delle ipotesi.

Ora noi sappiamo da tempo che la dialettica pensiero-realtà funziona in quello che chiamiamo “scienza” proprio perché noi costruiamo una ipotesi, ricaviamo per via deduttiva una conseguenza seguendo lo schema “if-then” e poi andiamo a controllare nella realtà tramite l’esperimento se l’ipotesi e la conseguenza sono corretti.

Dovremmo applicare lo stesso schema anche alla intelligenza artificiale, o meglio, dovremmo inglobare la intelligenza artificiale in questo schema dialettico con la realtà. La macchina, non avendo i nostri bias, può produrre ipotesi a getto continuo senza lasciarsi influenzare e quindi può “trovare” qualcosa di nuovo e “fare scoperte” nel senso che a furia di sparare a caso può capitare che qualcosa a cui nessuno aveva mai pensato tanto sembrava incredibile può avere invece un importante valore euristico

Naturalmente è essenziale il controllo dei risultati. Questo è il ruolo che noi umani dobbiamo tenerci stretti e valorizzare al massimo. La differenza tra un uso “intelligente” e un uso “non intelligente” della cosiddetta intelligenza artificiale sta proprio qui: accettare passivamente quello che la macchina ci dice è stupido, perché è solo una ipotesi “lanciata là” dalla macchina, anche se con il supporto di migliaia e migliaia di casi precedenti. Certamente la tentazione di saltare questo passaggio e affidarsi direttamente al responso della macchina è fortissimo, perché statisticamente sappiamo già che nella stragrande maggioranza dei casi l’ipotesi che la macchina ci restituisce funziona.

E’ un po’ come quando accendiamo la luce in camera nostra: in realtà stiamo compiendo l’ennesimo esperimento sulla conduzione della corrente elettrica nei fili e sulla emissione di fotoni in particolari condizioni. Ci stiamo accodando alla sterminata fila di chi ha compiuto questo esperimento prima di noi, tanto che nessuno lo considera più, in effetti, un esperimento. Eppure potrebbe darsi che, in qualche particolare circostanza (un campo elettromagnetico, una particolare temperatura o chessò io) l’esperimento non funzioni. Ovvio che nel mio esempio, volutamente semplice, la probabilità di scoprire qualcosa di nuovo è davvero bassa. Eppure girare l’interruttore non è la stessa cosa che svolgere una operazione di aritmetica: qui si, davvero, non c’è più nulla da scoprire.

Tutto questo ha evidenti ricadute anche sulla didattica. Dobbiamo aiutare i nostri ragazzi a considerare la cosiddetta intelligenza artificiale come una estensione delle proprie capacità di produrre ipotesi e non come un’oracolo che dà le risposte finali e definitive sulla realtà.

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