Forse siamo ancora in tempo

Forse siamo ancora in tempo per cercare di trarre qualche insegnamento da questi mesi difficili. Perché, certamente, bisogna che non siano passati invano; e che qualcosa rimanga, e che possa modificare il qualche misura quello che verrà dopo. Sarebbe terribile se alla fine ci dicessimo: ok ragazzi, l’emergenza è finita, a che pagina eravamo rimasti?
Io sostengo che questi mesi sono l’occasione per una specie di «esperimento filosofico» che mai avremmo tentato da soli e che potrebbe aiutarci a capire di più e meglio in che cosa consista il processo di apprendimento/insegnamento (certo: io parto dal presupposto che ci sia qualcosa da capire e da capire sempre meglio. Chi pensa di aver già capito tutto, in effetti, potrebbe anche fermarsi qui, con la mia benedizione).
In sostanza si tratta di questo: adesso che abbiamo provato a imparare e a insegnare a distanza, possiamo confrontare questa esperienza con quella di prima, ossia l’imparare e l’insegnare in presenza. Cosa è rimasto uguale? Cosa è cambiato? Cosa manca nell’uno? Cosa manca nell’altro? Come quando si confrontano due grafici, o due fotografie scattate a distanza nel tempo, dovrebbero emergere somiglianze e difformità, permanenze o assenze (ovvero nuove presenze).
Quelli che dicono «lezione in presenza, I love you!» di solito dicono: la presenza fisica è essenziale per quel flusso di scambi emotivi essenziali per l’apprendimento. Quando chiedo ai miei studenti, mi rispondono: «in classe, se non capisco un passaggio in un problema di matematica alzo la mano e la prof viene e mi fa vedere come si fa». Tutto qui? Really?
I ragazzi dicono: vogliamo tornare in presenza perché ci mancano i compagni. Tutto qui? Really? Ma la scuola non è la succursale dell’oratorio, del bar o del muretto. O si?
Più di uno studente mi confessa: beh tutto sommato ascolto la lezione, faccio i compiti, studio il manuale o il Filo di Arianna più o meno come prima.
(certo: se ha ragione McLuhan con la sua tesi per la quale l’invenzione della stampa, creando il libro come lo conosciamo noi, ha generato l’individuo moderno, è chiarissimo questo punto. «Io» sono il soggetto che studia, e studio veramente quando sono davanti a un testo che devo assimilare: questo è un processo che in realtà non ha bisogno di altri e quindi può tranquillamente continuare a svolgersi anche durante la didattica a distanza. E allora, fatta la tara sulla dimensione «conviviale» dello stare a scuola (che comunque non ci sarà ancora per molti mesi, dato che dovremo stare si in aula ma rispettando rigide misure di distanziamento), quale sarebbe il vantaggio di andare fisicamente a scuola?
Insomma, io credo in questo momento che la questione possa sintetizzarsi così: il processo di apprendimento è individuale o comunitario? O meglio: in che misura è individuale e in che misura è comunitario, dato che nelle cose umane è ben rara una contrapposizione assoluta?
Se è individuale (ossia, il singolo soggetto che si mette davanti a un libro e lo studia) è chiaro che non c’è troppo bisogno di tornare fisicamente a scuola (se non, al massimo, per verificare le conoscenze apprese)
Se è comunitario, allora effettivamente il recarsi fisicamente a scuola ha un suo senso, anche se è facile ribattere che se la «comunità» è «spirituale» può benissimo anche realizzarsi con una buona connessione internet e che, di nuovo, l’essere in presenza sembra mettere in gioco soprattutto i corpi e la corporeità.
Ma cosa vuol dire un «apprendimento comunitario» in un liceo?
Forse varrebbe la pena riconoscere che ogni «materia» ha la sua specificità: a parte educazione fisica (che ovviamente senza i «corpi» non ha quasi senso) posso immaginare che le lingue, per esempio, hanno un bisogno essenziale della conversazione; se biologia e fisica venissero fatte in modo sperimentale, nei laboratori o addirittura in certi casi nel giardino del liceo, ovviamente andrebbero fatte «in presenza» (usare il meraviglioso repertorio virtuale di PhEt https://phet.colorado.edu/it/ è certamente utile, ma priva per definizione della possibilità di confrontarsi con l’inaspettato, visto che quello che si vede sullo schermo è il risultato di un programma progettato da umani per umani). È più facile immaginare cosa potrebbe essere una discussione sul senso della giustizia in filosofia o sull’esperienza estetica davanti all’Infinito di Leopardi.
Sarei curiosi di sentire le vostre opinioni….

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