Lettura commentata di Baudrillard La società dei consumi 3 Lo spreco

Il tema dello spreco viene quasi sempre affrontato in un’ottica moralistica: ci si chiede, più o meno scandalizzati, per quale motivo noi uomini occidentali post-moderni non sappiamo evitare di sprecare quei beni (anche essenziali) che rappresenterebbero invece per gli uomini del terzo mondo una vera manna dal cielo. Siccome questa sembra una osservazione semplice, ci si chiede perplessi come mai questa situazione di spreco, a livello personale e collettivo, si perpetua negli anni in modo apparentemente inspiegabile.
In realtà, dice Baudrillard, «tutte le società hanno sempre sprecato, dilapidato, speso e consumato al di là dello stretto necessario, per la semplice ragione che è nel consumo di una eccedenza, di un surplus, che l’individuo, come la società, si sentono non semplicemente esistere ma anche vivere…La nozione di utilità, di origine razionalistica ed economicistica, è dunque da rivedere secondo una logica sociale molto più ampia in cui lo spreco, lungo dall’essere un residuo irrazionale, assume una funzione positive, sostituendo l’utilità razionale in una funzionalità sociale superiore… al limite appare come la funzione essenziale: il surplus di spesa, il superfluo, l’inutilità virtuale della spesa per nulla divengono il luogo della produzione dei valori, delle differenze e del senso, tanto sul piano individuale che su quello sociale… uno dei problemi posti dal consumo è il seguente: gli esseri si organizzano in funzione della loro sopravvivenza o in funzione del senso, individuale o collettivo, che essi danno alla loro vita?»
La logica dello spreco contrapposta alla logica razionale del risparmio è evidentissima nella storia europea durante il tardo medioevo, quando si confrontarono le due visioni della vita tipiche dei nobili e dei borghesi. I primi non potevano concepire il «calcolo» economico: dovevano continuamente spendere generosamente, perché la loro struttura valoriale metteva al primo posto, insieme al coraggio fisico, la generosità e la liberalità. Un signore dimostrava di essere tale perché da lui fluiva una energia positiva che avvolgeva e proteggeva quanti erano vicino a lui; e questo flusso comprendeva anche la possibilità di rifornire costantemente di beni e di attenzioni i suoi amici. Il lusso dei castelli aveva il compito di abbagliare e impressionare i visitatori e far capire immediatamente che lì c’era il potere. Per i borghesi invece l’abbondanza di candele e specchi, di stoffe preziose e gioielli, di cibi raffinati e vini rari era, appunto, uno «spreco» irrazionale che contrastava direttamente con la loro scala valoriale, che invece sottolineava il risparmio, il non-consumo, l’accumulo.
La società occidentale si trova a fare la parte della classe nobile medievale: spreca senza ritegno, in modo assurdo e apparentemente senza senso, dilapidando le risorse del pianeta che con tutta evidenza non sono sostituibili. In realtà il senso esiste eccome: vogliamo sentirci esistere, vogliamo dimostrare la nostra «potenza vitale» in senso nietzschiano, vogliamo chiarire a tutti (e a noi stessi) che siamo così forti che possiamo espanderci sul mondo, e otteniamo questo col gesto del «buttare via», dello «sprecare». «È lo spreco nel suo principio e non l’utilità a essere lo schema psicologico, sociologico ed economico dell’abbondanza. Che si possa gettare via il contenitore di vetro, non è già l’età dell’oro?»
Come dire: io sono così ricco, che posso privarmi senza difficoltà delle cose che butto via. Parlando in generale, butto via ciò di cui non ho bisogno: se però posso buttare via anche le cose di cui dovrei aver bisogno, quelle che mi dovrebbero servire veramente, significa che sono talmente ricco che posso privarmi anche di una quota di esse, perché ne ho talmente tante che anche così me ne restano più che a sufficienza. Più butto via, più dimostro che sono ricco. A cosa serve questo processo, apparentemente irrazionale dal punto di vista economico? A conquistare una posizione sociale elevata. Gli uomini e le donne del mio gruppo non possono non ammirare chi è in grado di compiere questo spreco senza sparire. Si possono levare obiezioni di tipo moralistico («quei beni potevano essere donati ai poveri….») ma non si può negare una sotterranea e quasi inconscia ammirazione per la potenza di cui gode chi può buttar via cose che per gli altri sono invece essenziali.
Se davvero questo è un meccanismo profondo della nostra psiche, non abbiamo possibilità di frenarlo, se non forse ritualizzandolo e mettendolo in scena in contesti limitati e precisi dal forte valore simbolico, come facevano le società antiche di cui parla Baudrillard. Oggi invece questo meccanismo psicologico è sfuggito di mano e ha intasato tutta la dinamica dell’economia con effetti devastanti, proprio perché se ne è perso completamente il lato simbolico e viene interpretato solo sotto il profilo economico come occasione di crescita: se io butto via una cosa, poi devo sostituirla, facendo crescere la azienda che la produce. In questo senso la pubblicità ha la funzione paradossale di deprezzare l’esistente (che pure aveva fatto comprare un momento prima): essa esalta il «nuovo» (che io ho devo comprare), qualunque esso sia, e per farlo deve mettere in cattiva luce il «vecchio» (quello che ho già e che non devo più comprare).
Baudrillard porta due esempi: gli «eroi del consumo», come le star del cinema o dello sport che vengono portati a modello esattamente per il loro stile di vita eccessivo, caratterizzato dall’essere sempre «sopra le righe» (le macchine più lussuose, le ville più grandiose, i gioielli più abbaglianti, gli aerei personali sempre a disposizione per spostarsi da una parte all’altra del pianeta). Essi sono «i grandi protagonisti dello spreco» che «svolgono questa funzione per procura, per tutto il corpo sociale, come i re, gli eroi, i preti e i grandi parvenu delle epoche precedenti. Come questi del resto essi non sono mai stati così grandi come quando, al pari del James Dean, pagano questa dignità con la vita» . Assistiamo cioè a uno slittamento di funzioni psichiche, individuali e collettive, dai personaggi-simbolo delle società antiche (che però erano tali o per nascita – i nobili – o tramite un lungo processo di formazione) e nuovi personaggi-simbolo che di solito vengono catapultati sul palcoscenico sociale senza adeguata preparazione e quindi sono condannati ad essere stritolati dai meccanismi sociali. Si pensi alla parabola di tanti cantanti rock, osannati e poi dimenticati, spinti sulla via della droga e dell’autodistruzione dalla necessità di essere sempre al top delle prestazioni.
L’altro esempio è l’incidente (stradale, aereonautico, ferroviario, spaziale), descritto come un «happening gigantesco, il più bello della società dei consumi, perché nella distruzione rituale della materia e della vita si dà prova della sovrabbondanza (prova inversa ma ben più efficace per l’immaginazione profonda della prova diretta attraverso l’accumulazione)» .
Baudrillard, il cui stile è caotico e disordinato, riesce alla fine del capitolo sullo spreco a raggiungere una rimarchevole sobrietà espressiva: «La società dei consumi per essere ha bisogno dei suoi oggetti e più precisamente ha bisogno di distruggerli. L’uso degli oggetti non conduce che alla loro lenta perdita. Il valore creato è molto più intenso nella sua perdita violenta. Per questo la distruzione resta l’alternativa fondamentale alla produzione: il consumo non è che un termine che funge da intermediario tra questi due estremi…. Solo nella distruzione gli oggetti sono là per eccesso, e testimoniano con la loro scomparsa la ricchezza»

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