Il Sessantotto, in senso stretto, è stato un movimento maschile, anzi maschilista. Quando si scorrono le pagine delle cronache di quei giorni non si trovano praticamente nomi di donna, tranne rarissime eccezioni, ma solo dei loro compagni maschi. Questo non significa affatto che le ragazze fossero assenti dal movimento studentesco: al contrario, la partecipazione femminile fu sin da principio altissima (per avere un punto di riferimento, si può ricordare che dei 488 studenti denunciati nel marzo '68 il 34% erano donne). Il coinvolgimento femminile con il movimento fu altrettanto intenso che quello maschile, e per certi versi altrettanto appagante. "Tutte le donne che ho ascoltato" scrive Luisa Passerini nel suo libro Autoritratto di gruppo, "attribuiscono alla loro partecipazione al movimento studentesco valore di emancipazione dirompente".
Per la prima volta molte di loro avevano la possibilità di comportarsi come i loro compagni maschi (anche se questa parificazione avveniva spesso attraverso la provocatoria riproduzione dei loro comportamenti, come dire parolacce o fumare, soprattutto in pubblico).
Tuttavia esisteva una ambiguità di fondo. Le ragazze, pur partecipando alle occupazioni e alle manifestazioni, erano di fatto relegate a funzioni di secondo piano, come preparare i pasti oppure far funzionare i ciclostili. Questa divisione di ruoli era qualcosa di automatico, quasi scontato. Antonella Nappi, una delle pochissimi leader femminili dell'università di Milano, ricordò in un'intervista concessa a Panorama nel 1988 come alla vigilia della prima occupazione i maschi, "per paura di provocare scandalo", proposero di essere i soli a dormire all'interno della facoltà (proposta sdegnosamente respinta dalla Nappi).
[tab=La rivoluzione sessuale}
L'ondata emotiva che il Sessantotto portò con sé travolse effettivamente molti tabù che ingessavano la vita dei giovani, e uno di quelli che saltò più rapidamente fu quello della verginità. Il fatto di avere disinvolti rapporti sessuali venne inizialmente presentato come un elemento di liberazione, perché infrangeva la vecchia morale un po' bigotta che imperava in molte famiglie italiane.
Ben presto però "l'altra metà del cielo" si accorse che questo cambiamento nei costumi non aveva affatto modificato i vecchi rapporti di potere tra i sessi, e meno che mai si era tradotto in una reale uguaglianza tra di essi. Di fatto, all'interno del gruppo (o del "branco", secondo l'espressione del leader torinese Guido Viale) era socialmente molto importante per una ragazza riuscire a conquistare le simpatie sessuali del capetto di turno, perché questo era l'unica via che le avrebbe permesso di entrare (sia pure in posizione di sottordine) nel ristretto giro di persone che realmente contavano all'interno del gruppo stesso. Una lettera pubblicata nel luglio 1976 su "Ombre rosse", foglio vicino alle posizioni di Lotta continua, raccontava l'esperienza personale di "Chiara":
"Nel '68 ho cominciato a vedere questi ragazzi con la barba e con l'eskimo, e la faccia simpatica, mi dava l'idea di gente che si divertiva, così ho smesso di andare a ballare e sono entrata a palazzo Campana [la sede delle facoltà umanistiche a Torino] e mi sono installata. La mia partecipazione consisteva nel fatto che mi ficcavo con gli uomini che facevano il '68, pranzavo con A e con B, ma non capivo quello che dicevano... La cosa positiva che riuscivo ad afferrare era che questa gente voleva cambiare il mondo, che si era in tanti, che la rivoluzione era vicina. Il lavoro non aveva più senso, bisognava solo fare politica... Una doveva fregarsene totalmente di tutto quella che era la sua crescita personale, i propri bisogni più importanti. In realtà l'unico tipo di rivoluzione che facevo io era sessuale, ma sbagliata. Facevo l'amore con tantissimi in modo disperato, perché non avevo nessuno che mi desse un po' di tenerezza.. Era un'ideologia terrorista e fascista verso le donne. Un famoso leader diceva 'vado a pisciare in figa' (forse il compagno non era capace di migliori prestazioni)... Nel 1972 ho avuto una figlia, una cosa completamente incosciente: avevo bisogno di privati, intimità, di vivere decentemente, dopo anni di cucine fatiscenti, cessi schifosi, volevo il passaggio dalla bestia all'uomo (chi ha detto che per essere compagni bisogna vivere come delle bestie?)".
Proprio sul piano sessuale, invece, venivano riprodotti all'interno del movimento gli stereotipi tradizionali. Anche Antonella Nappi, nell'intervista sopra ricordata, ricorda che all'inizio degli anni Settanta, quando la libertà sessuale aveva ormai preso piede, le ragazze in realtà "erano oppresse dal «dovere di starci»".
Marinella Sclavi, compagna di Mauro Rostagno, conferma: "Queste ragazze avevano il dramma, che io consideavo un po' con spirito materno: «sono ancora vergine, com'è possibile? devo trovare un modo per eliminare il problema»". Luisa Passerini, nel libro già citato, riassume la questione ammettendo che quello della liberazione sessuale fu "uno dei punti più dolenti" e un "processo tra i più ambivalenti per come si realizzò in quegli anni".
In realtà il primo documento del femminismo italiano risale al 1° dicembre 1966: si tratta del Manifesto programmatico di un gruppo nato l'anno precedente sotto la sigla Demau (Demistificazione dell'autoritarismo patriarcale). Il Demau contestava soprattutto la politica di integrazione della donna nella società, attraverso le leggi e i provvedimenti "di favore" verso la donna che vuole entrare nel mondo del lavoro. La società però (questa era la critica) non viene modificata nelle sue strutture profonde, che sono e restano essenzialmente maschili. Il gruppo Damau non ebbe però una grande diffusione e nel 1968 a causa di una scissione perse buona parte delle sue aderenti. In quegli anni d'altra parte, come abbiamo visto, le ragazze preferivano entrare nel più vasto "movimento studentesco" universitario, che in quel momento appare vincente e sembra ancora garantire una precisa costellazione di ideali. Nel giro di un paio d'anni però le cose cambiarono radicalmente, a causa dell'incapacità della nuova sinistra di affrontare la questione femminile. "Portatrice di una coscienza infelice, la donna acquista la consapevolezza che questa sua condizione subalterna nessuno sa e vuole modificarla, all'infuori di lei stessa" (Monicelli). Nel 1970 nascono così uno dopo l'altro
Contemporaneamente escono le prime riviste, tra cui Effe, e poco più tardi i "numeri unici" di Sottosopra. Nel 1970 apparve anche il Manifesto di Rivolta femminile, di Carla Lonzi, una delle prime e più attive femministe. A lei va il merito di aver introdotto la nozione di differenza sessuale, un concetto denso di conseguenze.
Così quest'idea veniva presentato all'inizio del Manifesto:
"La donna non va definita in rapporto all'uomo..... L'uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna. La donna è l'altro rispetto all'uomo. L'uomo è l'altro rispetto alla donna". La dignità della donna, perciò, non viene raggiunta attraverso un'astratta uguaglianza con l'uomo: "L'uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli,,, Liberarsi, per la donna, non vuol dire accettare la stessa vita dell'uomo... ma esprimere il suo senso dell'esistenza."
Esiste una differenza essenziale e irriducibile tra i due punti di vista, quello maschile e quello femminile, sulla realtà. Proprio per la presenza di questa intuizione, molti temi tipici del Sessantotto studentesco (l'antiautoritarismo, lo spontaneismo, il rifiuto della delega) si ritrovano anche nel movimento femminista dando però vita a percorsi e soluzioni diversissime da quelle vissute nelle grandi università.
Infatti la prima forma "politica" in cui le femministe si riconobbero fu quella del piccolo gruppo di sole donne che fanno autocoscienza, ossia che parlano di sé o di qualunque altro argomento ma partendo dalla propria esperienza personale. La pratica dell'autocoscienza venne introdotta negli Stati Uniti verso la fine degli anni Sessanta e da qui passò in tutti i paesi industrializzati dell'Occidente. In fondo si trattava di recuperare e di dare dignità politica alla prassi tipicamente femminile di trovarsi tra donne per parlare delle proprie cose al riparo dall'orecchio maschile. Per questo la pratica dell'autocoscienza ebbe un successo così ampio: per la prima volta le vicende femminili venivano ascoltate, accolte, valorizzate pubblicamente, là dove un tempo le esperienze si disperdevano in un pulviscolo senza forma. Il presupposto che rendeva possibile questo processo era la consapevolezza di una identificazione reciproca, che a sua volta veniva rafforzata dall'ascolto della testimonianza altrui. "L'atto politico" per eccellenza era la presa di coscienza di questa identità, che non poteva e non dovere avvenire attraverso complicate mediazioni. Tra il '72 e il '74, il piccolo gruppo di donne che si riuniscono per parlare della propria esperienza restò la forma politica tipica del femminismo italiano. "Il personale è politico" fu lo slogan con il quale venne riassunta questa esperienza, e che viene così commentato dallo storico inglese Ginsborg.
"La liberazione [della donna] non doveva essere rinviata fino a dopo la rivoluzione, ma doveva iniziare subito nel privato, nei rapporti quotidiani tra donne, uomini e bambini; solo così sarebbe stato possibile raggiungere in seguito una trasformazione più completa... Questo tentativo di redifinire le basi stesse della politica, per quanto utopistico, fu straordinariamente nuovo e in netto contrasto con i vecchi modelli sia della sinistra tradizionale sia della nuova sinistra".
In effetti si trattava di un percorso peculiare e ben diverso da quello delle altre componenti del Sessantotto, tanto diverso da sfociare in una vera estraneità. Là la grande assemblea, qui il piccolo gruppo là il leader o il piccolo gruppo che trascina gli altri, qui l'ascolto reciproco là un uso della parola finalizzato a persuadere e a convincere, attraverso tutti i giochi della retorica; qui un parlare che ha come proprio scopo e giustificazione il manifestarsi, il rivelarsi reciproco.
Cominciò però a mostrarsi il limite fondamentale della prassi dell'autocoscienza: l'impossibilità di andare oltre, di trovare uno sbocco pratico, di individuare una modalità operativa che permettesse di cambiare effettivamente il mondo. Le reazioni dell'universo maschile furono sostanzialmente miopi, come riconosce lo stesso Luigi Bobbio, leader di Lotta continua: "i partiti della nuova sinistra per la loro stessa struttura (nettamente maschile) e il loro orizzonte culturale (marxista-operaista) sono istintivamente sospettosi, e più spesso ostili, verso le tematiche radicali della liberazione femminile". Lo erano a tal punto che la prima grande manifestazione del movimento femminista venne polemicamente disturbata proprio da un gruppo di compagni di Lotta continua.
Da quello che si legge nelle interviste e nelle ricostruzioni di quegli anni, sembrerebbe che gli uomini non abbiano capito assolutamente nulla, o quasi nulla, dei sentieri tutti femminili che le loro compagne stavano aprendo. Le testimonianze e i ricordi maschili insistono sul desiderio sessuale, ora frustrato, ora appagato; si concentrano sugli aspetti esteriori (la minigonna prima, le gonne fino alla caviglia poi); si appuntano perplessi e scettici sul rifiuto rabbioso del maschio in quanto tale da parte di certi gruppi femministi. La memoria maschile riacquista sicurezza solo quando incrocia dei temi in qualche modo riconducibili alle richieste tipiche del sindacalismo e della politica tradizionali (cioè, appunto, essenzialmente maschili): per esempio, la lotta per il salario alla casalinghe. Questo obiettivo però era proprio solo di una parte del movimento femminista, quella che si riconosceva nella formazione politica Lotta femminista. Molte altre donne rifiutavano questa proposta per lo stesso motivo per cui essa appariva era chiara e comprensibile per la maggior parte dei maschi: essa reintroduceva una logica tradizionale (cioè maschile) nel campo dell'azione femminista.
Già nel gennaio 1975 il collettivo di via Cherubini scriveva: "l'aborto di massa negli ospedali non rappresenta una conquista di civiltà perché è una risposta violenta e mortifera al problema della gravidanza e, per di più, colpevolizza ulteriormente il corpo della donna". La proposta di questo e di altri gruppi era la semplice depenalizzazione dell'aborto. Tuttavia la "posizione dei gruppi autonomi non riuscì a controbilanciare la provocazione sociale e politica diretta alle donne... non riuscì a modificare lo schema politico prevalente che spingeva a mobilitarsi per la legalizzazione dell'aborto" (Libreria delle donne). La legge sull'aborto venne definitivamente approvata solo il 22 maggio 1978.
"Quando la legge fu approvata ed entò in vigore, le donne stesse che l'avevano voluta si resero conto che essa rispecchiava fedelmente le esigenze, le preoccupazioni e i compromessi di coloro che l'avevano fatta, uomini, con l'occhio attento a un corpo sociale dopo il punto di vista maschile era ben chiaro e prevalente. Il più violento mezzo di controllo delle nascite era ormai entrato ufficialmente fra le norme che regolano la società" (Libreria delle donne).