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Gli operai e il '68

Indice dell'articolo

Uno degli aspetti storicamente e ideologicamente più importanti del Sessantotto italiano è stato il tentativo di realizzare l'unificazione tra il mondo degli studenti e quello degli operai. Questo obiettivo strategico della sinistra rivoluzionaria, intravisto e anticipato da qualche rivista negli anni Sessanta, fuggevolmente realizzato nelle settimane del Maggio francese, verrà perseguito lungamente dalle formazioni politiche italiane dell'ultrasinistra e alla fine verrà mancato.

Ma quali erano le condizioni degli operai italiani?

Negli anni Cinquanta la domanda di lavoro eccedeva l'offerta e il potere del sindacato era molto limitato: di conseguenza i salari restavano relativamente bassi.

Negli anni del boom economico una grande massa di persone si spostò dalle zone rurali nelle città e dal meridione verso il cosiddetto "triangolo industriale", ossia la zona compresa tra Milano, Torino, Genova. Inizialmente questo flusso di manodopera, scarsamente qualificata, veniva assorbito dalle aziende edili, spesso attraverso le cosiddette "cooperative", organizzazioni illegali che "piazzavano" i nuovi arrivati (naturalmente senza contratto né copertura assicurativa) presso gli imprenditori che ne avevano bisogno. Ma anche nelle piccole e medie aziende le condizioni di lavoro erano dure:

  • l'orario di lavoro, compresi gli straordinari, scendeva raramente sotto le 10-12 ore di lavoro,
  • i contratti erano sempre molto brevi (3-6 mesi) e
  • la mobilità assai elevata.

A Torino, contrariamente a quanto sarebbe avvenuto in seguito, le grandi industrie automobilistiche preferivano assumere operai piemontesi, che venivano considerati più "tranquilli" .

La situazione si modificò agli inizi degli anni Sessanta: da un lato la diffusione della catena di montaggio, con i suoi ritmi ripetivi e sempre più veloci, peggiorò le condizioni di vita degli operai comuni; d'altro lato questi ultimi cominciavano a sentirsi più sicuri di se stessi. Le vecchie "cooperative" erano state messe fuori legge e gli operai meridionali non erano più considerati con ostilità dai loro compagni di lavoro. Nel 1962, quando venne il momento di rinnovare il contratto di lavoro dei metalmeccanici, il sindacato chiese:

  • la riduzione dell'orario da 44 a 40 ore settimanali
  • cinque giorni lavorativi nziché sei
  • una diminuzione delle differenze salariali
  • l'abolizione del "premio di collaborazione"
  • una maggior libertà per i sindacalisti all'interno delle fabbriche.

Ne seguì un'ondata di scioperi senza precedenti: andarono perse più di 180.000 ore lavorative, un picco superato solo durante l'"autunno caldo" del 1969.

A giugno vennero indette alcune giornate di sciopero nazionale per i metalmeccanici. Decisivo era l'atteggiamento dei 93.0000 operai della FIAT, da sempre restii alla lotta sindacale: ma in occasione della terza giornata di sciopero, il 23 giugno, per la prima volta la maggioranza delle maestranze del colosso torinese si rifiutò di varcare i cancelli della fabbrica. Quindici giorni più tardi, il 7 luglio, un nuovo sciopero sfociò prima in violenti scontri ai cancelli delle fabbriche e poi, quando si sparse la notizia di un accordo separato con la direzione della FIAT, in una vera e propria battaglia con la polizia nella centralissima piazza Statuto. Gli scontri durarono fino a notte fonda e ripresero il 9. I dirigenti comunisti sostennero già in questa occasione la tesi secondo cui gli incidenti erano stati causati da "agenti provocatori", ma in realtà la piazza era piena di operai giovani e giovanissimi, per lo più meridionali, aiutati da alcuni ex-partigiani.

Negli anni immediatamente successivi le relazioni tra operai e padronato sembrò attraversare una fase di relativa calma, anche perché il massiccio flusso migratorio dal sud aveva subito un rallentamento, a causa della crisi appena trascorsa. Nel 1967 si ebbe invece un nuovo e intenso afflusso di immigrati, proprio quando chi era arrivato con la "prima ondata" era riuscito faticosamente a risolvere i propri problemi abitativi. Questi nuovi immigrati differivano da quelli di 6-7 anni prima anche per un altro importante aspetto: la crescita della scolarizzazione nei primi anni Sessanta, nonostante il carattere tradizionale e conservatore della scuola italiana, aveva contribuito a fornire alle nuove generazioni di operai una migliore cultura generale e una maggiore consapevolezza di sé. "Non è difficile supporre un legame tra l'aumento dell'istruzione e l'autunno caldo" (P. Ginsborg).

Gli operai, dunque, erano cambiati, ma era cambiata anche l'offerta di lavoro.

Nonostante la ripresa economica in corso dal 1966, non esistevano posti di lavoro sufficienti. Le grandi fabbriche avevano bisogno di una manodopera ben caratterizzata: maschio, sopra i 21 anni, in possesso di un diploma, con una minima esperienza delle condizioni di vita di una città. La disponibilità di maestranze del nord con queste caratteristiche si andava assottigliando, e per la prima volta la Fiat e le altre grandi industrie del triangolo industriale furono costrette ad assumere un gran numero di operai meridionali. Le ristrutturazioni che si erano succedute nelle aziende sulla base delle "analisi tempi e metodi" avevano portato ritmi di lavoro maggiori e una meccanizzazione più spinta. La diffusione del sistema di pagamento a cottimo aveva creato molte divisioni tre gli operai, e si era venuta a creare una profonda frattura tra la base operaia e le organizzazioni sindacali. In effetti le "commissioni interne" delle fabbriche, formate dagli operai, finivano spesso per rappresentare solo una ristretta minoranza dei lavoratori: per esempio alla Borletti di Milano questa struttura sindacale era tradizionalmente appannaggio di operai di sesso maschile con una notevole anzianità di servizio, mentre la grande maggioranza dei lavoratori, dopo le ultime assunzioni, era di sesso femminile e con una età media piuttosto bassa. Il risultato era che le lamentele delle lavoratrici trovavano ben scarsa eco all'interno della commissione.

Le prime lotte operaie si svolsero non nelle grandi fabbriche ma nelle aziende periferiche, là dove il sindacato era particolarmente debole o assente. In effetti una caratteristica della prima fase delle lotte operaie fu il fatto che i sindacati ufficiali vennero colti di sorpresa e continuamente scavalcati dalle iniziative della base. Il primo scontro ad avere ampia risonanza sulla stampa fu quello della Marzotto. Si trattava di una azienda del ramo tessile, fondata nel 1836 e gestita secondo una politica paternalistica a ispirazione cattolica. Ma quando un tentativo di ristrutturazione minacciò 400 posti di lavoro gli operai reagirono senza passare per la mediazione del sindacato (d'altronde quasi inesistente). Il 19 aprile 1968 ben 4000 dimostranti marciarono nel centro di Valdagno, il paese del Veneto dove aveva sede la fabbrica, e abbatterono la statua del conte Gaetano Marzotto, fondatore della ditta. L'episodio destò enorme scalpore. La polizia reagì compiendo 41 arresti, il consiglio comunale, a maggioranza DC, si schierò con i lavoratori chiedendo l'intervento del governo e la direzione della Marzotto arrivò a un frettoloso accordo con la CISL, il sindacato cattolico.

Molti osservatori non resistettero alla tentazione di collegare i fatti di Valdagno con quanto stava avvenendo proprio in quei giorni nelle università italiane, ma in realtà la rivolta alla Marzotto non aveva legami con la protesta studentesca.

I rapporti tra universitari e operai, seguendo l'esempio fugace e passeggero del maggio francese, cominciarono a crearsi nell'estate del '68 grazie all'opera di "picchettaggio" effettuata dagli studenti ai cancelli delle fabbriche. Durante i "picchetti" venivano distribuiti volantini e si discuteva. Le iniziative di lotta partivano per lo più dagli operai specializzati, ma poi venivano fatte proprie e guidate dagli operai comuni, verso obiettivi più radicali. Se le richieste più elementari miravano all'abolizione del cottimo e alla riduzione dei ritmi di lavoro, si passò presto a cercare di ridurre le differenze salariali tra operai e impiegati o tra operai di diverse regioni (le cosiddette "gabbie salariali", per le quali gli operai meridionali potevano venire pagati di meno, a parità di lavoro svolto, rispetto agli operai del nord). Quest'ultimo punto fu oggetto nel 1969 di una campagna di lotta così prolungata e intensa da ottenere infine una completa vittoria.

Un'altra richiesta molto frequente riguardava il passaggio automatico, per anzianità, alla categoria contrattuale e salariale superiore. Molto estesa fu anche la lotta contro i lavori pericolosi o nocivi per la salute, e contro gli incentivi con i quali si convincevano gli operai a correre i rischi maggiori. Ma la richiesta in assoluto più rivoluzionaria fu quella di considerare il salario come una "variabile indipendente", come si diceva allora, ossia come un fattore non legato alle redditività, alla situazione economica o ai profitti dell'azienda.

Richieste così estreme non potevano certo provenire dai sindacati tradizionali: in effetti provenivano soprattutto dai Cub (Comitati unitari di base), lontani antenati dei Cobas. Uno dei primi Cub fu quello della Pirelli, fondato nel giugno 1969 da un gruppo di impiegati e operai e aderenti ad Avanguardia Operaia. I Cub ricorrevano a forme di coinvolgimento e di lotta del tutto nuove. Prima di tutto veniva incoraggiata la partecipazione diretta quale unico strumento per tenere sotto controllo la dirigenza sindacale: di conseguenza lo strumento fondamentale di questa nuova fase sindacale fu, come per gli studenti, l'assemblea.

La lotta assunse poi forme nuove: non solo il lavoro veniva spesso interrotto anche durante le trattative, cosa che non accadeva con i vecchi sindacati, ma cambiò il modo stesso di scioperare. L'obiettivo era quello di creare il massimo danno all'azienda con il minimo impegno da parte degli operai: comparve quindi lo "sciopero a singhiozzo", che alternava brevi momenti di lavoro a lunghe pause di tutta la fabbrica, e lo "sciopero a scacchiera", durante il quale tutto il processo produttivo veniva bloccato dal fatto che in momenti diversi della giornata c'era sempre qualche reparto o addirittura solo qualche operaio della catena in sciopero. Il protagonista di questa lotta era il cosiddetto "operaio-massa", ossia l'operaio con scarsa qualifica professionale, spesso giovane e meridionale, senza alcuna esperienza sindacale alle spalle. Per questo la protesta nacque contro il sistema capitalista e contro il sindacato, che veniva percepito come un elemento del sistema, e molto spesso non si limitò alla dimensione verbale: "In molte fabbriche i capi-squadra non erano più in grado di esercitare alcuna autorità, e anzi gli operai in lotta richiedevano che i più autoritari di loro venissero rimossi dall'incarico; spesso capetti e dirigenti di basso rango erano minacciati di violenza fisica, e talvolta venivano picchiati fuori dalla fabbrica da gruppi di operai (i cosiddetti «pestaggi di massa»)" (Ginsborg).

Come osserva Luigi Bobbio, l'esperienza della Fiat Mirafiori è particolarmente significativa: "Era il luogo naturale per questo salto di qualità: non solo per la sua dimensione o per la centralità che il settore dell'auto ha, ma soprattutto perché qui, in misura maggiore che altrove, la ristrutturazione e la taylorizzazione (la razionalizzazione spinta del processo produttivo) del lavoro hanno dato vita alla nuova composizione di classe, con al centro gli operai comuni, senza mestiere, in prevalenza immigrati, portatori di una carica di rivolta, non mediata dalla cultura dei partiti della sinistra e dai sindacati".

La lotta alla Fiat inizia nel maggio del 1969, dapprima in una officina specializzata (il reparto ausiliario, circa 8000 operai) per poi coinvolgere, verso la fine del mese, gli operai carrellisti e delle presse, ossia manovalanze meno qualificate. Compaiono i primi cortei interni. Il 28 maggio, mentre questa prima fa si chiude con un accordo siglato dai sindacati, gli operai delle officine terminali (lastro-ferratura, verniciatura e montaggio), i meno qualificati di tutti, decidono autonomamente di entrare in sciopero. Trovano l'appoggio degli studenti universitari, che li incontrano ai cancelli della fabbrica. La lotta prosegue fino ai primi di luglio, quando i sindacati ufficiali promuovono per il 3 del mese uno sciopero generale contro il rincaro degli affitti, un problema molto sentito in quel periodo. Gli operai della Fiat, in aperta polemica con il sindacato, sfilano in un corteo autonomo al rimbombare dello slogan "Cosa vogliamo? Tutto!". La polizia attacca il corteo: gli operai reagiscono, erigendo barricate in corso Traiano e dando vita a scontri fino a tarda sera ("battaglia di corso Traiano").

Di fronte al rischio della radicalizzazione dello scontro sociale, la strategia dei sindacati fu quella di adattarsi alla situazione "cavalcando la tigre", come si diceva allora. Sia la CGIL (comunista) sia la CISL (cattolica) assunsero posizioni più radicali rispetto a quelle del PCI e della DC e decisero di incanalare le energie e la combattività del mondo operaio per ottenere una trasformazione duratura del mondo del lavoro. Il primo episodio in cui questa strategia venne messa alla prova fu il cosiddetto "autunno caldo" del 1969, quando un milione e mezzo di lavoratori venne chiamato allo sciopero in occasione del rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Fu un grande successo dei sindacati, che ottennero aumenti salariali uguali per tutti, la settimana lavorativa di 40 ore (da introdurre nei tre anni successivi), particolari agevolazioni per gli apprendisti e per i lavoratori studenti. Nonostante che gli una parte degli industriali vedesse questo contratto come una sorta di "anticamera della rivoluzione", esso di fatto bloccò la possibilità di "fughe in avanti" da parte della classe operaia, riconfermando il ruolo guida del sindacalismo moderato: il numero degli iscritti ai principali sindacati crebbe notevolmente, aumentando in proprozione la loro forza contrattuale. Fu a questo punto che si fece largo tra i dirigenti sindacali l'idea che l'energia sprigionata dalle lotte dei lavoratori potessero e dovessero sfruttare per ottenere dalle forze politiche riformi sturtturali per il mondo del lavoro e per il paese tutto. In questo modo però il campo d'azione dei sindacati si ampliò notevolmente, affiancandosi e talvolta venendo a intereferire con la sfera più squisitamente politica propria dei partiti tradizionali. Uno dei primi episodi in cui si verificò questa situazione fu la lotta per la riforma dell'edilizia pubblica. Già nel novembre del 1969 i sindacati proclamarono sul problema della casa uno sciopero generale, che vide una partecipazione massiccia e che portò all'apertura di trattative dirette con il governo. Dopo molti mesi di negoziati, punteggiati da numerosi scioperi, venne approvata una legge che riordinava e sistemava il settore dell'edilizia pubblica, affidandone la gestione agli enti locali: i risultati effettivi rimanevano molto al di sotto delle richieste iniziali dei sindacati, e una delle ragioni è da imputare probabilmente allo scarso coordinamento tra sindacati e partiti politici tradizionali. Il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, espresse pubblicamente nel 1971 le sue perplessità e le sue riserve sull'intervento dei sindacati, indebolendo di fatto la pressione favorevole alla riforma.

Questo sforzo "politico" alla lunga ebbe ripercussione negative anche sul sindacato. Infatti la necessità di presentarsi come una forza "non estremista" portò la dirigenza a non sviluppare tutte le possibili forme di lotta (per esempio, a proposito del problema della casa si rinunciò al coinvolgimento diretto degli inquilini). Vittorio Foa commenta così la situazione che si venne gradualmente a creare: "Ogni volta che si arricchiva la figura istituzionale del sindacato, il suo ruolo dirigente nelle grandi scelte della nazione, diminuiva la sua forza reale perché si attenuava il rapporto con la base sociale".

Negli anni immediatamente successivi la lotta per migliori salari e migliori condizioni di lavoro si estese un po' a tutte le categorie di lavoratori, compresi gli impiegati, i lavoratori del settore pubblico e gli addetti del terziario: da questo punto di vista il biennio 1970-71 fu certamente tra i più travagliati della storia d'Italia. Nelle fabbriche CGIL, CISL e UIL (socialista) si ritrovarono su posizioni sempre più vicine, fin quando nel luglio del 1972 non si riunirono in un'unica confederazione, nota come "Triplice". La loro vittoria più recente era costituita dall'introduzione dei consigli di fabbrica, al posto delle vecchie commissioni interne, per garantire la rappresentatività tutti gli operai: composti da rappresentanti di tutti i reparti della fabbrica e aperti a tutti i lavoratori. I consigli di fabbrica vennero osteggiati sia dagli imprenditori sia dai gruppi dell'extrasinistra rivoluzionaria, per ragioni opposte ma speculari: entrambi temevano di perdere il controllo degli operai a favore dei sindacati tradizionali. In effetti i consigli di fabbrica, composto da rappresentanti eletti in tutti i reparti della fabbrica, sembrava da un lato rispondere alle esigenze di democrazia diretta avanzate dalla base, ma dall'altro consentì ai sindacati di riprendere il controllo della situazione all'interno delle fabbriche.

Dopo il '71, con il diffondersi di una grave crisi economica, aggravata in seguito dalla crisi petrolifera, il tono delle lotte sindacali cambiò: non si trattava più di strappare nuove conquiste ma di difendere quanto si era ottenuto. La difesa del posto di lavoro e il mantenimento dei salari reali divennero gli obiettivi prioritari del sindacato.

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