Il nobile patronus Andrea Contarini, in quella chiara mattina della fine di maggio dell’anno di Nostro Signore 1347, guardava il vivace porto di Alessandria d’Egitto, affollato di navi di ogni tipo che risuonavano di linguaggi strani e incomprensibili. Un lungo molo, costruito dagli antichi, univa la costa a un’isola, sul quale sorgeva un forte a protezione dei due bacini che il molo stesso creava. Le navi cristiane erano ormeggiate fianco a fianco: i marinai, impigriti dalla lunga sosta, si godevano il sole che stava arrampicandosi nel cielo. Contarini era soddisfatto. I quattrocento ducati che aveva pagato per assicurarsi l’incanto di quella galea da mercato erano risultati ben spesi. Sfruttando l’accordo commerciale che il nobile Niccolò Zeno aveva strappato al sultano d’Egitto nel 1344, le galee da mercato veneziane erano arrivate nel porto egiziane cariche di argento, che era stato venduto ai musulmani pagando appena il 2 % di dazio, contro il 10 che di solito veniva consegnato alle autorità di quel porto. Era ora di fare qualche calcolo: le navi della muda di quell’anno non erano più quelle di tre anni prima, costruite apposta per sfruttare con i loro 450 miliaria di portata le concessioni del papa (quelle navi navigavano male e il Senato aveva perfino faticato a venderle: lui, Contarini, l’aveva capito subito), ma erano pur sempre navi che trasportavano 300 miliaria di carico e ripartivano cariche di spezie. Anche tenuto conto delle paghe che bisognava ancora versare ai marinai, i profitti avrebbero di gran lunga superato le spese. Contarini sospirò pensando a quanto costava far navigare una galea: quando gli uomini si erano presentati al banco di arruolamento, eretto sulla riva del Canal Grande vicino al Palazzo Ducale, avevano accettato con una stretta di mano (la legge non prevedeva altro) una paga di 48 grossi al mesi per rematore, 60 per i balestrieri, 90 per i nauclerii, cioè i nostromi… E lui aveva dovuto versare tre mesi anticipati di paga! Ma adesso che si era in partenza per tornare a casa, si sentiva soddisfatto. Tutti ci guadagnavano: non solo lui stesso, il patronus cioè l’armatore della galea, ma tutti i mercanti che si erano imbarcati e anche tutti i marinai, che oltre al soldo della paga non si erano certo fatti scrupolo di commerciare per conto loro contrabbandando quello che potevano. Contarini sapeva che molti patroni approfittavano della propria posizione di forza e multavano i rematori per qualunque mancanza, in modo che una volta tornati a Venezia, al momento di ottenere il saldo, quei poveracci scoprivano di essere indebitati fino al collo. In questo modo rischiavano di finire in prigione e per evitarlo erano costretti a reimbarcarsi sulle galee… e così via.
Ma adesso l’Ammiragio della muda aveva ordinato la partenza. Una dopo l’altra le tre galee da mercato, immergendo a lente falcate i loro remi nell’acqua limacciosa del porto, e si avviavano verso l’alto mare aperto.
La rotta di ritorno, a quella stagione, era obbligata. Le navi dovevano risalire verso le coste dell’Asia minore, oltre Cipro, fino a Rodi. I venti etesii da tramontana e da maestrale, iniziando a soffiare nella tarda primavera sul mare dell’Arcipelago, che gli antichi chiamavano Egeo, avrebbero reso praticamente impossibile una rotta diretta verso la Grecia. In questo modo invece le galee avrebbero incontrato questi venti prendendoli al traverso nella traversata da Rodi verso il Peloponneso, e la loro spinta potente avrebbe fatto volare le navi verso casa.
La prima parte del viaggio fu tranquilla. Il tempo era bello, il vento stabile. Una mezza dozzina di rematori morì di malattia: una buona media.
Uno dei giovani nobili, imbarcati come balestrieri a bordo della Contarina, si ferì a un piede nel modo più sciocco possibile: lui e alcuni suoi compagni, con la sventatezza che è propria dei vent’anni, stavano giocando con le loro balestre. Per stupire un ingenuo mercante, che era al suo primo viaggio in Oriente, lanciavano i loro verrettoni puntando talmente verso il cielo che prima che il dardo compisse la sua traiettoria e ripiombasse in mare, la galea se l’era lasciato indietro. Ora, questo giovane sciocco e insensato sfiorò il congegno di tiro mentre teneva l’arma ancora puntata in basso: il verrettone gli inchiodò il piede al ponte, e mentre glielo estraevano svenne più volte per il dolore. Nei giorni seguenti il piede e il polpaccio andarono in cancrena. Dopo due giorni di febbre altissima, morì. Per fortuna non tutti i divertimenti a bordo erano così rischiosi: a volte, gruppi di marinai si arrampicavano gli uni sulle spalle degli altri, tenendosi alle sartie che reggevano l’albero maestro. Poi il marinaio che stava più in basso si toglieva di colpo, in modo che tutta la colonna di uomini si lasciava cadere verso il basso; e così via, il marinaio che si trovava con i piedi sul ponte si spostava di colpo finché non erano tornati tutti giù tra gli altri.
Furono fortunati. Non incontrarono né tempeste né pirati. Le navi avrebbero potuto con un solo balzo puntare verso le isole dell’Arcipelago, ma nessuno a bordo avrebbe perso l’occasione di toccare i porti della costa palestinese e siriana. I mercanti a ogni scalo cercavano qualche affare, i marinai e i rematori gradivano le soste e il riposo, tutti apprezzavano la possibilità di sgranchirsi le gambe e di togliersi per qualche momento dalla spiacevole compagnia delle gente che si affollava a bordo. Inoltre c’era sempre qualche malato tra i marinai che doveva essere sbarcato per la febbre, la diarrea o il vomito, o addirittura seppellito dopo qualche giorno di agonia.
Dopo 18 giorni dalla partenza da Alessandria le navi arrivarono in vista di Rodi, tappa obbligata vista la sua posizione strategica, proprio sull’angolo sud occidentale, per così dire dell’Anatolia. Qui l’Ammiragio concesse una sosta più lunga, e molti mercanti ne approfittarono per andare a visitare le chiese dell’isola e farsi ricevere nel possente castello dei Cavalieri, che dominava l’isola.
Le galee infine, quando gli equipaggi si furono riposati a sufficienza, una mattina presto salparono da Rodi e appena fuori dal ridosso offerto dall’isola furono investiti dal potente meltemi che in quella stagione soffia impetuoso da nord. Con tutte le vele al vento, le navi procedevano a forte andatura verso Candia, la prossima tappa. A mezzogiorno però vennero avvistate di prua cinque galee che navigavano in direzione opposta a quelle veneziane. Ben presto fu chiaro che non si trattava di navi della Serenissima, ma della sua eterna rivale, Genova. Contarini e i suoi le tenevano d’occhio con una certa apprensione. Formalmente le due città erano in pace, ma gli atti di pirateria erano frequentissimi. Se quelle navi avessero manifestato intenzioni ostili e si fossero precipitate sulla muda, si sarebbe dovuto combattere. La squadra veneziana contava più di 750 uomini atti a combattere, e rappresentava certamente un osso duro per chiunque, ma le spezie che trasportava erano un bottino ancora più allettante. In ogni caso occorreva prepararsi: a un ordine di Contarini i balestrieri si sistemarono nella posizione prevista per loro, la serie dei minuscoli spazi accanto alla murata, tra un banco di rematori e l’altro. Venne distribuito un rancio abbondante: oltre alle gallette e al vino, formaggio e zuppa di fagioli con manzo salato. Se si fosse dovuto metter mano ai remi o alle armi, era meglio che gli uomini avessero la pancia piena. Le due piccole squadre si stavano avvicinando rapidamente. Improvvisamente al picco della prima galea salì una bandiera inequivocabile: palpitante nel vento teso, sul fondo rosso della stoffa balenava una spada. Volevano battaglia! Un mormorio di preoccupazione e di vero e proprio spavento si levò dal gruppo dei mercanti. Certo, le galee da mercato erano in grado di difendersi, e talvolta venivano perfino aggregate alle flotte da guerra, ma erano pur sempre prima di tutto delle navi da trasporto. Nelle loro stive la Contarina e le sue compagne trasportavano merci per un valore di migliaia e migliaia di ducati. Non si poteva mettere volutamente a repentaglio una simile ricchezza. Dunque occorreva virare di bordo, e subito, per cercare rifugio a Rodi. La capitana, prima ancora di issare la bandiera regolamentare, aveva già iniziato la manovra. Immediatamente anche sulla Contarina si cominciò a lavorare, tra le imprecazioni dei ritardatari che vedevano il loro pranzo volare ai pesci. Il comitus chiamò gli uomini alla manovra: mentre la nave lentamente poggiava allontanando la prua dalla direzione del vento, gruppi di marinai cominciarono a tirare il cavo di un paranco fissato all’estremità inferiore delle antenne che reggevano le tre vele. Man mano che gli uomini tiravano, altri lasciavano andare, facendo grande attenzione, il cavo che sorreggeva il pennone: in questo modo le antenne, pian piano, si trovarono parallele agli alberi, dritte verso il cielo da una parte e minacciosamente puntate verso la chiglia dall’altra. Se i cavi che le reggevano si fossero spezzati o fossero sfuggiti di mano agli addetti alla manovra, la Contarina sarebbe stata infilzata come un pesce allo spiedo. Era il momento più delicato della manovra: le scotte, i cavi che in condizioni normali tengono tesa la vela, vennero passati davanti ai rispettivi alberi, mentre altri uomini ancora correvano da una parte all’altra dello scafo per mettere in tensione le sartie incaricate di tenere in piedi gli alberi e contemporaneamente allascare quelle che non servivano più. La Contarina continuava la virata: le antenne, passate anch’esse davanti ai rispettivi alberi, furono pian piano rilasciate, assumendo la loro caratteristica posizione inclinata, mentre le vele venivano sistemate sul nuovo lato. Contarini tirò un sospiro di sollievo quando la spinta potente del vento cominciò a riempire di nuovo le vele.Anche se l’equipaggio era abile, qualcosa poteva sempre andare storto. Il patronus gettò un’occhiata verso le altre unità della muda: tutte e due erano riuscite e compiere la manovra. Adesso le tre galee stavano puntando di nuovo verso Rodi. Istintivamente si erano avvicinate le une alle altre: se ci fosse stato uno scontro, si sarebbero date appoggio reciproco. In questa specie di regata le galee inseguitrici naturalmente erano avvantaggiate; tuttavia la distanza tra i due gruppi calava lentamente. Sulla nave calò un silenzio nervoso: tutti percepivano il pericolo. Contarini, guardando i balestrieri immobili presso la murata, ripensò al suo primo scontro, vent’anni prima, quando lui stesso, come tutti i giovani nobili, serviva come balestriere. Era imbarcato all’epoca su una delle otto galee da mercato che stavano ritornando dall’oriente e che erano state attaccate da una squadra genovese, proprio come stava accadendo anche questa volta. Allora a guidare i nemici c’era Tito Doria. Il patronus ricordava come volavano le frecce e i verrettoni, mentre le navi nemiche si accostavano e i rematori a voga arrancata cercavano con un guizzo di impedire l’abbordaggio e i timonieri davano alla banda per far scostare la nave e lui e gli altri, protetti dal parapetto, senza guardarsi attorno, senza pensare, caricava la sua balestra, puntava, cercava un bersaglio, lasciava partire il colpo e subito ricaricava l’arma. Le battaglie in mare erano così, simili alle mischie che si combattevano in terraferma, e si concludevano con l’arrembaggio e il corpo a corpo su una delle due navi, finché uno degli equipaggi cedeva e si arrendeva.
Questa volta non sarebbe andata così. Il profilo di Rodi e del suo porto si stavano avvicinando. Anche il vento stava calando, insieme al sole: non appena le galee inseguitrici misero mano ai remi, anche gli equipaggi della Serenissima cominciarono a remare vigorosamente, e siccome erano più freschi e riposati riuscirono a tenere a distanza gli inseguitori, anche se le navi di questi ultimi erano più leggere. Quando i genovesi si resero conto che non sarebbero riusciti ad abbordare nemmeno una nave, interruppero di colpo quell’inseguimento durato 60 miglia. La Contarina e le sue compagne rientrarono nella sicurezza del porto: ne uscirono solo tre giorni dopo, quando anche l’ultima ombra di nave genovese era sparita dal mare.
Non ci furono più cattivi incontri. La piccola squadra, senza più perdere tempo, si fermò per rapide tappe a Candia, poi a Zante, infine a Corfù. Da lì in poi il pericolo dei pirati era drasticamente ridotto. La navigazione fu però lenta, perché nel mese di luglio l’Adriatico è quasi sempre in bonaccia: ci vollero quasi quindici giorni per attraversarlo per tutta la sua lunghezza e arrivare infine al porto lasciato quasi cinque mesi prima.