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Aristotele: la fisica e la metafisica


L'ontologia di Aristotele
Dal punto di vista ontologico/gnoseologico esiste una profonda continuità tra Platone e Aristotele, e contemporaneamente una grande differenza.
La continuità tra i due filosofi è evidente dal fatto che il tema dell’essere è fondamentale per ambedue. La domanda filosofica per eccellenza rimane per entrambi la stessa: che cos’è l’essere?

Per Platone l’essere (cioè il vero essere) sono le eide. Per Aristotele invece il discorso è più complesso poiché la sua filosofia ha conosciuto un’evoluzione nel corso del tempo.

Il nome che Aristotele da all’essere è ousia, parola di origine platonica che in italiano viene tradotta (male) con «sostanza». L’ousia è inizialmente il sinolo, poi la struttura di morfè e hyle, infine in modo preponderante morfè.

All’inizio per Aristotele l’essere è il sinolo, ossia è la cosa concreta che io vedo davanti. In questa fase è evidente il condizionamento del padre medico: quando Aristotele deve fare un esempio di realtà autentica, pensa in primo luogo a un essere vivente (pianta o animale).
In una seconda fase Aristotele si interroga su come debba essere concepito il sinolo.
La sua risposta è che in esso si possono distinguere due principi:

morfè, tradotto normalmente con «forma»
hyle, tradotto normalmente con «materia»

Questi due principi (attenzione, non si tratta di semplici «parti»!) sono entità che non possono esistere l’uno indipendentemente dall’altro; come concetti sono molto simili a uno e diade, ma sono molto più concreti di questi, che invece risultano molto astratti.

La morfè è un principio di razionalità, di intelligibilità e di dicibilità: esprime cioè ciò che della cosa può essere detta e pensata.
La hyle, al contrario, è un principio di irrazionalità, inintelligibilità e di indicibilità: esprime ciò che della cosa non può essere né detta né pensata, anche se esiste.

La teoria si chiama tradizionalmente «teoria ilemorfica» dalla funzione dei due termini greci.
Aristotele ricorre a numerosi esempio, tra i quali forse il più semplice è quello della sfera di bronzo: il bronzo non esiste da solo ma esclusivamente nella forma della sfera, e reciprocamente nemmeno la sfera non può esistere in sé, come una cosa da sola, ma si dà esclusivamente attraverso una materia (che in questo caso è appunto il bronzo: potrebbe naturalmente anche essere un'altra). Ma qui sorgono dei problemi: se posso dire con facilità che la sfera è di bronzo posso però anche chiedermi che cosa è a sua volta il bronzo. La risposta in termini aristotelici sarebbe che è una certa forma impressa in una combinazione degli elementi primordiali (noi diremmo che è composta di atomi), ma il problema viene semplicemente spostato.
Il processo della ricerca della materia di cui sono fatte le cose non può andare all'infinito: al di sotto di tutte le «materie seconde» (ossia le materie concrete cui noi siamo abituati a dare un nome) esiste una «materia prima», una prote hyle che è pura potenzialità e indeterminatezza. Ogni sinolo, in quanto caratterizzato dalla hyle, è condannato ad avere un lato di inconoscibilità.

Nella fase finale della sua vita Aristotele si concentra sulla differenza tra morfè e hyle. Entrambe sono essere, poiché entrambi sono necessari all’esistenza del sinolo: ma un residuo di platonismo fa pendere la bilancia dalla parte della morfè, ritenuta più importante perché è fonte della intelligibilità in quanto immodificabile e permanente. È la morfè quindi a essere in ultima analisi l'essere autentico per Aristotele.

La forma non è intesa dallo stagirita come genere, o come universale, ma come principio di determinazione immanente a ogni sostanza individuale. Se allora la materia è assenza di determinazione, e sinolo è la materia che ha assunto una forma determinata, per quanto anch'essi siano sostanza, a maggior ragione è da ritenersi sostanza il principio attivo, in virtù del quale ogni sostanza individuale è un determinato "questo" (tòde ti). Per chiarire la funzione della sostanza, Aristotele ricorre a una similitudine di argomento grammaticale.
Una sillaba, egli osserva, è costituita da alcune lettere, che ne rappresentano gli elementi materiali (in greco lo stesso termine stoicheion sta per "lettera" dell'alfabeto e, appunto, per "elemento"); ora per avere una sillaba non sono sufficienti le lettere di cui essa consta (cioè la sua materia): BA non equivale semplicemente a B+A; infatti, quando le lettere sono separate esse rimangono ma la sillaba viene meno. La forma, d'altra parte, non è qualcosa che si aggiunga, un ulteriore elemento, ma rappresenta la specifica e determinata unità di quelle lettere, ovvero la ragione per cui esse concorrono a costituire la sillaba BA e non quella AB. La forma è dunque il principio fondamentale della sostanza (individuale), in quanto causa del fatto che essa sia una determinata sostanza, e non un'altra.
Un’altra metafora utilizzata nel libro VII della Metafisica per descrivere il modo di funzionare della sostanza è quello della carne: questa non è difatti solamente un insieme di terra, acqua e fuoco. La semplice materia non è sufficiente per spiegare l’oggetto, serve qualcosa che non sia un elemento materiale, poiché un corpo ha bisogno di qualcosa che tiene assieme tutte le sue componenti, cioè la morfè, che organizza e ordina la materia.
Questa teoria, riguardante tutte le sostanze, si configura come una generalizzazione dei risultati conseguiti nelle indagini su un particolare genere di sostanze, quelle viventi. L'orientamento a ricercare la causa prima della sostanza in un immanente principio di strutturazione della materia ha infatti un corrispettivo nelle spiegazioni proposte in campo biologico, per render ragione della vita degli organismi: anche in quel contesto, infatti, l'unita funzionale del vivente ha come presupposto un principio formale, cioè l'anima.
Al pari dell'anima, il principio formale, causa della sostanza, è concepito da Aristotele come essenza e come "sostanza secondo la definizione" (ousia katà ton logon). Tale principio è identico in tutte le sostanze individuali che compongono una specie (biologica e non). Il che significa che la causa della sostanza di tutti gli individui della stessa specie e (strutturalmente) una.


Le parole non riusciranno mai a portare alla luce tutte le sfumature di una cosa realmente esistente. Esiste una dimensione irrazionale della realtà, che non è semplice ma ha una dualità.
In realtà Platone aveva già intuito che nel mondo c’è questa polarità, difatti nel Timeo parla della chorà che viene plasmata dal demiurgo.
Esiste una bipolarità e questi poli non possono esistere separati. Non c’è speranza di avere una forma o una materia pura.

La concezione analogica dell'essere
La tesi fondamentale di Aristotele è che l’esistere può essere detto in molti modi diversi, ossia ci si può opporre al nulla in modi diversi.
L'orizzonte ontologico in cui ci si muove è sempre quello aperto da Parmenide: l’essere è l’opposto del nulla, esiste solo come opposto ad esso e quindi ha un solo significato, ossia appunto quello che deriva dal suo «non essere il non essere). Si parla qui di concezione univoca dell'essere.
In Aristotele invece l’essere è si ancora l’opposto al nulla (questa è una verità logica che non può essere negata), ma questa opposizione può verificarsi in molti modi diversi.


Al filosofo primo spetta, secondo Aristotele, il compito di condurre una ricerca non confinata in un ambito specifico, ma di ordine generale, intorno a che cosa sia un ente in quanto tale, cioè in quanto esiste, senza riguardo alla sua particolare natura (senza badare, cioè, al fatto che esso sia, per esempio, un numero o un animale). Il tentativo di delimitare questo ambito di ricerca e l'approfondimento delle nozioni a esso relative costituiscono quella che, con terminologia moderna, può essere definita l'ontologia di Aristotele. A questo tipo di riflessione sono dedicati, in particolare, alcuni libri della Metafisica.
Nel libro Gamma, Aristotele muove dalla considerazione che è possibile studiare la realtà secondo due differenti prospettive. Si possono, da un lato studiare le proprietà che appartengono a un ente in quanto esso si iscrive in un genere definito. Ciò è compito della scienza avente come oggetto quel particolare genere di enti: la matematica, nel caso dei numeri; la filosofia prima (intesa come «teologia»), con riguardo alla «sostanza immobile».
Ma questi stessi enti, come tutti gli enti, costituiscono anche, d'altro lato l'oggetto di un'indagine che li assume semplicemente come enti, senza riguardo al particolare genere in cui essi si iscrivono. Questa indagine afferma Aristotele, è compito della episteme. Ossia del sapere rigoroso e fondato, che studia l’ente in quanto ente e le proprietà che gli appartengono in quanto tale.
Participio presente del verbo essere, ente (on) può dirsi di tutto ciò che esiste. Così, noi possiamo affermare che un determinato uomo «esiste»; e altrettanto legittimamente possiamo affermare che «esiste» un colore: per esempio il colore bianco di quello stesso uomo.
Tuttavia, quando diciamo che «esiste» quell'uomo, intendiamo qualcosa di differente rispetto a quando diciamo che «esiste» il suo colore bianco benchè sia l'uomo, sia il colore bianco esistano e, quindi, possano essere entrambi a buon diritto definiti «enti», cioè presi in considerazione come qualcosa di esistente. Altro è infatti dire «esiste» di una sostanza; altro è dirlo di una qualità, o di una relazione. Ancora: altro è dire che una cosa esiste in atto, altro dire che quella cosa esiste in potenza.
I significati che il termine "ente" può assumere sono dunque molteplici (Aristotele esprime questo convincimento affermando che «ente» è un pollachòs legòmenon, cioè «si dice in molti modi»). Tra questi significati, si segnalano innanzitutto quelli delle categorie: la scienza dell"»ente in quanto ente» sarà allora in primo luogo, scienza della «sostanza», della «quantita», della «qualita» ecc.
L'espressione «ente in quanto ente» non individua dunque un «"sommo genere», un genere unico e amplissimo cui appartengano tutti gli enti: le variegate modalità di esistenza di ciò che esiste non possono infatti essere ricondotte all'identità che accomuna i membri di un genere. D'altro canto, è proprio del genere l'individuare una determinata «regione» di enti, contrassegnati da certe caratteristiche, e di delimitarla rispetto agli altri generi: quindi non può esservi un genere che individua tutti gli enti. Tuttavia, una delle condizioni perchè si dia sapere rigoroso e fondato, secondo Aristotele, è l'unitarietà del campo di oggetti che essa studia. Nel caso delle scienze particolari, l'estensione di tale ambito corrisponde al genere di appartenenza. Non essendo quello degli enti un genere, sarà necessario, perchè la ricerca intorno all"'ente in quanto ente" possa correttamente esser definita episteme cioè conoscenza rigorosa e fondata, individuare un criterio di unificazione del suo campo oggettuale.
I significati di «ente»", per quanto molteplici, riconducono tutti alla sostanza, che di tali significati rappresenta quello centrale, costituendone l'unitario riferimento comune: ciò perché la sostanza è il sostrato che ogni altra modalità di esistenza presuppone.
L'indagine sulla sostanza (ousia) rappresenta dunque un compito prioritario della scienza dell'«ente in quanto ente». Rispetto alle Categorie, ove sostanza in senso primario è l'individuo, e alla Fisica, in cui la so stanza individuale è concepita a sua volta come sinolo di forma e materia, la riflessione condotta nel libro Zeta della Metafisica comporta importanti approfondimenti, in una duplice direzione.
Aristotele da un lato affronta la difficoltà derivante alla propria dottrina dal fatto che essa concepisce la sostanza come individuo, ma nega al tempo stesso la possibilità di conoscere scientificamente ciò che è individuale; dall'altro, ma in stretto rapporto con il problema precedente, egli si interroga su che cosa debba propriamente intendersi con «sostanza»: o, in altri termini, su che cosa propriamente costituisca ogni sostanza come tale, cioè come una determinata sostanza. Sostanza, osserva Aristotele, ricorrendo al metodo usuale di distinguere i diversi significaci di un termine, si dice in più modi, che rinviano a differenti livelli di "sostanzialità". Certo, la sostanza è sinolo di materia e forma, tali essendo appunto le sostanze individuali. Ma essa è anche materia, perché la materia interviene nella costituzione di ogni sostanza. Si tratta allora di stabilire quale di queste accezioni di sostanza sia quella «primaria»". La risposta di Aristotele appare a prima vista come un rovesciamento delle sue dottrine precedenti: egli avanza infatti l'ipotesi che nel senso più proprio come sostanza debba intendersi la forma.

Il problema del divenire e una sua prima soluzione
Per Aristotele gli enti naturali (o fisici) sono sostanze nel senso più proprio (ossia sono sostanze prime). Essi sono sottoposti a processi di trasformazione e si muovono: il filosofo li classifica per questo come «enti che hanno in se stessi il principio del mutamento».

Il problema è che la tradizione eleatica nega il mutamento, considerandolo inintelligibile. Platone, da parte sua, ammette che intorno al mondo del molteplice sensibile che continuamente muta sia possibile esclusivamente un «racconto verosimile» (mythos eikos), non un sapere scientifico (episteme), il quale non può che vertere su oggetti stabili e sottratti, come le idee, al flusso del divenire.

Aristotele, appunto perchè concepisce le realtà naturali come sostanze in senso proprio, si assume il compito di produrre una spiegazione razionale e «fisica» del mondo del divenire. La parola fisica con Aristotele assume il significato odierno. La fisica diventa lo studio dell’essere in quanto in movimento (in divenire), ed è diversa dalla metafisica, ossia lo studio dell’essere in quanto essere.

Nella spiegazione dei processi naturali, Aristotele prende le mosse dal confronto dialettico con le soluzioni prospettate dai predecessori (il cui pensiero, peraltro, egli interpreta in funzione della propria ricerca, non sempre restituendone l'autentico significato).
Egli nota che i filosofi che lo hanno preceduto hanno spiegato il divenire ricorrendo a due termini contrari, sia che li intendessero come principi astratti: amore e odio per Empedocle, pari e dispari per la tradizione pitagorica; sia che li traessero dall'ambito della percezione (caldo e freddo, solido e liquido).
Lo stagirita concorda con l'idea che per spiegare il mutamento si debba far ricorso ai contrari, ma non ritiene che ciò sia sufficiente. Perchè l'analisi sia completa è necessario introdurre, oltre ai contrari, un ulteriore principio di spiegazione delle trasformazioni cui sono soggetti gli enti sensibili. Questo è individuato da Aristotele nel sostrato (hypokeimenon, letteralmente «ciò che sta sotto») del cambiamento: cioè il fondamento permanente in rapporto al quale si esplica l'azione conflittuale dei contrari. Il mutamento può allora esser pensato come una trasformazione o modificazione del sostrato: tale trasformazione consiste nel "passaggio" del sostrato da un contrario all'altro.
Aristotele individua i contrari, rispettivamente, nella forma (morphe o eidos) e nella privazione (steresis). La prima corrisponde ai caratteri che il sostrato acquisisce al termine del processo di trasformazione; la seconda coincide con la condizione di assenza della forma, in cui il sostrato si trova prima che abbia luogo la trasformazione. Un mutamento si verifica per esempio quando un uomo (sostrato) da "non colto" (privazione) diviene "colto" (forma). In questo esempio, il sostrato è una sostanza, che permane nel variare degli accidenti che le ineriscono. Ma di un analogo modello esplicativo Aristotele si avvale per affrontare il decisivo problema delle trasformazioni che coinvolgono la sostanza, come la nascita o generazione. La generazione di una pianta è perciò rappresentabile come il processo mediante il quale il seme (sostrato o materia, hyle, del mutamento) viene trasformandosi nella pianta (viene cioè assumendo la forma di quest'ultima) a partire dalla condizione di privazione della forma che lo caratterizza in quanto seme.
Aristotele rivendica a sè il merito della scoperta del «sostrato»: essa a suo giudizio consente per la prima volta e definitivamente di superare il divieto eleatico di pensare il movimento. Parmenide, muovendo da una premessa che anche Aristotele condivide (nulla può originarsi dal nulla; ciò che è, in quanto è, non diviene), aveva concluso con la negazione del mutamento. Ma a questa conclusione, secondo Aristotele, l'eleatismo era giunto per inesperienza, per il fatto di non disporre dei concetti di sostrato e di privazione. La difficoltà, infatti, può essere superata pensando il non essere come privazione (il seme non è ancora la pianta) e non in senso assoluto: all'origine del processo non c'è infatti il nulla ma il sostrato (nel caso del nostro esempio, il seme) che, essendo privo della forma è proteso a conseguirla.
Se il divenire è dunque concepito secondo lo schema già/non ancora (tipico del divenire dei viventi) bisogna ammettere che qualcosa resta uguale e qualcosa cambia. Quello che rimane uguale è il substratum, mentre gli accidenti sono quelle caratteristiche che ora si trovano ad essere in un certo modo, ma che potrebbero essere anche diverse.

Il problema del divenire e la dottrina delle cause
La parola «cause» si è verificato un problema di traduzione. La parola greca aitìon non equivale al senso italiano della parola, il quale si è formato nel ‘600. Da questo momento in poi la parola «cause» ha difatti un valore di anteriorità, ossia corrisponde a un antecedente costante di un conseguente, che andrà poi interpretato in termini matematici. Per Aristotele aition è quel qualcosa che rimuove la contraddizione del divenire, cioè lui trova il modo per pensare ad esso in modo non contradditorio, poiché lasciato a se stesso il divenire appare come tale. Per la scienza anche il nostro processo di crescita appare come una trasformazione puramente materiale, ma in realtà noi diventiamo noi stessi, serve dunque qualcosa che spieghi il processo di crescita. L’essere secondo Aristotele nel complesso rimane costante, ma ci sono delle trasformazioni.
Le quattro cause (aitiai) di Aristotele sono rispettivamente materia, forma, causa efficiente o motrice e fine.
1) La materia (hyle), o causa materiale, è ciò da cui una cosa ha origine o di cui essa è fatta: per esempio, il bronzo per la statua; i mattoni, per una casa; nel caso di un uomo, la carne e le ossa di cui e costituito il suo corpo.
2) La forma (eidos, morphe) o causa formale, coincide con il "che cos'è" (ti esti) di una sostanza, e più precisamente con la sua essenza (to ti en einai). Nell'esempio della casa, la forma è rappresentata dalle caratteristiche che ne fanno un edificio abitabile, cioè la rendono atta a fornire riparo e conforto agli abitanti. Nella generazione di un uomo, causa formale è l"'uomo", inteso come l'insieme delle caratteristiche sia morfologiche, sia funzionali proprie di ogni uomo adulto compiutamente sviluppato. Bisogna osservare che per Aristotele le nozioni di forma e materia sono relative: il mattone, per esempio, può esser riguardato come materia della casa ma anche come forma dell'argilla della quale esso e costituito.
Da quanto detto consegue che ogni sostanza fisica (e ogni prodotto dell'arte) è pensabile come unione di materia e forma: ogni concreto individuo è, come dice Aristotele, un sinolo (dal greco synolon, composto da syn, "con", e da olon, "tutto", letteralmente "tutt'insieme"): cioè un composto in cui principio formale e materia convergono a costituire una realtà indissolubilmente unica.
3) La causa efficiente, o motrice (arche tes metaboles, letteralmente "principio del mutamento") è ciò che determina l'inizio del cambiamento (il padre nei confronti del figlio): si tratta, tra i concetti aristotelici di causa, del più vicino alla concezione moderna di causa intesa come ciò che precede e determina un effetto.
Ci deve dunque essere una causa in atto che elimini la contraddizione perché esista un divenire.
Lenoble interpreta questa affermazione di Aristotele con l’esempio dell’asino che tira il carrello: l’animale è la causa in atto, è «motore» (ossia ciò che provoca il movimento) del carrello, ha un’anteriorità rispetto alla potenza, quando smette di tirare il carretto si ferma.
Ma come si può ben capire da questo esempio la teoria di Aristotele non è valido per archi e frecce o per i frombolieri, difatti questi seguono il principio di inerzia (sconosciuto ad Aristotele). Il filosofo lascia però da parte questi esempi che non confermano il suo pensiero poiché non gli interessavano, visto che arcieri e frombolieri erano persone delle classi più basse, mentre gli opliti combattevano con la spada, per la quale il movimento è ben spiegato dallo schema aristotelico.
Perché possa esistere una causa efficiente deve quindi già esistere una potenza in atto, anteriore rispetto alla potenza.
La causa efficiente è l’unica delle quattro che ha una qualche somiglianza con la scienza moderna.
4) La causa finale o fine (telos) indica ciò in vista di cui avviene il mutamento (nel caso della generazione di un uomo, il completamento dello sviluppo e il conseguimento della maturità intellettuale e organica). È lo scopo per il quale avviene un movimento, ossia per diventare se stessi ed esplicare le proprie potenzialità. Aristotele tende spesso a considerare equivalenti la causa finale e quella formale e, in certe condizioni, quella motrice o efficiente. Per esempio l'uomo adulto, nei confronti della generazione di un uomo, è infatti insieme causa motrice, in quanto padre, causa formale e fine.

Anche in relazione alle quattro aitiai, Aristotele si confronta con i tentativi condotti dai predecessori per determinare i principi del divenire, commisurandone gli esiti alla propria dottrina, presentata come la più completa e matura. Per lo stagirita, i fisiologi riconoscono solo la causa materiale delle cose (egli interpreta in questo modo le dottrine elementariste degli ionici e l'atomismo); Platone mostra di conoscere anche la funzione di quella formale (uno, idee) ma gli sfugge l'importanza della causa motrice, un antecedente della quale appaiono ad Aristotele il nous anassagoreo e la coppia dei contrari empedoclei amore-odio. Aristotele scorge poi un precedente della propria causa finale nel concetto platonico di bene. La causa finale ammessa dallo stagirita, tuttavia, non deve esser confusa con un'intenzione soggettiva o con lo scopo perseguito coscientemente da una mente. Essa corrisponde invece all'esplicarsi di un ordine immanente alla natura, quello per cui ogni processo, per esempio la generazione di un uomo, si conclude sempre nello stesso modo, in questo caso con il conseguimento della morfologia e delle funzioni dell'uomo adulto.

Da Aristotele le «quattro cause» non sono intese quali sommi principi, unici per tutti i processi della natura: ciascun mutamento ha invece le proprie specifiche cause. Le espressioni «causa materiale», «causa finale» ecc. designano classi di cause, ognuna delle quali comprende le cause che intervengono nei diversi processi naturali con la identica funzione: cioè, rispettivamente, come materia, come forma ecc. Aristotele chiarisce il suo pensiero affermando che le cause sono identiche in tutti i processi non «per numero» (la causa, cioè, non e una sola) ma «per analogia». Tutte le cause di una certa classe stanno nell'identico rapporto con ciò di cui sono causa: per esempio il bronzo è causa materiale della statua, come il legno lo è del tavolo. Adottando il linguaggio della matematica disciplina dalla quale Aristotele deriva il proprio concetto di analogia (che significa «proporzione» intesa come «identità di rapporti»") potremmo dire: il bronzo sta alla statua, come il legno sta al tavolo.


Il problema del divenire e la coppia potenza-atto
Aristotele considera la realtà (il sinolo) dal punto di vista delle sue trasformazioni, ossia del suo divenire. Il divenire è però un problema dal punto di vista filosofico. L’interpretazione di Parmenide sembra invincibile: se il divenire fosse reale e non illusione, allora dovrebbe andare nel nulla, ma il nulla non può esistere, perché se esistesse sarebbe essere. Questo è chiamato il discorso invincibile.
Per evitare questo paradosso la soluzione di Aristotele consiste nell’ammettere che la nozione di essere non è più univoca. Occorre distinguere un’ulteriore coppia di modi in cui ci si può opporre al nulla:

essere in potenza
essere in atto

Questa coppia di concetti è strettamente collegata con la dottrina delle quattro cause. La potenza (dynamis) esprime la possibilità o potenzialità, propria di qualcosa, di trasformarsi in qualcos'altro. Il termine italiano "atto" traduce abitualmente due nozioni chiave della filosofia aristotelica, quelle rispettivamente di entelecheia e di energheia. Entelecheia (composta da en "in", telos "fine" e echo ';avere", o più semplicemente da enteles, "compiuto" e echo) indica la condizione di qualcosa che abbia raggiunto il proprio fine, realizzando la compiuta attuazione delle proprie potenzialità (della propria djnamis). La nozione di energheia (composta da en "in", e ergon, "opera") significa attività: quindi designa in alcuni contesti il processo dell'attuarsi dell'entelecheia; in altri, l'esplicarsi delle funzioni proprie (o dell'opera propria) di un ente che abbia attuato la propria entelecheia. I significati dei due termini sono solo in parte coincidenti anche se non vengono sempre distinti nell'uso.
Aristotele prende esempio per descrivere questo dal mondo vivente: una realtà (per esempio un seme) è già un essere in atto, ma ha anche un essere in potenza (il seme è in potenza la pianta). Il divenire è al passaggio dall’essere in potenza all’essere in atto.
Questa definizione è stata molto criticata nel XVII secolo, poiché la definizione di Aristotele non funziona per esempio nei moti locali, il cui studio era essenziale per l’utilizzo delle armi da fuoco.

Il tema del divenire per lui è dunque plasmato sul vivente.
Non devono sfuggire le corrispondenze che esistono, da un lato, tra le nozioni di materia e potenza (la materia può essere pensata come potenziale capacita di assumere una determinata forma: così, per esempio, i mattoni, materia della casa, possono anche essere concepiti come casa "in potenza", perché, disposti secondo un certo ordine, costituiscono la casa); e dall'altro, analogamente, tra la nozione di atto e quelle, rispettivamente, di forma e di causa finale (una determinata forma può infatti venire pensata come l'attuale realizzazione delle potenzialità implicite in una certa materia, attuazione che coincide con l'entelecheia, ossia con il raggiungimento del fine: la pianta adulta rappresenta infatti sia la forma del seme, in questo caso inteso come materia, sia, la compiuta realizzazione, l'atto, delle potenzialità implicite nel seme).

Cionondimeno, tra queste due coppie di concetti, esiste una differenza.

La coppia forma/materia, infatti, meglio si presta a render ragione, secondo un'ottica prevalentemente statica, della struttura del reale (come quando per esempio si afferma che ogni sostanza fisica, e ogni manufatto, sono composti (sinolo) di materia e forma). La coppia atto/potenza, invece, appare più idonea a spiegare (dinamicamente) i processi di trasformazione.

La cosmologia di Aristotele
La cosmologia di Aristotele fu duramente attaccata nel XVII secolo, in quanto considerata errata. Essa parte dal presupposto che esistono quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco), disposti secondo sfere concentriche.

L’esperienza suggeriva al filosofo tale disposizione poiché è innegabile che le acque poggiano sulla terra e, sopra queste due vie è l’aria. Esternamente vi è la sfera del fuoco e, in base a questo schema, le stelle sono dei forellini nel cielo dai quali traspare il fuoco.

Aristotele descrive il divenire dividendolo in moto naturale ed in moto violento:
Tutti i corpi si muovono di moto naturale in base alla propria composizione, cercando di riunirsi alla sfera che gli appartiene (il fuoco va verso l’alto, così come le bollicine d’aria nell’acqua). Al contrario, invece, i moti violenti sono opposti a quelli naturali (per esempio un corpo lanciato verso l’alto, per un certo periodo, va contro il moto naturale).
Tutti i moti naturali tendono ad essere rettilinei, mentre i moti violenti no. Per spiegare ciò Aristotele usa le categorie che conosceva, ovvero il moto rettilineo e quello circolare, già descritte dai pitagorici.


Oggi è ben noto che tale descrizione è falsa, dato che il moto descritto dalla freccia è in realtà parabolico.
È importante notare che, fin da pochi decenni dopo l’esperienza aristotelica, la cultrua greca si era dotata di tutti gli strumenti per descrivere la parabola, grazie allo studio delle coniche, tuttavia nessun greco, romano o medievale le sfruttò.
In merito a ciò il filosofo della scienza Thomas Khun elaborò una teoria per la quale la scienza non conosce alcun sviluppo omogeneo: essa è invece divisa in scienza «normale» e scienza «rivoluzionaria».
Nei periodi «normali» si accetta un determinato paradigma, ovvero un insieme di pre-giudizi, postulati, assiomi, pre-concetti che una certa comunità storica accetta per veri, senza porsi alcuna discussione: durante questa fase gli scienziati si concentrano sul compito di costruire teorie che interpretino quanti più fenomeni possibile all'interno del paradigma dato. Durante i periodi di scienza rivoluzionaria viene cambiato il paradigma. Ciò significa che la scienza non conosce un trionfale sviluppo verso la verità, bensì gli scienziati partono da un nucleo profondo di idee, che Khun chiama paradigma, e, partendo da tale nucleo, gli scienziati formulano delle teorie che poi devono essere verificate tramite esperimenti e, se le teorie non vengono verificate, lo scienziato non elimina il paradigma, ma, al contrario, introduce un’ ipotesi ad hoc, le quali hanno il solo scopo di far procedere il sistema. In questo modo il paradigma resta invariato sino a che le suddette ipotesi ad hoc non diventano troppo numerose. Solo in questo caso lo scienziato, a malincuore, abbandona il paradigma.

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