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Filosofia
Filosofia del Novecento
La filosofia del Novecento
I caratteri generali della filosofia del Novecento




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La filosofia nel corso del Novecento conosce una profonda crisi, che assume forme e modi diversi ma che è così lunga e radicale che può essere descritta (e di fatto spesso viene descritta) «fine della filosofia». Non si tratta naturalmente di una fine «assoluta», nel senso che gli uomini hanno continuato e continuano a «fare filosofia» e a scrivere libri che vengono etichettati come «filosofici». Tuttavia è venuta meno la fiducia nella filosofia concepita secondo gli schemi tradizionali, ossia come una forma particolare di sapere caratterizzato da un suo metodo e da un suo scopo specifici (la ricerca razionale sulla totalità).
Il primo significato che viene dato alla «morte della filosofia» è centrato in realtà sull'idea del suo autosuperamento. A un certo punto della sua storia, e per una sua ineluttabile dinamica interna, la filosofia sembra aver «oltrepassato» se stessa, ossia sembra aver raggiunto un punto tale di sviluppo che non si possa ulteriormente sviluppare e quindi sia stata costretta a cercare altre forme. Secondo questa rilettura, il momento in cui la filosofia occidentale ha raggiunto suo vertice sarebbe l'idealismo tedesco: Hegel ha costruito una filosofia che tentava realmente di essere onnicomprensiva, ossia di inquadrare ogni aspetto della realtà (comprese la storia e la vita di ognuno) in un unico schema. Il fallimento di questo tentativo ha portato a un rovesciamento (che in realtà assomiglia molto alla negazione dialettica dello stesso Hegel) in chiave «ironica» da un lato (Kierkegaard) e «politica» dall'altro (Marx): in ogni caso, una fase «postfilosofica» che si è protratta per tutto l'Ottocento e che è proseguita anche nel Novecento.
La seconda teoria della fine riguarda il rapporto con la scienza, e più particolarmente con le nuove scienze previste dall'epistemologia illuministica e sviluppate da quella positivistica. Le scienze conoscono in effetti uno sviluppo davvero esplosivo solo nella seconda metà dell'Ottocento, rendendo impossibile ogni tentativo di vera sintesi: nessun uomo può più sperare di «conoscere tutto», anche solo per sommi capi. Per la filosofia si tratta in questo caso di una fine per smembramento: la sua tradizionale unità, con i suoi «problemi» altrettanto tradizionali (l'uomo, la conoscenza, la morale, la verità, la logica, il pensiero, la giustizia) si è completamente disarticolata, poiché le singole scienze specifiche si occupano meglio, in una forma più tecnicamente controllabile, delle stesse problematiche.
La terza modalità della fine è di solito vista come una conseguenza della seconda, o della prima, ma va considerata separatamente, perché gode di elaborazioni specifiche, di un suo specifico sviluppo. Si tratta dell'inadeguatezza di un sapere detto «filosofico» - che si suppone problematico, riflessivo, critico, interessato all'essere nella sua totalità — nel mondo dominato dalla tecnica, in cui è indiscusso il primato di un sapere operazionale, pragmatico, frammentario.
La quarta modalità del «superamento» della filosofia è la sua trasformazioni in azione, e in particolare in azione politica: se la teoria non riesce più a giustificare i propri diritti e a momenti neppure la propria esistenza, la ritirata nella sfera dell'agire diventa pressoché inevitabile.
L'autosuperamento della filosofia
II primo tipo di problematica si annuncia nel secondo Ottocento, dopo la grande fortuna dell'hegelismo. Con Hegel la filosofia appariva totalmente compiuta. Hegel aveva accolto e integrato le ragioni del sistema e le ragioni del movimento (la dialettica), aveva conciliato l'essere e il non essere nella "concretezza" fi-losofica del concetto. Ogni passo avanti rispetto a Hegel sembrava consistere in uno sbocco al di là della filosofia stessa, verso la storia, verso l'esistenza determinata, verso la prassi. D'altra parte Hegel stesso aveva teorizzato l'identità di «compimento» e «dissoluzione» ponendo al centro del proprio metodo il concetto di Aufhebung (dissoluzione-realizzazione).
L'idea che la filosofia vada in qualche modo superata (sia nel senso della sua realizzazione, sia nel senso del suo effettivo oltre-passamento) è un'acquisizione diffusa nella seconda metà del secolo scorso. La condividono tanto i continuatori di Hegel quanto gli stessi avversari dell'hegelismo. Da vari punti di vista e in vario modo le esigenze dell'extrafilosofico (le esigenze del sensibile, dell'individuale, della singolarità attraversata dalla fede, della stessa scienza) vengono avanzate contro la filosofia: contro la compiutezza razionale del sistema, contro la circolarità speculativa della dialettica, contro l'astratta freddezza della ragione che non coglie né risolve il dolore e il disagio della vita umana.
La critica e l'oltrepassamento della filosofia hegeliana (ma anche, in un certo senso, la sua prosecuzione adeguata) tendono così a configurarsi come critica e oltrepassamento della filosofia in generale. Nasce in filosofia uno stile paradossale e quasi autoconfutativo. Con Kierkegaard, Marx, Nietzsche e altri pensatori post-hegeliani, la filosofia diventa anche e per lo più critica della filosofia, compiuta in nome dell'esperienza religiosa, della giustizia sociale, o della vita. La religione, la giustizia sociale, la vita, appaiono di volta in volta come la verità della filosofia, la sua misconosciuta ragione d'essere, il suo destino.
Naturalmente, ciò che viene messo in questione è soprattutto un certo stile filosofico, che si mostra inespressivo e inutile. Il richiamo di Kierkegaard al «pensatore vivente», come quello di Marx (e Feuerbach) alla materialità delle condizioni del pensiero, come l'evocazione nietzscheana della volontà di potenza che opera in ogni filosofia, non sono di per se stesse teorie della fine. Ciò che ne dovrebbe emergere è piuttosto un «nuovo» stile, un nuovo modo di fare filosofia. E tuttavia, c'è il legittimo dubbio che il mondo dell'esperienza «non concettuale» così evocato contro il dominio hegeliano del concetto sia irriducibile a un modo propriamente filosofico di esercitare il pensiero, e che dunque aprendosi ali'altrove, al proprio «altro», al mondo impuro della vita, ai rapporti di potere, all'esperienza religiosa, la filosofia stessa entri in una fase decisamente postfilosofica [D'Agostini, 1997:23]
In effetti, la stessa identificazione del filosofo inizia a essere problematica: è un filosofo Kierkegaard? Lo è Marx? Lo è Nietzsche? Il primo per sua stessa ammissione è "uno scrittore di cose religiose", il secondo è un teorico dell'economia e della politica, il terzo è uno scrittore di aforismi, un distruttore del senso comune filosofico e un poeta dell'argomentazione.
La filosofia e le scienze
A questo processo di autoconfutazione del linguaggio filosofico tradizionale si associa lo «smembramento»" della filosofia nelle scienze della società e dell'uomo, e nella logica. È un movimento che trae origine dall'epistemologia illuministica, ma che solo nel secondo Ottocento si realizza pienamente.
Intorno alla metà del secolo George Boole, un algebrista irlandese, riusciva a costruire un calcolo logico coerente in forma di calcolo algebrico: si apriva così la via alla matematizzazione della logica, la logica passava dalle mani dei filosofi a quelle dei matematici.
Nel 1879 Wilhelm Wundt fondava a Lipsia il primo laboratorio di psicologia sperimentale, e anche la psicologia cessava di essere analisi introspettiva dell'anima per diventare (solo o per lo più) scienza quantificante e classificatoria. La sfera del «pensiero» (nel senso cartesiano del termine come il luogo privilegiato del lavoro filosofico), veniva così colonizzata dalle sciente, sia nella sua versione introspettiva, psicologica, sia nella sua versione formale, logica: la psicologia empirica e la logica matematica potevano occuparsene in modo più adeguato della vecchia «filosofia».
D'altra parte anche l'ambito dei rapporti umani, dell'etica e del diritto venivano conquistati da saperi specifici, con la nascita e lo sviluppo di una serie di scienze particolari: la sociologia, la linguistica, l'antropologia culturale, la storiografia e così via.
Nasce tra Ottocento e Novecento un vasto movimento di ridefinizione della scienza, della filosofia, delle nuove discipline che si prolunga fino alla metà del XX secolo e a cui partecipano il neokantismo, lo storicismo, Weber, l'empiriocriticismo, il neoidealismo. Negli anni Venti e Trenta nasce e si diffonde in ambito culturale tedesco una corrente filosofica nuova, il neopositivismo, che intende offrire una soluzione al problema dei rapporti tra filosofia e scienze. Si tratta però di un vero ribaltamento di prospettive: se lo sviluppo della scienza infatti non è avvertito dai neopositivisti come una minaccia per la filosofia, è solo perché il loro punto di partenza è quello di ridurre la filosofia a semplice azione di analisi e di controllo dell'operato delle scienze. Le novità scientifiche, lo sviluppo della logica formale e la compiuta affermazione del metodo ipotetico-deduttivo nel pensiero scientifico, le geometrie non-euclidee, la teoria della relatività, la meccanica quantistica, possono garantire e inaugurare un nuovo modo di fare filosofia e soprattutto possono favorire la nascita di una vera filosofia scientifica, in un duplice senso: una filosofia come «scienza», ovvero come analisi logica del linguaggio; e come «ancella della scienza», esercizio rigoroso di chiarificazione dei concetti di cui si serve il lavoro scientifico