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I caratteri generali della filosofia del Novecento

[filo_584]

La filosofia nel corso del Novecento conosce una profonda crisi, che assume forme e modi diversi ma che è così lunga e radicale che può essere descritta (e di fatto spesso viene descritta) «fine della fi­losofia». Non si tratta naturalmente di una fine «assoluta», nel senso che gli uomini hanno continuato e continuano a «fare filosofia» e a scrivere libri che vengono etichettati come «filosofici». Tuttavia è venuta meno la fiducia nella filosofia concepita secondo gli schemi tradizionali, ossia come una forma particolare di sapere caratteriz­zato da un suo metodo e da un suo scopo specifici (la ricerca razio­nale sulla totalità). 

 

 

Il primo significato che viene dato alla «morte della filosofia» è cen­trato in realtà sull'idea del suo autosuperamento. A un certo pun­to della sua storia, e per una sua ineluttabile dinamica interna, la fi­losofia sembra aver «oltrepassato» se stessa, ossia sembra aver rag­giunto un punto tale di sviluppo che non si possa ulteriormente svi­luppare e quindi sia stata costretta a cercare altre forme. Secondo questa rilettura, il momento in cui la filosofia occidentale ha rag­giunto suo vertice sarebbe l'idealismo tede­sco: Hegel ha costruito una filosofia che tentava realmente di essere onnicomprensiva, ossia di inquadrare ogni aspetto della realtà (comprese la storia e la vita di ognuno) in un unico schema. Il fallimento di questo tentativo ha portato a un rovesciamento (che in realtà assomiglia molto alla ne­gazione dialettica dello stesso Hegel)  in chiave «ironica» da un lato (Kierkegaard) e «politica» dall'altro (Marx): in ogni caso, una fase «postfilosofica» che si è protratta per tutto l'Ottocento e che è pro­seguita anche nel Novecento.

 

La seconda teoria della fine riguarda il rapporto con la scienza, e più particolarmente con le nuove scienze previste dall'epistemo­logia illuministica e sviluppate da quella positivistica. Le scienze conosco­no in effetti uno sviluppo davvero esplosivo solo nella seconda metà dell'Ottocento, rendendo impossibile ogni tentativo di vera sintesi: nessun uomo può più sperare di «conoscere tutto», anche solo per sommi capi. Per la filosofia si tratta in questo caso di una fi­ne per smembramento: la sua tradizionale unità, con i suoi «pro­blemi» altrettanto tradizionali (l'uomo, la conoscenza, la morale, la verità, la lo­gica, il pensiero, la giustizia) si è completamente disarti­colata, poiché le singole scienze specifiche si occupano me­glio, in una forma più tecnicamente controllabile, delle stesse problematic­he.

 

La terza modalità della fine è di solito vista come una conse­guenza della seconda, o della prima, ma va conside­rata separatamente, per­ché gode di elaborazioni specifiche, di un suo specifico sviluppo. Si tratta dell'inadeguatezza di un sapere detto «filosofico» - che si sup­pone problematico, riflessivo, criti­co, interessato all'essere nella sua totalità — nel mondo dominato dalla tecnica, in cui è indiscusso il primato di un sapere operazionale, pragmatico, frammentario.

 

La quarta modalità del «superamento» della filosofia è la sua tra­sformazioni in azione, e in particolare in azione politica: se la teo­ria non riesce più a giustificare i propri diritti e a momenti neppure la propria esistenza, la ritirata nella sfera dell'agire diventa pressoché inevitabile.

 

L'autosuperamento della filosofia

II primo tipo di problematica si annuncia nel secondo Otto­cento, dopo la grande fortuna dell'hegelismo. Con Hegel la filo­sofia appa­riva totalmente compiuta. Hegel aveva accolto e inte­grato le ragioni del sistema e le ragioni del movimento (la dialetti­ca), aveva concilia­to l'essere e il non essere nella "concretezza" fi-losofica del concet­to. Ogni passo avanti rispetto a Hegel sembra­va consistere in uno sbocco al di là della filosofia stessa, verso la storia, verso l'esistenza determinata, verso la prassi. D'altra parte Hegel stesso aveva teoriz­zato l'identità di «compimento» e «dis­soluzione» ponendo al centro del proprio metodo il concetto di Aufhebung (dissoluzione-realiz­zazione).

L'idea che la filosofia vada in qualche modo superata (sia nel senso della sua realizzazione, sia nel senso del suo effettivo oltre-passa­mento) è un'acquisizione diffusa nella seconda metà del se­colo scorso. La condividono tanto i continuatori di Hegel quanto gli stessi avversari dell'hegelismo. Da vari punti di vista e in vario modo le esigenze dell'extrafilosofico (le esigenze del sensibile, del­l'individuale, della singolarità attraversata dalla fede, della stessa scienza) vengono avanzate contro la filosofia: contro la compiutez­za razionale del sistema, contro la circolarità speculativa della dialettica, contro l'astratta freddezza della ragione che non co­glie né risolve il dolore e il disagio della vita umana.

 

La critica e l'oltrepassamento della filosofia hegeliana (ma an­che, in un certo senso, la sua prosecuzione adeguata) ten­dono co­sì a configurarsi come critica e oltrepassamento della filosofia in generale. Nasce in filosofia uno stile para­dossale e quasi autocon­futativo. Con Kierkegaard, Marx, Nietzsche e altri pensatori post-hegeliani, la filosofia diven­ta anche e per lo più critica della filoso­fia, compiuta in nome dell'esperienza religiosa, della giustizia so­ciale, o della vita. La religione, la giustizia sociale, la vita, appaio­no di volta in volta come la verità della filosofia, la sua miscono­sciuta ragione d'essere, il suo destino.

Naturalmente, ciò che viene messo in questione è soprattut­to un certo stile filosofico, che si mostra inespressivo e inu­tile. Il ri­chiamo di Kierkegaard al «pensatore vivente», come quello di Marx (e Feuerbach) alla materialità delle condizio­ni del pensiero, come l'evocazione nietzscheana della volon­tà di potenza che ope­ra in ogni filosofia, non sono di per se stesse teorie della fine. Ciò che ne dovrebbe emergere è piuttosto un «nuovo» stile, un nuovo modo di fare filosofia. E tuttavia, c'è il legittimo dubbio che il mondo dell'espe­rienza «non concettuale» così evocato contro il dominio he­geliano del concetto sia irriducibile a un modo propria­mente filosofico di esercitare il pensiero, e che dun­que apren­dosi ali'altrove, al proprio «altro», al mondo impu­ro della vita, ai rapporti di potere, all'esperienza religiosa, la fi­losofia stessa entri in una fase decisamente postfilosofica [D'Agostini, 1997:23]

 

In effetti, la stessa identificazione del filosofo inizia a essere proble­matica: è un filosofo Kierkegaard? Lo è Marx? Lo è Nietz­sche? Il primo per sua stessa ammissione è "uno scrittore di cose religiose", il secondo è un teorico dell'economia e della politica, il terzo è uno scrittore di aforismi, un distruttore del senso comune filosofico e un poeta dell'argomentazione.

 

La filosofia e le scienze

A questo processo di autoconfutazione del linguaggio filosofico tra­dizionale si associa lo «smembramento»" della filosofia nelle scienze della società e dell'uomo, e nella logica. È un movimento che trae origine dall'epistemologia illuministica, ma che solo nel se­condo Ottocento si realizza pienamente.

Intorno alla metà del secolo George Boole, un alge­brista ir­landese, riusciva a costruire un calcolo logico coerente in forma di calcolo algebrico: si apriva così la via alla matematizzazione della logica, la logica passava dalle mani dei filosofi a quelle dei matematici. 

Nel 1879 Wilhelm Wundt fondava a Lipsia il primo laboratorio di psicologia sperimentale, e anche la psicologia ces­sava di essere analisi introspettiva dell'anima per diventare (solo o per lo più) scienza quantificante e classificatoria. La sfera del «pensiero» (nel senso cartesiano del termine come il luogo privi­legiato del lavoro filosofico), veniva così colonizzata dalle sciente, sia nella sua versione introspettiva, psi­cologica, sia nella sua versione formale, logica: la psi­cologia empirica e la logica matematica po­tevano oc­cuparsene in modo più adeguato della vecchia «filoso­fia».

D'altra parte anche l'ambito dei rapporti umani, dell'etica e del dirit­to venivano conquistati da saperi specifici, con la nascita e lo svilup­po di una serie di scienze particolari: la sociologia, la linguistica, l'antropologia culturale, la storiografia e così via.

Nasce tra Ottocento e Novecento un vasto movimento di ridefini­zione della scienza, della filosofia, delle nuove discipline che si pro­lunga fino alla metà del XX secolo e a cui partecipano il neokanti­smo, lo storicismo, Weber, l'empiriocriticismo, il neoi­dealismo. Ne­gli anni Venti e Trenta nasce e si diffonde in ambito culturale tede­sco una corrente filosofica nuova, il neopositivismo, che intende offrire una soluzione al problema dei rapporti tra filosofia e scienze. Si tratta però di un vero ribaltamento di prospettive: se lo sviluppo della scienza infatti non è avvertito dai neopositivisti come una mi­naccia per la filosofia, è solo perché il loro punto di partenza  è quello di ridurre la filosofia a semplice azione di analisi e di control­lo dell'operato delle scienze. Le novità scientifiche, lo sviluppo della logica formale e la compiuta affermazione del metodo ipotetico-deduttivo nel pensiero scientifico, le geometrie non-euclidee, la teo­ria della relati­vità, la meccanica quantistica,  possono garantire e inaugurare un nuovo modo di fare filosofia e soprattutto possono favorire la na­scita di una vera filosofia scientifica, in un duplice sen­so: una filo­sofia come «scienza», ovvero come analisi logica del lin­guaggio; e come «ancella della scienza», esercizio rigoroso di chiari­ficazione dei concetti di cui si serve il lavoro scientifico

Perché Bergson è importante?
La filosofia nel corso del Novecento conosce una profonda crisi, che assume forme e modi diversi ma che è così lunga e radicale che può essere descritta (e di fatto spesso viene descritta) «fine della fi­losofia». Non si tratta naturalmente di una fine «assoluta», nel senso che gli uomini hanno continuato e continuano a «fare filosofia» e a scrivere libri che vengono etichettati come «filosofici». Tuttavia è venuta meno la fiducia nella filosofia concepita secondo gli schemi tradizionali, ossia come una forma particolare di sapere caratteriz­zato da un suo metodo e da un suo scopo specifici (la ricerca razio­nale sulla totalità). 
 
Il primo significato che viene dato alla «morte della filosofia» è cen­trato in realtà sull'idea del suo autosuperamento. A un certo pun­to della sua storia, e per una sua ineluttabile dinamica interna, la fi­losofia sembra aver «oltrepassato» se stessa, ossia sembra aver rag­giunto un punto tale di sviluppo che non si possa ulteriormente svi­luppare e quindi sia stata costretta a cercare altre forme. Secondo questa rilettura, il momento in cui la filosofia occidentale ha rag­giunto suo vertice sarebbe l'idealismo tede­sco: Hegel ha costruito una filosofia che tentava realmente di essere onnicomprensiva, ossia di inquadrare ogni aspetto della realtà (comprese la storia e la vita di ognuno) in un unico schema. Il fallimento di questo tentativo ha portato a un rovesciamento (che in realtà assomiglia molto alla ne­gazione dialettica dello stesso Hegel)  in chiave «ironica» da un lato (Kierkegaard) e «politica» dall'altro (Marx): in ogni caso, una fase «postfilosofica» che si è protratta per tutto l'Ottocento e che è pro­seguita anche nel Novecento.
 
La seconda teoria della fine riguarda il rapporto con la scienza, e più particolarmente con le nuove scienze previste dall'epistemo­logia illuministica e sviluppate da quella positivistica. Le scienze conosco­no in effetti uno sviluppo davvero esplosivo solo nella seconda metà dell'Ottocento, rendendo impossibile ogni tentativo di vera sintesi: nessun uomo può più sperare di «conoscere tutto», anche solo per sommi capi. Per la filosofia si tratta in questo caso di una fi­ne per smembramento: la sua tradizionale unità, con i suoi «pro­blemi» altrettanto tradizionali (l'uomo, la conoscenza, la morale, la verità, la lo­gica, il pensiero, la giustizia) si è completamente disarti­colata, poiché le singole scienze specifiche si occupano me­glio, in una forma più tecnicamente controllabile, delle stesse problematic­he.
 
La terza modalità della fine è di solito vista come una conse­guenza della seconda, o della prima, ma va conside­rata separatamente, per­ché gode di elaborazioni specifiche, di un suo specifico sviluppo. Si tratta dell'inadeguatezza di un sapere detto «filosofico» - che si sup­pone problematico, riflessivo, criti­co, interessato all'essere nella sua totalità — nel mondo dominato dalla tecnica, in cui è indiscusso il primato di un sapere operazionale, pragmatico, frammentario.
 
La quarta modalità del «superamento» della filosofia è la sua tra­sformazioni in azione, e in particolare in azione politica: se la teo­ria non riesce più a giustificare i propri diritti e a momenti neppure la propria esistenza, la ritirata nella sfera dell'agire diventa pressoché inevitabile.
 
L'autosuperamento della filosofia
II primo tipo di problematica si annuncia nel secondo Otto­cento, dopo la grande fortuna dell'hegelismo. Con Hegel la filo­sofia appa­riva totalmente compiuta. Hegel aveva accolto e inte­grato le ragioni del sistema e le ragioni del movimento (la dialetti­ca), aveva concilia­to l'essere e il non essere nella "concretezza" fi-losofica del concet­to. Ogni passo avanti rispetto a Hegel sembra­va consistere in uno sbocco al di là della filosofia stessa, verso la storia, verso l'esistenza determinata, verso la prassi. D'altra parte Hegel stesso aveva teoriz­zato l'identità di «compimento» e «dis­soluzione» ponendo al centro del proprio metodo il concetto di Aufhebung (dissoluzione-realiz­zazione).
L'idea che la filosofia vada in qualche modo superata (sia nel senso della sua realizzazione, sia nel senso del suo effettivo oltre-passa­mento) è un'acquisizione diffusa nella seconda metà del se­colo scorso. La condividono tanto i continuatori di Hegel quanto gli stessi avversari dell'hegelismo. Da vari punti di vista e in vario modo le esigenze dell'extrafilosofico (le esigenze del sensibile, del­l'individuale, della singolarità attraversata dalla fede, della stessa scienza) vengono avanzate contro la filosofia: contro la compiutez­za razionale del sistema, contro la circolarità speculativa della dialettica, contro l'astratta freddezza della ragione che non co­glie né risolve il dolore e il disagio della vita umana.
 
La critica e l'oltrepassamento della filosofia hegeliana (ma an­che, in un certo senso, la sua prosecuzione adeguata) ten­dono co­sì a configurarsi come critica e oltrepassamento della filosofia in generale. Nasce in filosofia uno stile para­dossale e quasi autocon­futativo. Con Kierkegaard, Marx, Nietzsche e altri pensatori post-hegeliani, la filosofia diven­ta anche e per lo più critica della filoso­fia, compiuta in nome dell'esperienza religiosa, della giustizia so­ciale, o della vita. La religione, la giustizia sociale, la vita, appaio­no di volta in volta come la verità della filosofia, la sua miscono­sciuta ragione d'essere, il suo destino.
Naturalmente, ciò che viene messo in questione è soprattut­to un certo stile filosofico, che si mostra inespressivo e inu­tile. Il ri­chiamo di Kierkegaard al «pensatore vivente», come quello di Marx (e Feuerbach) alla materialità delle condizio­ni del pensiero, come l'evocazione nietzscheana della volon­tà di potenza che ope­ra in ogni filosofia, non sono di per se stesse teorie della fine. Ciò che ne dovrebbe emergere è piuttosto un «nuovo» stile, un nuovo modo di fare filosofia. E tuttavia, c'è il legittimo dubbio che il mondo dell'espe­rienza «non concettuale» così evocato contro il dominio he­geliano del concetto sia irriducibile a un modo propria­mente filosofico di esercitare il pensiero, e che dun­que apren­dosi ali'altrove, al proprio «altro», al mondo impu­ro della vita, ai rapporti di potere, all'esperienza religiosa, la fi­losofia stessa entri in una fase decisamente postfilosofica [D'Agostini, 1997:23]
 
In effetti, la stessa identificazione del filosofo inizia a essere proble­matica: è un filosofo Kierkegaard? Lo è Marx? Lo è Nietz­sche? Il primo per sua stessa ammissione è "uno scrittore di cose religiose", il secondo è un teorico dell'economia e della politica, il terzo è uno scrittore di aforismi, un distruttore del senso comune filosofico e un poeta dell'argomentazione.
 
 
 
 
 
 
 
La filosofia e le scienze
A questo processo di autoconfutazione del linguaggio filosofico tra­dizionale si associa lo «smembramento»" della filosofia nelle scienze della società e dell'uomo, e nella logica. È un movimento che trae origine dall'epistemologia illuministica, ma che solo nel se­condo Ottocento si realizza pienamente.
 
 
 
 
Intorno alla metà del secolo George Boole, un alge­brista ir­landese, riusciva a costruire un calcolo logico coerente in forma di calcolo algebrico: si apriva così la via alla matematizzazione della logica, la logica passava dalle mani dei filosofi a quelle dei matematici. 
Nel 1879 Wilhelm Wundt fondava a Lipsia il primo laboratorio di psicologia sperimentale, e anche la psicologia ces­sava di essere analisi introspettiva dell'anima per diventare (solo o per lo più) scienza quantificante e classificatoria. La sfera del «pensiero» (nel senso cartesiano del termine come il luogo privi­legiato del lavoro filosofico), veniva così colonizzata dalle sciente, sia nella sua versione introspettiva, psi­cologica, sia nella sua versione formale, logica: la psi­cologia empirica e la logica matematica po­tevano oc­cuparsene in modo più adeguato della vecchia «filoso­fia».
 
D'altra parte anche l'ambito dei rapporti umani, dell'etica e del dirit­to venivano conquistati da saperi specifici, con la nascita e lo svilup­po di una serie di scienze particolari: la sociologia, la linguistica, l'antropologia culturale, la storiografia e così via.
Nasce tra Ottocento e Novecento un vasto movimento di ridefini­zione della scienza, della filosofia, delle nuove discipline che si pro­lunga fino alla metà del XX secolo e a cui partecipano il neokanti­smo, lo storicismo, Weber, l'empiriocriticismo, il neoi­dealismo. Ne­gli anni Venti e Trenta nasce e si diffonde in ambito culturale tede­sco una corrente filosofica nuova, il neopositivismo, che intende offrire una soluzione al problema dei rapporti tra filosofia e scienze. Si tratta però di un vero ribaltamento di prospettive: se lo sviluppo della scienza infatti non è avvertito dai neopositivisti come una mi­naccia per la filosofia, è solo perché il loro punto di partenza  è quello di ridurre la filosofia a semplice azione di analisi e di control­lo dell'operato delle scienze. Le novità scientifiche, lo sviluppo della logica formale e la compiuta affermazione del metodo ipotetico-deduttivo nel pensiero scientifico, le geometrie non-euclidee, la teo­ria della relati­vità, la meccanica quantistica,  possono garantire e inaugurare un nuovo modo di fare filosofia e soprattutto possono favorire la na­scita di una vera filosofia scientifica, in un duplice sen­so: una filo­sofia come «scienza», ovvero come analisi logica del lin­guaggio; e come «ancella della scienza», esercizio rigoroso di chiari­ficazione dei concetti di cui si serve il lavoro scientifico

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