Get Adobe Flash player

Scheda introduttiva su Heidegger

 [filo_585]

 Una delle prime e fondamentali intuizioni di Heidegger riguarda l'uomo: esso, dice il filosofo tedesco, non deve essere concepito, come fa la tradizione filosofica occidentale, come una sostanza defin­ita da un complesso di proprietà stabili (per esempio, l'essere «animale» e l'essere «razionale»). L'uomo è invece semplicemente un Dasein, ovvero un «esserci»: non è una sostanza stabile e perma­nente, che implicherebbe un progetto già stabilito in partenza (l'uomo «deve» realizzare la propria razionalità) quanto una proget­tualità che deve scegliere realmente in che modo attuare le proprie potenzialità. Heidegger esprime ciò anche dicendo che l'«essenza» dell'esserci consiste interamente nella sua «esi­stenza»: il termine va inteso in senso etimologico come uno «star fuori» (da ex-sisto), un tendere oltre, oltrepassando sé e la realtà già data in direzione delle possibilità (del futuro, del poter-essere). 

 

Le formule di Heidegger sembrano ripetere taluni aspetti di Kierke­gaard; tuttavia, l'«esserci» non coincide del tutto con il «singolo» kierkegaardiano, perché al centro della nozione heideggeriana non è tanto il momento della singolarità irripetibile della persona, quanto quello del legame con l'essere.

 

Il Dasein esiste solo rapportandosi al suo essere e questo significa che egli, prima ancora di poter fare una qualsiasi riflessione, vive già in una qualche forma di comprensione dell'essere di tipo pre-onto­logico, senza cioè una conoscenza esplicita dell'essere. Il modo in cui il Dasein esiste ha sempre un carattere rivelativo, è sempre «schiusura» (Erschlossenheit) non solo del proprio essere, ma anche di quello del mondo e degli enti che si trovano nel mondo. È solo perché il Dasein ha da sempre una certa comprensione pre-concet­tuale dell'essere, che può anche porre la domanda sul senso dell'essere. 

 

 

Ma che cos'è il «mondo» di cui stiamo parlando? Evidentemente non è, per Heidegger, una «cosa» già data, che sta «là fuori», e nem­meno può consistere nella semplice somma di tutti gli enti, oppure in un'immensa cornice (concepita come una «cosa») che li racchiu­de. 

Il mondo è invece un'apertura, uno sfondo, un orizzonte che che è la condizione per la quale possono apparire tutti gli enti. È un carat­tere dell'esserci stesso, vale a dire come un esistenziale. 

 

Le «cose» sono quello che sono solo all'interno di un mondo, e si da un mondo solo in quanto l'uomo è, alla sua radice, essere-nel-mondo e «cura» (Sorge) del mondo stesso. Il Dasein considera le cose prima di tutto non come «oggetti» conoscibili in quanto «sem­plicemente-presenti» (questo è stato l'errore della filosofia occiden­tale), ma come «mezzi per» uno scopo. La semplice-presenza infatti è solo un modo di essere derivato rispetto alla utilizzabilità, e si ma­nifesta quando il prendersi cura si realizza nella forma-limite del puro cono­scere, dell'osservare contemplativo come sospensione di ogni manipola­zione e di ogni uso.

Ogni mezzo rimanda all'altro e in un certo senso lo «significa», ma l'intera catena dei rimandi mette capo infine a un termine ultimo che non è più un semplice utilizzabile: si tratta proprio dell'esserci i. Appunto questa totalità di rimandi e di significati è il mondo.

 

 

I modi del Dasein

I modi fondamentali in cui il Dasein può «esserci», ossia può aprirsi alla totalità dei mezzi, sono tre: 

 

la situazione affettiva (Befindlichkeit) 

il com­prendere (Verstehen)

il parlare (Rede)

 

Nelle situazioni affettive, ossia negli stati d'animo (per esempio gio­ia, noia, angoscia) l'uomo è aperto al mondo con una tonalità emo­tiva. Fra gli stati d'animo assume particolare rilevanza quello dell'angoscia: a differenza della paura (che è sempre paura di qual­cosa), l'angoscia ha un carattere di totale indeterminatezza; davanti all'angoscia non c'è che il «nulla» (di determinato), perché il mondo ha perso ogni significato. nella situazione affettiva l'uomo si ritrova a esistere senza sapere «da dove» viene e «dove» va: il suo essere gli si rivela come un essere-gettato (Geworfenheit), come il puro fatto «che c'è ed ha da essere», in cui consiste la fatticità dell'esserci.

Ma il Dasein esiste nei confronti del mondo anche e soprattutto nella forma del comprendere, che è un originario volgersi dell'uomo alle possibilità che articolano il suo essere-nel-mondo, protenden­dosi verso il futuro pro-gettando (ossia «gettando innan­za a sè») il proprio modo di essere. Bisogna però tenere conto del fatto che il Dasein non è onnipotente: se progetta un ordine di pos­sibilità e di significati, dall'altro il suo pro-getto è sempre  storica­mente situato ed è sempre condizionato dal linguaggio in cui si esprime. Il com­prendere rende inoltre  possibile l'interpretazione, tramite la quale viene esplicitato l'insieme dei significati che la com­prensione del mondo ha scoperto e svelato. 

Il parlare infine esprime e rende manifesto quanto è già compreso e interpretato. Si stabilisce così un rapporto di circolarità fra questi momenti: il conoscere non è un andare direttamente del soggetto all'oggetto, o un rispecchiamento dell'oggetto nel pensiero, ma è un muoversi, interpretando, all'interno di una pre-comprensione di una totalità di significati.

 

Quindi possiamo dire che ogni comprensione e interpretazione del mondo sono sempre dotate di un certo tono emotivo e devono esprimersi originariamente in un linguaggio. 

Tuttavia il pro-getto e l'interpretazione sono sempre appiattiti nella dimensione del «si» (nel senso del «si dice», «si pensa») ossia in una medietà che è l'annullamento del soggetto individuale (l'autentico Dasein): la chiacchiera, la banale curiosità e l'equivoco portano allo scadimento (Verfallenheit) dell'esserci in una forma non au­tentica (senza che questa non autenticità debba essere considerata un «male» morale). 

 

 

L'essere per la morte

L'essere del Dasein appare sempre come cura (Sorge), termine con cui Heidegger intende indicare la totalità delle strutture esistenziali: il pro-getto (che allude al futuro), l'essere-gettato nel mondo (che indica il passato) e lo scadimento (che esprime il presente). Il Da­sein si mostra quindi essenzialmente nel tempo. 

Poiché la sua esistenza consiste anzitutto nel protendersi verso delle possibilità, il Dasein, finché esiste, è costantemente incompiuto. Finché c'è, l'esserci umano è incompleto e ha sem­pre delle possibili­tà ulteriori da attuare. Ma esiste una possibilità che non è solo una possibilità tra le altre, ma rappresenta l'orizzonte di tutte le possibi­lità: la morte. La morte non è semplicemente il venir meno di una presenza: essa va compresa come quella possibilità ultima che l'Esserci deve assumere da quando nasce.  l'uomo si rapporta già sempre alla sua fine non come a un fatto, ma come a una possibili­tà, e per l'esattezza come alla «possibilità della pura e semplice im­possibilità dell'esserci». L'Esserci pertanto esiste sempre come un essere in vista della sua fine, vale a dire come essere-per-la-morte (Sein-zum-Tode). 

 

La Svolta

Negli anni successivi alla pubblicazione di Essere e tempo tuttavia Heidegger approfondisce e in parte modifica le sue posizioni, tanto che si è soliti parlare, per la sua produzione degli anni Trenta, di una «Svolta». L'uomo accede agli enti, li scopre e ne prende conoscenza solo in quanto si trova già da sempre inserito in una galassia di si­gnificati — il «mondo» di cui parla Essere e tempo —, che però deve essere descritta non come il risultato di una decisione dell'uomo ma come un evento «dis-velante» generato dall'essere stesso. Se vale ancora l'idea che l'esserci è «pro-getto gettato», è ora chiaro per Heidegger che «chi getta, nel pro-gettare, non è l'uomo, ma lo stesso essere». In altre parole è l'Essere stesso che si mani­festa e si dà, essenzialmente attraverso il linguaggio, come ve­dremo. Questo non vuol dire che l'uomo è diventato puramente passivo di fronte alle «decisioni» dell'Essere. Piuttosto, Heidegger ha in mente che Essere e uomo si appartengono l'uno all'altro, che sono consegnati l'uno all'altro: l'uomo non è mai senza l'essere, e l'essere non si da mai senza l'uomo, sicché non ha senso per Hei­degger pensare a una loro contrapposizione di tipo metafisico. Hei­degger usa la parola evento (Ereignis) cper indicare che l'Essere ha il carattere dell'acca­dere, dell'istituirsi storico di aperture e di mondi attraverso l'uomo; in tali aperture l'Essere da un lato si appropria dell'uomo e dall'altro si consegna a lui, il quale a sua volta diventa il custode della rivela­zione dell'essere. 

Possiamo a questo punto richiamare la celebre espressione, intro­dotta da Heidegger nella Lettera sull'umanismo, secondo cui il «lin­guaggio è la casa dell'essere». Il mondo non può manifestarsi se non attraverso un evento che sia in qualche modo un evento linguistico, al punto che «là dove non ha luogo linguaggio di sorta, come nell'essere della pietra, della pianta e dell'animale, non ha neppur luogo alcun aprimento dell'ente»; ogni ente, infatti, per apparire deve inserirsi in un mondo, cioè in una totalità di significati che pre­suppone qualcosa come il linguaggio. Ma Heidegger intende anche affermare che «è la parola che procura l'essere alla cosa»: l'essere in­fatti va pensato come l'orizzonte entro il quale l'ente può apparire (cioè manifestarsi, ovvero in ultima analisi esistere) e correlativa­mente il linguaggio va inteso come l'evento che trae dal nascondi­mento l'ente, portan­dolo alla parola, sicché «nessuna cosa è dove la parola manca». 

 

La metafisica e la tecnica

Se c'è bisogno ancora di una riflessione sul senso dell'Essere, sostie­ne Heidegger, è perché questo senso è andato smarrito, e il respon­sabile è la metafisica occidentale. Il termine «metafisica» qui non si­gnifica una parte della filosofia rispetto alle altre quanto lo stesso «progetto» complessivo della cultura occidentale, che comprende anche  la scienza, la morale, la tecnica, la religione e la filosofia. In­fatti è solo alla luce di una determinata metafisica che, in ogni epo­ca, una certa umanità storica si pone in rapporto con l'ente nella sua totalità e dunque anche con se stessa. L'epoca attuale è caratterizza­ta dalla metafisica della «volontà di potenza», annunciata da Nie­tzsche, e trova il suo compimento nella tecnica.

Il pensiero metafisico non è pensato da Heidegger in contrapposi­zione a quello scientifico, come fanno invece il positivismo e l'empi­rismo logico: la stessa scienza moderna, che progetta l'ente come oggettività calcola­bile, nasce, secondo il filosofo tedesco, dal tronco della metafisica, cioè dalla rinuncia a pensare la verità dell'essere.

L'oblio dell'essere è all'origine di quello sradicamento profondo dell'uomo dalla sua essenza (essenza che consiste nella sua «vicinan­za» all'essere, ossia nella sua capacità di accogliere il suo manifestar­si), nel quale noi ci affaccendiamo in modo esclusivo attorno agli oggetti e ne dimentichiamo il carattere di possibilità aperte

Il compimento della metafisica è, per Heidegger, la sua completa traduzione nell'attività di organizzazione e di dominio del mondo attraverso la tecnica, che va pertanto intesa come «metafisica com­piuta». La «tecnica» designa una certa maniera in cui l'uomo e l'esse­re risultano vicendevolmente coinvolti, nel senso che da un lato tut­to l'ente è ridotto a un «fondo» di risorse disponibili, sfrutta­bili, cal­colabili e dall'altro l'uomo è sollecitato a impiegare questo «fondo». 

Anche la tecnica non va pensata a partire esclusivamente dall'uomo e dunque non va rappresentata come un'attività umana che appresta dei mezzi in vista di fini, secondo quella prospettiva che Heidegger definisce antropologico-strumentale. Nella tecnica accade invece qualcosa come un disvelamento.  

 

Una delle prime e fondamentali intuizioni di Heidegger riguarda l'uomo: esso, dice il filosofo tedesco, non deve essere concepito, come fa la tradizione filosofica occidentale, come una sostanza defin­ita da un complesso di proprietà stabili (per esempio, l'essere «animale» e l'essere «razionale»). L'uomo è invece semplicemente un Dasein, ovvero un «esserci»: non è una sostanza stabile e perma­nente, che implicherebbe un progetto già stabilito in partenza (l'uomo «deve» realizzare la propria razionalità) quanto una proget­tualità che deve scegliere realmente in che modo attuare le proprie potenzialità. Heidegger esprime ciò anche dicendo che l'«essenza» dell'esserci consiste interamente nella sua «esi­stenza»: il termine va inteso in senso etimologico come uno «star fuori» (da ex-sisto), un tendere oltre, oltrepassando sé e la realtà già data in direzione delle possibilità (del futuro, del poter-essere). 
 
Le formule di Heidegger sembrano ripetere taluni aspetti di Kierke­gaard; tuttavia, l'«esserci» non coincide del tutto con il «singolo» kierkegaardiano, perché al centro della nozione heideggeriana non è tanto il momento della singolarità irripetibile della persona, quanto quello del legame con l'essere.
 
Il Dasein esiste solo rapportandosi al suo essere e questo significa che egli, prima ancora di poter fare una qualsiasi riflessione, vive già in una qualche forma di comprensione dell'essere di tipo pre-onto­logico, senza cioè una conoscenza esplicita dell'essere. Il modo in cui il Dasein esiste ha sempre un carattere rivelativo, è sempre «schiusura» (Erschlossenheit) non solo del proprio essere, ma anche di quello del mondo e degli enti che si trovano nel mondo. È solo perché il Dasein ha da sempre una certa comprensione pre-concet­tuale dell'essere, che può anche porre la domanda sul senso dell'essere. 
 
 
Ma che cos'è il «mondo» di cui stiamo parlando? Evidentemente non è, per Heidegger, una «cosa» già data, che sta «là fuori», e nem­meno può consistere nella semplice somma di tutti gli enti, oppure in un'immensa cornice (concepita come una «cosa») che li racchiu­de. 
Il mondo è invece un'apertura, uno sfondo, un orizzonte che che è la condizione per la quale possono apparire tutti gli enti. È un carat­tere dell'esserci stesso, vale a dire come un esistenziale. 
 
Le «cose» sono quello che sono solo all'interno di un mondo, e si da un mondo solo in quanto l'uomo è, alla sua radice, essere-nel-mondo e «cura» (Sorge) del mondo stesso. Il Dasein considera le cose prima di tutto non come «oggetti» conoscibili in quanto «sem­plicemente-presenti» (questo è stato l'errore della filosofia occiden­tale), ma come «mezzi per» uno scopo. La semplice-presenza infatti è solo un modo di essere derivato rispetto alla utilizzabilità, e si ma­nifesta quando il prendersi cura si realizza nella forma-limite del puro cono­scere, dell'osservare contemplativo come sospensione di ogni manipola­zione e di ogni uso.
Ogni mezzo rimanda all'altro e in un certo senso lo «significa», ma l'intera catena dei rimandi mette capo infine a un termine ultimo che non è più un semplice utilizzabile: si tratta proprio dell'esserci i. Appunto questa totalità di rimandi e di significati è il mondo.
 
 
I modi del Dasein
I modi fondamentali in cui il Dasein può «esserci», ossia può aprirsi alla totalità dei mezzi, sono tre: 
 
la situazione affettiva (Befindlichkeit) 
il com­prendere (Verstehen)
il parlare (Rede)
 
Nelle situazioni affettive, ossia negli stati d'animo (per esempio gio­ia, noia, angoscia) l'uomo è aperto al mondo con una tonalità emo­tiva. Fra gli stati d'animo assume particolare rilevanza quello dell'angoscia: a differenza della paura (che è sempre paura di qual­cosa), l'angoscia ha un carattere di totale indeterminatezza; davanti all'angoscia non c'è che il «nulla» (di determinato), perché il mondo ha perso ogni significato. nella situazione affettiva l'uomo si ritrova a esistere senza sapere «da dove» viene e «dove» va: il suo essere gli si rivela come un essere-gettato (Geworfenheit), come il puro fatto «che c'è ed ha da essere», in cui consiste la fatticità dell'esserci.
Ma il Dasein esiste nei confronti del mondo anche e soprattutto nella forma del comprendere, che è un originario volgersi dell'uomo alle possibilità che articolano il suo essere-nel-mondo, protenden­dosi verso il futuro pro-gettando (ossia «gettando innan­za a sè») il proprio modo di essere. Bisogna però tenere conto del fatto che il Dasein non è onnipotente: se progetta un ordine di pos­sibilità e di significati, dall'altro il suo pro-getto è sempre  storica­mente situato ed è sempre condizionato dal linguaggio in cui si esprime. Il com­prendere rende inoltre  possibile l'interpretazione, tramite la quale viene esplicitato l'insieme dei significati che la com­prensione del mondo ha scoperto e svelato. 
Il parlare infine esprime e rende manifesto quanto è già compreso e interpretato. Si stabilisce così un rapporto di circolarità fra questi momenti: il conoscere non è un andare direttamente del soggetto all'oggetto, o un rispecchiamento dell'oggetto nel pensiero, ma è un muoversi, interpretando, all'interno di una pre-comprensione di una totalità di significati.
 
Quindi possiamo dire che ogni comprensione e interpretazione del mondo sono sempre dotate di un certo tono emotivo e devono esprimersi originariamente in un linguaggio. 
Tuttavia il pro-getto e l'interpretazione sono sempre appiattiti nella dimensione del «si» (nel senso del «si dice», «si pensa») ossia in una medietà che è l'annullamento del soggetto individuale (l'autentico Dasein): la chiacchiera, la banale curiosità e l'equivoco portano allo scadimento (Verfallenheit) dell'esserci in una forma non au­tentica (senza che questa non autenticità debba essere considerata un «male» morale). 
 
 
L'essere per la morte
L'essere del Dasein appare sempre come cura (Sorge), termine con cui Heidegger intende indicare la totalità delle strutture esistenziali: il pro-getto (che allude al futuro), l'essere-gettato nel mondo (che indica il passato) e lo scadimento (che esprime il presente). Il Da­sein si mostra quindi essenzialmente nel tempo. 
Poiché la sua esistenza consiste anzitutto nel protendersi verso delle possibilità, il Dasein, finché esiste, è costantemente incompiuto. Finché c'è, l'esserci umano è incompleto e ha sem­pre delle possibili­tà ulteriori da attuare. Ma esiste una possibilità che non è solo una possibilità tra le altre, ma rappresenta l'orizzonte di tutte le possibi­lità: la morte. La morte non è semplicemente il venir meno di una presenza: essa va compresa come quella possibilità ultima che l'Esserci deve assumere da quando nasce.  l'uomo si rapporta già sempre alla sua fine non come a un fatto, ma come a una possibili­tà, e per l'esattezza come alla «possibilità della pura e semplice im­possibilità dell'esserci». L'Esserci pertanto esiste sempre come un essere in vista della sua fine, vale a dire come essere-per-la-morte (Sein-zum-Tode). 
 
La Svolta
Negli anni successivi alla pubblicazione di Essere e tempo tuttavia Heidegger approfondisce e in parte modifica le sue posizioni, tanto che si è soliti parlare, per la sua produzione degli anni Trenta, di una «Svolta». L'uomo accede agli enti, li scopre e ne prende conoscenza solo in quanto si trova già da sempre inserito in una galassia di si­gnificati — il «mondo» di cui parla Essere e tempo —, che però deve essere descritta non come il risultato di una decisione dell'uomo ma come un evento «dis-velante» generato dall'essere stesso. Se vale ancora l'idea che l'esserci è «pro-getto gettato», è ora chiaro per Heidegger che «chi getta, nel pro-gettare, non è l'uomo, ma lo stesso essere». In altre parole è l'Essere stesso che si mani­festa e si dà, essenzialmente attraverso il linguaggio, come ve­dremo. Questo non vuol dire che l'uomo è diventato puramente passivo di fronte alle «decisioni» dell'Essere. Piuttosto, Heidegger ha in mente che Essere e uomo si appartengono l'uno all'altro, che sono consegnati l'uno all'altro: l'uomo non è mai senza l'essere, e l'essere non si da mai senza l'uomo, sicché non ha senso per Hei­degger pensare a una loro contrapposizione di tipo metafisico. Hei­degger usa la parola evento (Ereignis) cper indicare che l'Essere ha il carattere dell'acca­dere, dell'istituirsi storico di aperture e di mondi attraverso l'uomo; in tali aperture l'Essere da un lato si appropria dell'uomo e dall'altro si consegna a lui, il quale a sua volta diventa il custode della rivela­zione dell'essere. 
Possiamo a questo punto richiamare la celebre espressione, intro­dotta da Heidegger nella Lettera sull'umanismo, secondo cui il «lin­guaggio è la casa dell'essere». Il mondo non può manifestarsi se non attraverso un evento che sia in qualche modo un evento linguistico, al punto che «là dove non ha luogo linguaggio di sorta, come nell'essere della pietra, della pianta e dell'animale, non ha neppur luogo alcun aprimento dell'ente»; ogni ente, infatti, per apparire deve inserirsi in un mondo, cioè in una totalità di significati che pre­suppone qualcosa come il linguaggio. Ma Heidegger intende anche affermare che «è la parola che procura l'essere alla cosa»: l'essere in­fatti va pensato come l'orizzonte entro il quale l'ente può apparire (cioè manifestarsi, ovvero in ultima analisi esistere) e correlativa­mente il linguaggio va inteso come l'evento che trae dal nascondi­mento l'ente, portan­dolo alla parola, sicché «nessuna cosa è dove la parola manca». 
 
La metafisica e la tecnica
Se c'è bisogno ancora di una riflessione sul senso dell'Essere, sostie­ne Heidegger, è perché questo senso è andato smarrito, e il respon­sabile è la metafisica occidentale. Il termine «metafisica» qui non si­gnifica una parte della filosofia rispetto alle altre quanto lo stesso «progetto» complessivo della cultura occidentale, che comprende anche  la scienza, la morale, la tecnica, la religione e la filosofia. In­fatti è solo alla luce di una determinata metafisica che, in ogni epo­ca, una certa umanità storica si pone in rapporto con l'ente nella sua totalità e dunque anche con se stessa. L'epoca attuale è caratterizza­ta dalla metafisica della «volontà di potenza», annunciata da Nie­tzsche, e trova il suo compimento nella tecnica.
Il pensiero metafisico non è pensato da Heidegger in contrapposi­zione a quello scientifico, come fanno invece il positivismo e l'empi­rismo logico: la stessa scienza moderna, che progetta l'ente come oggettività calcola­bile, nasce, secondo il filosofo tedesco, dal tronco della metafisica, cioè dalla rinuncia a pensare la verità dell'essere.
L'oblio dell'essere è all'origine di quello sradicamento profondo dell'uomo dalla sua essenza (essenza che consiste nella sua «vicinan­za» all'essere, ossia nella sua capacità di accogliere il suo manifestar­si), nel quale noi ci affaccendiamo in modo esclusivo attorno agli oggetti e ne dimentichiamo il carattere di possibilità aperte
Il compimento della metafisica è, per Heidegger, la sua completa traduzione nell'attività di organizzazione e di dominio del mondo attraverso la tecnica, che va pertanto intesa come «metafisica com­piuta». La «tecnica» designa una certa maniera in cui l'uomo e l'esse­re risultano vicendevolmente coinvolti, nel senso che da un lato tut­to l'ente è ridotto a un «fondo» di risorse disponibili, sfrutta­bili, cal­colabili e dall'altro l'uomo è sollecitato a impiegare questo «fondo». 
Anche la tecnica non va pensata a partire esclusivamente dall'uomo e dunque non va rappresentata come un'attività umana che appresta dei mezzi in vista di fini, secondo quella prospettiva che Heidegger definisce antropologico-strumentale. Nella tecnica accade invece qualcosa come un disvelamento.  

 

Questo sito fa uso di cookies di terze parti (Google e Histats) oltre che di cookies tecnici necessari al funzionamento del sito . Per proseguire la navigazione accettate esplicitamente l'uso dei cookies cliccando su "Avanti". Per avere maggiori informazioni (tra cui l'elenco dei cookies) cliccate su "Informazioni"