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John Locke (1632 – 1704) nella sua celebre Lettera al lettore che funge da introduzione alla sua opera fondamentale, il Saggio sull'intelletto umano, propone un modo importante di impostare il problema della conoscenza: prima di metterci a cercare di capire la struttura dell'universo, è la sua argomentazione, dovremmo cercare di capire cosa possiamo effettivamente conoscere.
È inutile darsi da fare, come hanno fatto tutti i filosofi fino a questo momento, senza prima stabilire se possiamo conoscere qualcosa, che cosa possiamo conoscere, come possiamo conoscerlo. Senza questo controllo preventivo dei limiti della conoscenza noi corriamo il serio rischio di perdere tempo cercando di fondare affermazioni che non possono essere dimostrate (nel migliore dei casi) o di perderci dietro affermazioni effettivamente false (nel peggiore).
Questa strategia è molto seducente ma ha un punto debole: anche la conoscenza dei limiti della conoscenza è pur sempre una conoscenza. Cioè: se io metto in dubbio la mia capacità di conoscere, e cerco di stabilirne i limiti a priori, prima di mettermi effettivamente alla prova, mi trovo nella condizione di usare uno strumento (la conoscenza) per cercare di stabilire la validità di quello stesso strumento. Per fare un esempio che non è di Locke, è come se io cercassi di stabilire quanto è lungo un metro da falegname usando quello stesso metro: se il metro (inteso come oggetto fisico) è stato costruito male, non ho alcuna possibilità di accorgermene usando solo quello stesso metro.
Locke accoglie molte delle intuizioni decartesiane (in particolare quella della autotrasparenza del cogito) ma ne dissente su un punto fondamentale: non esistono le idee innate. Ogni idea, ossia ogni rappresentazione mentale, è una idea adventitia, per usare la terminologia di Descartes. Locke cioè è fondamentalmente un empirista, rafforzando in questo la già consolidata tradizione inglese: il fondamento della conoscenza è l'esperienza sensibile.
Il suo Saggio sull'intelletto umano è considerato il punto di partenza del movimento illuminista mentre i suoi trattati politici sono visti come il punto di inizio del pensiero liberale.
Tutto il primo libro dell'opera più famosa di Locke, il Saggio sull'intelletto umano del 1690, è una discussione contro le idee innate.
La tesi di Locke è che alla nascita la mente di ogni uomo è come una tabula rasa priva di idee, cioè di rappresentazioni mentali (questa concezione ricalca in pieno la concezione di Descartes): esse si depositeranno nella nostra mente col tempo e con l'esperienza, appunto.
Il punto di forza di questa argomentazione è che permette di spiegare perché non ci siano verità universalmente condivise da tutti gli uomini. Ad esempio, la stessa idea di Dio, che Descartes considera innata, è di fatto diversa per ogni civiltà, come i viaggi di esplorazione andavano mostrando proprio in quegli anni. Ma nemmeno le idee dei principi primi (per esempio il principio di identità o di non contraddizione) sono innate: se così fosse infatti anche un bambino piccolo o un bruto dovrebbero conoscere tali principi, e invece questo non avviene. La stessa argomentazione vale in genere per le idee dei principi morali (che sono diversi per popoli diversi).
Si noti come questa argomentazione vale solo se si accetta il principio decartesiano della autotrasparenza del cogito, per il quale se io ho una idea (ossia, se c'è una rappresentazione montale nella mia mente) ne devo essere consapevole, e viceversa se sono consapevole di una idea questa è necessariamente «nella» mia mente.
Un altro tipico esempio che Locke (e poi tutti i filosofi empiristi del XVIII secolo) porteranno a favore della loro tesi è quello del «cieco nato»: un individuo cieco dalla nascita, che non ha mai fatto esperienza di cosa sia un oggetto colorato, non è in grado di comprendere il concetto di colore.
Secondo l’empirismo, quindi, tutte le idee vengono acquisite grazie all’esperienza e per gradi.
Rimane lo stesso problema di Descartes: se l’idea è l’oggetto immediato della nostra conoscenza, ovvero ciò che conosce la mia mente non sono le cose in sé ma le loro rispettive idee (cioè le loro rappresentazioni mentali) si pone il problema del rapporto tra oggetto reale ed idea.
Secondo Locke, le idee sono causate da ciò che egli chiama «qualità» presenti nei corpi e che sono precisamente la capacità che le cose hanno di produrre rappresentazioni mentali. Le qualità si dividono in
Tale distinzione viene ripresa dalle osservazioni di Cartesio e Galileo, ma non viene fondata in modo altrettanto solido.
Le idee si classificano in semplici, a loro volta divise in
e complesse (nascono dall’elaborazione delle idee semplici). Le idee complesse si suddividono in idee di
Esse presentano uno stretto nesso tra parola, pensiero e realtà. La realtà, infatti, esiste ed è causa delle idee: quando si parla, le parole si riferiscono all’idea, non alla cosa reale. In particolare, l’idea di sostanza è considerata una pseudo-idea, ovvero un idea non ben definita (perché non abbiamo un chiaro riferimento in mente), che, pur esistendo, non può quindi essere conosciuta appieno.
La conoscenza è nella sua essenza giudizio, ovvero connessione tra le idee, percezione di un rapporto di concordanza o di discordanza tra idee differenti, e tale percezione può essere mediata o immediata.
La percezione immediata consiste nella conoscenza intuitiva (ad esempio la percezione della mia esistenza: Locke recupera pienamente il cogito descartesiano), mentre quella mediata è dimostrativa, ovvero avviene attraverso passaggi logici (fanno parte di questa categoria i teoremi di geometria o l’esistenza di Dio).
A questi due tipi di conoscenza si affianca la conoscenza dei corpi esterni, che non è ne immediata ne mediata, ma è basata sul buonsenso. La conoscenza dell’esistenza di Dio, non potendo essere immediata, necessita di dimostrazione. Tale dimostrazione parte dal presupposto che qualcosa esista certamente (almeno io), e, poiché non può essere stato prodotto dal nulla, qualcosa deve sempre essere esistito fin dall’eternità. Poiché questo ente mi ha dato l’essere e alcune perfezioni insieme ad esso, deve possedere tanto l’essere quanto le perfezioni, ovvero deve essere un dio esistente.
Locke critica pesantemente la metafisica tradizionale (aristotelica) e soprattutto l’idea di sostanza.
Egli sostiene che la filosofia tradizionale sia sbagliata per un errore di metodo strutturale: non distinguere tra le idee di sensazione e quelle di riflessione, che invece corrispondono a due processi mentali diversi.
Quando io pronuncio la parola «rosso» esprimo l’idea di rosso (la rappresentazione mentale di rosso) che a sua volta è generata dalla qualità «rosso» che esiste nella realtà: è un procedimento corretto.
Quando io pronuncio la parola «penna», questa parola rimanda sì all’idea (cioè alla rappresentazione mentale) della penna, ma questa non rimanda automaticamente (ossia: non posso essere sicuro che rimandi) a una realtà esterna «penna» (anche se in realtà Locke è certo della sua esistenza): è un procedimento scorretto.
La sostanza aristotelica viene duramente criticata da Locke, secondo cui la parola inglese «sostanza» è la traduzione di substantia, ovvero «ciò che sta sotto» (le qualità di penna e di porta).
Ma poiché io conosco solo ciò che è prodotto dalle qualità, della sostanza, che sta sotto le qualità, non posso dire niente; di conseguenza la filosofia aristotelica non è valida.
Si tratta di diritti che poggiano sulla tendenza spontanea verso l'autoconservazione e la felicità.
La legge di natura prescrive di non ledere ai diritti altrui, ma, se priva di una legge positiva (umana) che sia in grado di applicarla, è priva di efficacia.
La legge di natura necessita quindi di tre elementi per essere garantita:
Sulla valutazione dello stato di natura, le posizioni di Hobbes e di Locke sono discordanti. Il primo, come sintetizzato dalla celebre massima homo homini lupus concepiva negativamente lo stato di natura, come uno stato di perenne guerra in cui ogni individuo perseguiva i propri interessi e vedeva nella nascita dello stato civile la volontà di evitare lo stato di guerra.
Al contrario, Locke considerava lo stato di guerra come degenerazione dello stato di natura, in quanto il principio di autoconservazione si trasforma in diritto di distruzione reciproca. Lo stato civile, quindi, traeva origine da due distinte necessità: di superare la precarietà dello stato di natura e di prevenire lo stato di guerra. Queste necessità spiegano la tendenza degli uomini ad associarsi ed a nominare un giudice, passando allo stato civile e rinunciando, per prevenire la guerra, all’illimitatezza della propria libertà. L’uomo infatti rinuncia al proprio diritto di rendere esecutiva la legge di natura, affidandosi al giudice. Questi passaggi sono necessari, in quanto la trasformazione da stato di natura a stato civile non è immediata, benché segua le spinte socializzanti proprie dell’uomo ovvero la necessità (l’uomo infatti non è autosufficiente), il vantaggio (portato dalla vita sociale) ed una inclinazione naturale (derivante dal più elementare nucleo sociale, la famiglia). L’uomo istituisce quindi varie associazioni stipulando un contratto (non necessariamente scritto), su cui lo stato non può intervenire (per rispetto verso gli individui), ma su cui deve vigilare. Lo stato, infatti non può intervenire nell’ambito della famiglia, delle attività economiche, delle opinioni culturali e religiose e dei costumi: viene così implicitamente stabilito un principio di tolleranza religiosa e culturale.
Lo stato civile presenta due caratteristiche fondamentali: la libertà civile e la proprietà privata.
La prima si distingue profondamente dalla libertà naturale, in quanto consiste nella libertà di essere soggetti ad un potere legislativo fondato sul consenso: anche se una legge sembra limitare la libertà individuale, in realtà ne permette l’esercizio. In particolare, la legge tutela anche la seconda caratteristica dello stato civile, la proprietà privata. Secondo Locke, il diritto alla proprietà è connaturato all’uomo (in quanto la proprietà è compresa nelle legge naturale): lo stato, quindi, non la istituisce, bensì la rispetta. Riguardo allo sviluppo della proprietà privata vengono individuate tre fasi successive: la prima è la proprietà comune (ogni uomo la possiede insieme a tutti gli altri), la seconda la trasformazione in proprietà individuale ma equamente distribuita, creando un equilibrio di ricchezze. La terza ed ultima fase è rappresentata dall’introduzione del denaro, con cui la proprietà diventa diseguale e non ha più limite, rendendo così necessaria la legge civile che protegga la proprietà privata dall’ingerenza altrui.
Locke teorizza inoltre la divisione dei poteri in legislativo, esecutivo e giudiziario. Il potere legislativo, superiore a quello esecutivo (che è sempre in atto), assicura l’unione della società e deve avere tre limiti (per non ledere i diritti altrui): le leggi sono improntate al bene pubblico, la sfera privata esula dalle competenze dello stato, le leggi sono promulgate in maniera legittima. Si tratta, infatti, di un potere che appartiene a tutta la comunità, ma, poiché impossibile esercitarlo direttamente, viene delegato a dei rappresentanti in base al principio della fiducia. Ne consegue che, nel caso i rappresentanti vengano meno alla fiducia concessagli, il loro potere può essere revocato. Questo principio pone implicitamente le basi per il diritto alla rivoluzione del popolo: poiché il potere assoluto si basa sulla forza (e non sul consenso), esso è illegittimo, e il popolo ha diritto di ribellarsi ad esso. In particolare l’uso della forza non è necessario ma è legittimo.