Introduzione
La seconda parte del Discorso sul metodo si apre con un richiamo al novembre del 1619 e al complesso delle intuizioni e delle decisioni di capitale importanza che possono ricondursi a questo periodo (più che alla sola notte del 10 novembre). Gilson ricostruisce così la maturazione del pensiero cartesiano: nell'aprile del 1619 Descartes lascia Beeckman con l'intenzione di fermarsi da qualche parte non appena possibile per elaborare una geometria e una meccanica nuove; questa occasione si presenta effettivamente nel novembre dello stesso anno, grazie alla solitudine della "stanza riscaldata da un stufa" nella casa dove stava passando l'inverno. Il punto di partenza della sua riflessione è il progetto, incredibilmente ambizioso, di una scienza geometrica interamente nuova, che poteva essere edificata da uno solo, anzi da lui solo. Dopo qualche giorno, con ogni probabilità, Descartes va ancora più in là e "concepisce la possibilità di costruire tutte le scienze per mezzo dello stesso metodo della geometria" (Gilson, pag 158-159). Da qui nasce l'entusiasmo incredibile che si traduce nel famoso sogno della notte del 10 novembre.
L'idea centrale che il
Discorso fa risalire a questo periodo è perciò quella dell'
unità del corpo delle scienze in contrapposizione alla loro divisione, proposta dalla scolastica e ispirata erroneamente a una loro (delle scienze) analogia con le arti, divise appunto in funzione del loro fine e oggetto. Questa analogia viene duramente criticata da Descartes proprio all'inizio delle Regulae (per l'esattezza nella Regula I) là dove accusa gli scolastici di essersi "completamente ingannati" su questo punto e di non aver capito che "tutte le scienze non sono nient'altro che l'umano sapere, il quale permane sempre uno e medesimo, per differenti che siano gli oggetti a cui si applica" (Regulae, p 17), esattamente come la luce del sole non viene modificata dal fatto di illuminare oggetti diversi.
Per essere certo della stabilità dell'edificio unitario del sapere, e per essere certo di non incrinarne la compattezza accettando dei punti di partenza non controllati nel loro valore di verità, il procedimento più efficace viene descritto da Descartes con queste parole:
"Io, per me, delle opinioni fin allora accolte senza esame, non potevo far di meglio che disfarmi una buona volta per procurarmene delle migliori, o anche per riaccogliere quelle stesse, se le avessi riconosciute ragionevolmente fondate" (Discorso, p 11)
Nelle Risposte alle settime obiezioni si fa il paragone con un cesto di mele della cui bontà si vuol essere certi, per dire che è più semplice e più sicuro rovesciarle tutte sul tavolo e rimettere nel cesto solo quelle sane, piuttosto che rovistarvi alla cieca, col rischio che qualche mela bacata sfugga alla ricerca e successivamente rovini anche tutte le altre.
2.1 Il primo carattere del dubbio metodico che qui viene tratteggiato è la sua volontarietà: è per una decisione della volontà infatti che noi possiamo sospendere i nostri giudizi, dal momento che "il giudizio è un atto volontario e, di conseguenza, essenzialmente libero" (Gilson, 171)
2.2 Il secondo carattere è quello della simultaneità della totalità come unica garanzia del risultato: come si dice nelle Risposte alle settime obiezioni, le nostre opinioni vanno sospese "omnes simul et semel".
2.3 Il terzo carattere consiste nel carattere non euristico di nuove verità: "Il dubbio indica l'esigenza di un metodo nuovo, non necessariamente di verità nuove" (Levy-Bruhl, citato in Gilson pag 172); e ancora: "Tutta l'originalità, la fecondità e la verità stessa delle idee vengono loro dal posso che occupano nel la deduzione, non dal loro contenuto considerato in se stesso" (Gilson pag 172).
L'elaborazione del vero metodo costituisce così il secondo momento del
Discorso, distinto dal primo (l'intuizione dell'unità delle scienze) (cfr Gilson, 180-181).
I metodi esistenti
Le pagine più famose in cui Descartes parla del suo metodo sono naturalmente quelle della seconda parte del suo
Discours.
Tuttavia, mentre tutti i manuali scolastici indicano il nocciolo del metodo nelle quattro famose regole che ne sarebbero quasi un riassunto, per alcuni commentatori esse ci distolgono, nelle loro semplicità e banalità, dal vero cuore del metodo, il confronto con il procedere algebrico-geometrico.
Per esempio già Leibnitz commentava ironicamente quelle quattro regole sostenendo che era come prescrivere a un chimico : "Sume quod debes et operare ut debes, et habebis quod optas" (citato in Dijksterhuis, p 73). Lo stesso
Dijksterhuis nota: "si sarebbe ... tentati, se non fosse per l'autenticità incontestabile del manoscritto... di considerarle un'aggiunta posteriore. Esse ci danno persino l'impressione di essere, in larga misura, banali" (Dijksterhuis, 73) (salvo aggiungere, subito dopo, che la prima regola, quella dell'evidenza, se viene considerata come un postulato gnoseologico generale, acquista "una audacia inaudita poiché‚ afferma nientemeno che la scienza della natura può e deve essere trattata matematicamente" ivi 74). Perciò dobbiamo cercare altrove le indicazioni sulla vera natura del metodo.
Il testo più ampio e più esplicito sulla natura del metodo si trova nella IV regola delle
Regulae ad directionem ingenii.
Nella III
regula Descartes aveva precisato che "gli atti del nostro intelletto, per i quali possiamo giungere alla conoscenza delle cose senza alcun pericolo di inganno" sono due: l' intuito (cioè "un concetto della mente pura e attenta tanto ovvio e distinto che intorno a ciò che pensiamo non rimanga assolutamente alcun dubbio"; si noti che come esempio di intuizione di pone quella della nostra esistenza e del nostro pensiero) e la deduzione (ossia "tutto ciò che viene concluso necessariamente da certe altre cose conosciute con certezza",
Regulae, 24).
Ora il filosofo spiega che intuito e deduzione devono essere guidati da un metodo, che "spieghi rettamente in qual maniera si deve far uso dell'intuito della mente... e in qual maniera si devono trovare le deduzioni" (Regulae, 26)
Il metodo così, come nota Leslie Beck, "esprime l'essenza intima della mente", anzi "è la mente la lavoro, è il processo del pensiero secondo l'ordine che èconforme alla sua propria natura" Beck, pag 40): è per questo che esiste un solo metodo, ed è con epibile unificare tutte le scienze. La conseguenza di questa im postazione sar… che "il metodo di Descartes non subisce variazioni... in rapporto all'oggetto a cui si applica", proprio perché le scienze, nel loro complesso, "costituiscono insieme l'unità ella ragione umana" (Beck 39).
Se il metodo è così connaturato alla mente umana, se è per così dire, inscritto in essa, è sorprendente che non sia universalmente noto e applicato. E infatti Descartes si persuade facilmente " che esso già per l'addietro sia stato dai maggiori ingegni intuito in qualche modo, ossia per solo suggerimento della natura" (Regulaep. 26), ma che sia stato applicato solo alla geometria e all'algebra. Gli antichi geometri poi lo nascosero ai posteri, "per una sorta di perniciosa scaltrezza" Regulae p. 29), un po' perché‚ sarebbe sembrato troppo semplice, un po' per essere ammirati per la loro bravura nel risolvere complicati problemi. Lo stesso giudizio viene mantenuto nelle Risposte alle seconde obiezioni dove Descartes afferma: "Gli antichi geometri erano soliti servirsi solitamente di questa sintesi nei loro scritti, non perché‚ ignorassero interamente l'analisi ma, a mio credere, perché‚ ne facevano un sì gran conto da riservarla per sè soli, come un segreto importante" (Risposte, p 199)
A parziale discolpa di Descartes, comunque, va detto che anche Hintikka riconosce che "gli antichi matematici sono notevolmente reticenti" (Hintikka, 7) sulla natura del loro modo di lavorare.
Descartes ritiene che ai suoi tempi
tre scienze possano contribuire a fornire un modello del vero metodo: la logica, la geometria e l'algebra.Descartes aveva studiato logica a La Fleche secondo una
ratio studiorum che prevedeva per il primo anno di filosofia (dedicato appunto alla logica; il secondo e il terzo erano dedicati rispettivamente alla fisica e alla metafisica): il problema degli universali; i predicamenti (soprattutto analogia e relazione); il secondo libro del
De interpretatione gli Analitici primi in lettura integrale (tranne i primi otto o nove capitoli del primo libri, studiati in riassunto); nozioni sui topici e i sofismi; introduzione alla Fisica, sotto forma di questioni relative alla Scienza e alle sua divisioni) (Gilson, p 118).
La logica sillogistica può essere utile come organizzazione provvisoria dei propri pensieri, e mantiene una indubbia e insuperabile utilità nell'esposizione di ciò che si è scoperto.
Ma dal punto di vista della scoperta di nuove verità è completamente inutile, anzi pericolosa, perché‚ lo spirito umano "è capace per natura di eseguire correttamente le operazioni di deduzione senza aver bisogno di imparare a farle" (Gilson 184), e in secondo luogo perché‚ non esiste nesso tra la correttezza formale del ragionamento e la sua verità, così che facilmente si può essere ingannati.
In altre parole
la debolezza della logica scolastica era di pretendere di regolare la forma del ragionamento indipendentemente dal suo contenuto: nella logica cartesiana il contenuto dovrà generare da se stesso la forma, perché‚ quest'ultima non farà altro che "formulare il movimento compiuto dallo spirito nella sua analisi delle idee" (Gilson ivi) : non ci si concentrerà più sulla forma del ragionamento, ma sul contenuto delle idee e sui loro rapporti, che si tratterà di scoprire per prima cosa.
La seconda scienza cui Descartes fa riferimento è la
geometria, basata sull'analisi. L'analisi cui qui Descartes fa riferimento è il procedimento utilizzato da
Pappo, e noto a Descartes attraverso la traduzione latina di Commandino (1509-1575) del VII libro del Mathematicarum collectionum che riportiamo:
Resolutio igitur est via a quaesito tanquam concesso per ea, quae deinceps consequunturad aliquod concessum in compositione: in resolutione enim id quod quaeritur tanquam factum ponentes, quid ex hoc contingat, consideramus: et rursum illius antecedens, quousue ita progredientes incidamus in aliquod jam cognitum, vel quod sit e numero principiorum. Et hujusmodi processum resolutionem appellamus, veluti ex contrario factam solutionem.
La traduzione di questo passo è resa particolarmente difficile da una apparente contraddizione relativa alla direzione in cui si deve sviluppare l'analisi. Infatti essa sembra essere da un lato un movimento logico dal risultato che si cerca di giustificare alle sue conseguenze; e dall'altro sembra risalire alle sue condizioni. La traduzione allora suonerebbe così: "l'analisi è il procedimento che parte da ciò che viene ricercato considerandolo come ammesso risalendo, attraverso quanto ne consegue successivamente, a qualcosa che viene ammesso nella sintesi: nell'analisi infatti, ponendo come risolto ciò che viene richiesto, consideriamo ciò da cui questo deriva; e di nuovo (consideriamo) il suo antecedente, proseguendo in questo modo fin quando non ci imbattiamo in qualcosa di gi… noto o che È uno dei primi principi. E chiamiamo questo procedimento "analisi" (resolutio), come se fosse una "sintesi" solutioalla rovescia.
La soluzione proposta da Hintikka, attraverso il confronto con Aristotele, consiste in una modificazione del significato tradizionale di tò akolouthonil quale "nella descrizione che fa Pappo dell'analisi e della sintesi non indica una conseguenza logica, ma è un termine molto più vago che indica qualunque cosa 'corrisponda con' o meglio 'si accompagni' alla conclusione desiderata nelle premesse da cui può essere dedotta, forse nel senso che mette in grado di dedurre da queste la conclusione" (Hintikka, p 14). La traduzione diverrebbe la seguente:
"l'analisi è il procedimento che parte da ciò che viene ricercato considerandolo come ammesso risalendo, attraverso quanto lo accompagna a qualcosa che viene ammesso nella sintesi: nell'analisi infatti, ponendo come risolto ciò che viene richiesto, consideriamo ciò da cui questo deriva; e di nuovo (consideriamo) il suo antecedente, proseguendo in questo modo fin quando non ci imbattiamo in qualcosa di già noto o che è uno dei primi principi. E chiamiamo questo procedimento "analisi" resolutio) come se fosse una "sintesi" (solutio) alla rovescia.
Si noti, en passant come il gioco di parole tra resolutio e solutio, gioco intraducibile in italiano, sia a sua volta il tentativo di rendere un analogo (e molto più chiaro) gioco di parole in greco tra analysin e anapalin lysin (lett. "soluzione alla rovescia").
In ogni caso, al di là del dibattito tecnico sulla direzione in cui si muove il procedimento, appare abbastanza chiaro che la sua essenza consiste nel chiedersi cosa è necessario conoscere per ammettere la proposizione enunciata (nel caso si debba dimostrare un teorema) (Dijksterhuis 68). In altre parole si suppone il teorema come risolto, e poi si ricercano le condizioni alle quali è possibile accettare tale risoluzione.
Il difetto dell'analisi degli antichi, secondo Descartes, consisteva in un legame troppo stretto con la considerazione delle figure, che sovraccarica l'immaginazione. In effetti "l'indispensabilità delle costruzioni nell'analisi è un riflesso del fatto che in geometria elementare si deve spesso assumere una costruzione ausiliaria... prima che un teorema possa essere provato. Ne consegue che neanche una dimostrazione può essere trovata per mezzo dell'analisi senza queste costruzione ausiliarie" (Hintikka, pag 2).
In ogni caso resta vera la densa definizione di analisi fornita da Gemino: "l'analisi è la scoperta della dimostrazione" citato in Gilson pag 195), ed è questo l'aspetto che interessa di più Descartes, come si evince da un famoso passo delle Risposte alle seconde obiezioni:
"L'analisi mostra la vera via per mezzo della quale una cosa è stata metodicamente scoperta, e fa vedere come gli effetti dipendono dalle cause", mentre "la sintesi, al contrario, per una via affatto diversa, e come esaminando le cause per i loro effetti... dimostra, a dire il vero, chiaramente tutto quello che è contenuto nelle sue conclusioni... ma non dà, come l'altra, un'intera soddisfazione agli spiriti di quelli che desiderano imparare, perché‚ non insegna il metodo con la quale la cosa è stata trovata" (Risposte, pag 199).
Descartes valorizza particolarmente l'analisi in quanto essa è il vero procedimento inventivo, mentre la sintesi può essere utile semmai in chiave espositiva ("per alleviare l'attenzione dei lettori", Risposte, p 201) ed è soltanto dietro le insistenze dei filosofi e dei teologi contattati da padre Mersenne che Descartes accetta di esporre il suo pensiero more geometrico.
5.7 E' proprio per l'impossibilità di trovare nuove verità per via sintetica che Descartes suppone che gli antichi abbiano fatto le loro scoperte per via analitica, ma abbiano poi dissimulato il procedimento della loro scoperta sotto una presentazione sintetica.
L'ultima scienza che Descartes cita è l'algebra, che viene sorprendentemente descritta come "un'arte confusa e oscura che imbarazza la mente" (Discorso, pag 14). Per spiegare questa affermazione, è necessario ricordare che l'algebra, tra il XVI e il XVII secolo è solo "una delle innumerevoli regole pratiche dell'aritmetica del tempo; regole che si applicavano sovente come formula confermate dall'esperienza senza cercare di penetrarne il significato e il fondamento matematico. L'algebra, chiamata ancora "regola gebri" era soltanto la regula falsi dell'aritmetica... con la sola differenza che la quantità che si supponeva soddisfare al problema posto (ipotesi che si sapeva falsa) non interveniva sotto forma di numero determinato, ma come grandezza indeterminata. Questa grandezza veniva chiamata nel XVI secolo cosa, tanto o coss e rappresentata con un segno speciale detto cossico: Ora l'algebra insegnava a formare, sulla base dei dati dell'enunciato del problema, un'equazione che la cosa doveva soddisfare e a risolvere l'equazione così composta. Si trattava dunque... del procedimento... di formazione dell'equazione. ... Le potenze dell'incognita ... venivano designate nel XVI secolo ognuna con un nome particolare (il quadrato con census, il cubo con cubus, e poi si aveva census de census, sur de solidus, censicubus, ecc.) e rappresentate ciascuna con un segno particolare (gli altri segni cossici) la cui forma non faceva in alcun modo risaltare la potenza del coss in questione" (Dijksterhuis, pag 66-67). E' per questo che Descartes contestava all'algebra il suo sovraccarico di "molteplici numeri" e "inesplicabili figure", e si applicò personalmente alla necessaria semplificazione (per esempio introducendo la lettera x per indicare l'incognita; ma gli mancò la notazione in apice, per cui scriveva il quadrato di x come xx).
Il nuovo metodo
Se logica, geometria e algebra sono, tre le scienze presenti al tempo di Descartes, quelle capaci di offrire la massima certezza e la massima chiarezza, sono anche così al di sotto delle loro potenzialità da risultare quasi inutilizzabili. E' necessario perciò cercare "un altro metodo, il quale, riunendo i vantaggi di queste tre, fosse esente dai loro difetti" (Discorso, p. 14). In altre parole, anche considerando, come si fa nelle Regole, le varie forme di "matematica" (oltre alla geometria e alla aritmetica, l'astronomia, la musica e l'ottica, nel testo di Fisica dei Conimbricenses; in aggiunta a queste, anche la meccanica e "parecchie altre" nelle Regulae, pag 29), si tratta di vederne il comun denominatore, ossia ciò che le fa partecipare alla chiarezza e alla certezza della "matematica".
La risposta di Descartes è assolutamente centrale e decisiva per la questione metodologica:
"si riferiscono alla matematica soltanto tutte quelle cose nelle quali si esamina l'ordine o misura, e che non ha interessa se tale misura si debba ricercare nei numeri, o nelle figure, o negli astri, o nei suoni o in qualunque altro oggetto; e perciò ci deve essere una scienza generale, che spieghi tutto ciò che si può chiedere circa l'ordine e la misura non riferita ad alcuna speciale materia (Regulae, pag 29)
Questa scienza verrà chiamata
mathesis universalis, e in essa consisterà l'essenza del metodo. Esso è in effetti una metascienza, cioè è lo studio delle condizioni di possibilità delle scienze. Concretamente, è lo studio dell'ordine, come viene affermato esplicitamente nelle
Regulae: "
Tutto il metodo consiste nell'ordine" (Regula IV) di ciò che stiamo studiando, dal più semplice al più complesso. Questo è infatti ciò che, di fatto, accomuna le scienze che chiamiamo "matematiche": lo studio delle proporzioni e dei rapporti, cioè delle relazioni logiche.
La matematica "volgare" è soltanto la più semplice delle sue applicazioni e realizzazioni, e se ne parla tanto nelle opere di Descartes solo perché "esempi tanto certi e tanto evidenti non si possono prendere da nessun altra disciplina": in realtà "chiunque avrà attentamente considerato il mio intendimento, facilmente vedrà che qui
a niente ho pensato di meno che alla matematica comune, ma che espongo una cert'altra disciplina", la quale "deve contenere i primi rudimenti della ragione umana, e deve estendersi alle verità che si possono tirar fuori da qualsiasi soggetto" (Regulae, 27; sottolineatura mia). Perciò va intesa con cautela l'affermazione, riportata da tutti i manuali, che l'essenza del metodo cartesiano consiste nell'estensione del metodo matematico a tutta la realtà: la matematica è sì un modello, ma solo perchéé incarna più esattamente il funzionamento della mente umana, non perchéé sia l'unica forma di sapere valido.
In particolare il metodo deve estendersi anche a fisica e metafisica (Micheli, pag 217-218), permettendo di costruire uno schema come il seguente:
MATHESIS
matematica geometria |
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|
algebra |
|
|
fisica ottica astronomia |
musica |
meccanica |
|
|
(medicina) (biologia) |
Metafisica |
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|
Se la scienza, nel senso antico di episteme (sapere rigoroso e fondato) è scienza dell'ordine, possiamo comprendere meglio, finalmente, i precetti del
Discorso. Lasceremo volutamente da parte (per il momento almeno) il precetto dell'evidenza, e ci concentreremo sugli altri tre, che formano un complesso di norme operative inscindibile: "dividere le difficoltà significa obbligarsi a enumerarle per poterle riunire; semplificare le questioni, significa andare fino al principio da cui dipende la soluzione della difficoltà così divisa, ma significa per per ciò stesso obbligarsi a enumerare di seguito i passaggi intermedi per i quali si dovrà ripassare a partire da quel principio che si sarà scoperto" (Gilson, p 206).
Il punto centrale è, come dicevo sopra, la ricerca di un ordine: come si dice nella X Regula, il metodo non è altro che "ordinis... constans observatio", a tal punto che se questo ordine non è individuabile o non esiste, bisogna fingerlo. Sotto l'apparente banalità di questa indicazione si nasconde il carattere rivoluzionario della filosofia cartesiana, perché essa implica la sostituzione della classificazione concettuale all'interno delle categorie aristoteliche con "una disposizione fondata sulla loro dipendenza nell'ordine della deduzione" (Gilson, p 207).
Infatti cose e concetti si trovano ormai disposti secondo serie lineari, dove ciascun termine occupa il posto che gli spetta in relazione agli altri in base a questa sola norma: è assoluto (e cioè semplice) rispetto a tutto ciò che dipende logicamente da lui e che può venire da lui dedotto (e che viene perciò per così dire dopo di lui); è relativo (e cioè composto) rispetto a quei termini da cui dipende logicamente e che sono necessariamente richiesti per la sua deduzione. Soltanto le nature semplici, che stanno all'inizio di questa catena, non dipendono da nient'altro.
"In questo consiste il segreto di tutto il metodo, che cioè in tutte le cose si avverta con diligenza ciò che è massimamente assoluto" (Regula VI, pag 32) in maniera che si possa poi disporre con ordine tutto ciò che ad esso si riferisce.
Se è evidente quindi che per risolvere un certo problema dato è necessario saper distinguere tra il semplice e il composto, non è altrettanto chiaro come si può imparare a compiere questa distinzione. D'altra parte questa è l'identica difficoltà teoretica legata al momento propriamente inventivo dell'analisi: come si fa a vedere (intuire, cogliere, afferrare noeticamente) la premessa da cui si può dedurre la conclusione che vogliamo dimostrare? Platone, dinnanzi alla questione, si era arreso, e parlava di una "scintilla che scocca improvvisa"; Aristotele, con linguaggio meno poetico ma non molto più chiaro, parlava di "intelletto che vien da fuori". In effetti, anche Gilson ammette che "non esiste nessuna ricetta a priori per distinguere in un dato problema il semplice dal composto" (Gilson, p 207), mentre Descartes s'era già coperto le spalle scrivendo nella IV Regula:
"Il metodo (non) può venire esteso anche ad insegnare in qual modo si debbano fare queste operazioni medesime (scilicet l'intuito e la deduzione), perché esse sono le più semplici di tutte e primitive, sì che se il nostro intelletto non potesse già prima servirsi di esse, non comprenderebbe affatto i precetti dello stesso metodo" (Regulae, p 26)
Di conseguenza quello che si può dire si riduce a esortazioni di tipo psicologico: incominciare sempre dalle questioni più semplici; raccogliere, dapprima affidandosi al cosa, le verità evidenti che possono contenere; esercitarsi a dedurre da queste evidenze tutte le verità che se ne possono trarre; riflettere attentamente su come abbiamo potuto scoprire queste verità prima e meglio di altre. (vedi la Regula VI). In sostanza, il metodo, e in particolare il terzo precetto, indicano soprattutto una "abitudine intellettuale da acquisire" più che delle verità da conoscere. Gilson, p 208)
La mathesis non può sperare di diventare veramente universalis se non riesce a superare il dualismo tra gli oggetti delle due branche della matematica "volgare", l'aritmetica e la geometria, scienze rispettivamente del numero (ossia della quantità disscontinua) e della grandezza (ossia della quantità continua).