Il 9 agosto 2025 sulla pagina Instagram ufficiale della cantante Gaia è comparso un post molto diverso dagli altri: non le foto di una ragazza seminuda, o impegnata a cantare, o sullo sfondo di qualche località iconica,


ma la pagina di un diario accompagnata dall’immagine di un occhio pieno di lacrime. Il post si intitolava: La diabolica trinità. Eccolo:
La diabolica trinità

Oggi la diabolica trinità è venuta a farmi visita.
Senso di vuoto, ansia e solitudine sono arrivati per rimanere più del solito. Hanno preso spazio nel mio corpo come se fossero loro i proprietari di casa, si sono insediati con approccio apparentemente cortese e in poco tempo hanno dettato legge, imbavagliandomi l’anima e rendendomi ostaggio.
Spesso mi capita di entrare in loop mentali pari a certi gironi dell’inferno dantesco e uscirne diventa una sfida karmica difficile da tagliare, come ogni domanda a cui il larvatico che mi abita decidesse di rispondere, corrispondesse una risposta che mi avvicina sempre di più all’oblio.
Allontanarmi da uno stato di coscienza d’animo è semplice, basta alimentare questa intervista interiore che ha il solo obiettivo di dividere.
Dividermi da me stessa, dagli altri, dal caotico ma perfetto disegno dell’universo.
In questo momento siedo su una poltrona di un treno diretto, Roma-Milano. Una tratta familiare per me, per la mia primavera emozionale, i primi amori sbocciati nella città eterna, le prime responsabilità che mi richiamavano verso il freddo Nord e i primi sensi di vuoto non più colmabili da una carezza di papà o una tenera rassicurazione di mamma.
Il dejavu era inevitabile. L’inquietudine pure.
Ho viaggiato molto, sia internamente che nel mondo, alla ricerca di una risposta, una soluzione, un metodo che potesse placare questa incessante necessità di riempire.
Ho raggiunto le foreste dell’Acre Amazzonico, le infinite distese di spiagge vulcaniche islandesi, le umide risaie vietnamite e nonostante abbia aggiunto innumerevoli esperienze e lezioni al mio bagaglio di vita, non sono ancora arrivata ad una conclusione.
A tratti meditare, visualizzare, anche scrivere e buttare fuori tutto può aiutare, ma non elimina completamente la presenza dei “soliti” inquilini del mio cervello.
Scegliere di abbracciare la propria evoluzione personale spesso significa sacrificare dei piccoli piaceri momentanei o rush dopaminici che possono tranquillamente diventare degli inutili cerotti posti sopra una ferita profonda e ancora aperta. Questa ferita va fatta respirare, ossigenare. L’ansia di risolvere un problema è essa stessa il problema. Un cane che si morde la coda, un’apparente risoluzione che sotto forma di “cura” va ad infettare più in profondità.
Sono certa che dare il potere, della mia felicità, della riuscita dei miei obiettivi, dei miei sogni all’esterno sia uno dei motivi per cui questa inquietudine sia ormai resident.
La bimba che è in me vorrebbe solo essere vista, amata, accettata, cercata. Senza dover per forza fare “la brava”, servire a qualcosa o qualcuno, non dando mai e poi mai fastidio.
Lei vorrebbe non dover cercare validazioni da sconosciuti solo per ricordarsi che è speciale così com’è. Senza bisogno di fare, ma semplicemente di essere.
Non interagiamo quasi più tra di noi, a meno che non ci sia una sicurezza nello scambio tra le parti.
Sappiamo cosa ognuno abbia da offrire ancora prima di averci a che fare.
Agiamo spinti da intenzioni egoiche travestite da azioni eroiche e ci richiudiamo in noi stessi ogni volta che qualcuno riconferma la teoria dell’inevitabile solitudine e dell’opportunismo “eticizzato”.
