Vorrei condividere qui un’idea che mi sta girando nel cervello da un po’ di tempo e di cui vorrei liberarmi. L’adolescenza dovrebbe essere il periodo di passaggio tra l’infanzia e l’essere adulti: in condizioni “normali” (ossia: per la grandissima parte della storia della nostra specie) si è trattato di un periodo relativamente breve, dal momento in cui il ragazzo e la ragazza cominciano a staccarsi pricologicamente dalla protezione dei genitori (spesso solo della mamma) a quando entrano a pieno titolo nel mondo degli adulti, come soldato, come membro di una assemblea o come madre.
Questo passaggio era accelerato dal fatto che le competenze tecniche necessarie per accedere al mondo produttivo erano relativamente basse: forse solo l’apprendistato militare dei corpi d’elite (per esempio i cavalieri feudali del medioevo) richiedevano un certo numero di anni. Altrimenti il lavoro dei campi, nelle sue forme più semplici (chessò, raccogliere le spighe cadute per terra piuttosto che portare a pascolare le pecore), poteva essere svolto da tutti senza un particolare processo di formazione.
Solo le elite (circa l’1% della popolazione, dato rimasto stabile in tutta la storia nota) potevano forse prevedere una “educazione” per trasmettere alle nuove generazioni le competenze necessarie alla gestione del potere.
Ma poi la rivoluzione industriale ha imposto percorsi formativi più lunghi; la crescita del benessere economico ha permesso alle famiglie di mantenere i figli agli studi; la diffusione dei sistemi scolastici centralizzati e statalizzati, anche nelle sue forme universitarie, ha permesso e insieme imposto un ingresso nel mondo del lavoro ad età più avanzate. Quello che era un periodo di passaggio relativamente breve ha cominiciato ad allungarsi, diciamo fino ai 25 anni di età (magari non per tutti, ma almeno per segmenti della popolazione sempre più ampi).
Poi la cosa è sfuggita di mano, almeno qui in Italia. Tutta una serie di fenomeni sociali e di meccanismi economici si sono attivati in una sorta di retroazione combinata, approssimativamente verso la fine del secolo scorso. L’età media si è alzata, la natalità si è abbassata, chi aveva un posto a tempo indeterminato ha goduto di forti protezioni di cui spesso ha abusato, i percorsi universitari non sfociavano più in attività ben retribuite, le PMI sono restate saldamente in mano alle famiglie dei fondatori, che essere spesso delle persone senza formazione universitaria non erano capaci di valorizzarla (il cosiddetto problema del management), la famiglia italiana-mediterranea si è sostituita allo Stato nella funzione di ammortizzatore sociale, continuando a ospitare senza particolari sforzi – almeno all’inizio – i giovani che non riuscivano a trovare lavoro, la diffusione degli anticoncezionali ha permesso di avere una vita sessuale slegata dalla riproduzione e quindi dalla necessità di costruire una famiglia autonoma (per la quale non sarebbe peraltro stato disponibile uno stipendio autonomo, vista la difficoltà di trovare un lavoro).
E così l’adolescenza si è allungata in modo quasi indefinito, visto che sono via via caduti tutti i surrogati dei riti di passaggio che una volta sancivano in modo pubblico il passaggio dalla adolescenza alla vita adulta.
Una adolescenza così lunga, prolungata per dieci o quindici anni, ha permesso la formazione di una sorta di “cultura” alternativa a quella degli adulti, fatta di comportamenti, stili di vita, sensibilità estetiche anche ricche e articolate. Questa cultura tra i pari adolescenti però da un lato consuma una enorme quantità di energia psichica (perché va ricostruita continuamente a ogni generazione, ciascuna delle quali sente il bisogno di distinguersi non solo dagli adulti – come è sempre stato per ogni adolescenza – ma anche dagli adolescenti più grandi, che una volta semplicemente non esistevano perché passavano nella forma adulta della vita), dall’altro è una sorta di binario morto perché comunque le è preclusa in linea di principio la stabilità e la permanenza, oltre che l’accesso al potere economico e politico. E’ un po’ come se i giovani, in attesa di entrare nelle case e nei palazzi del mondo adulto, si fossero sistemati in campeggio: ma col passare del tempo, dato che non si riusciva ad avere accesso alle case vere, il campeggio si è trasformata in una tendopoli, con una sua inevitabile organizzazione – dato che aveva superato le dimensioni ludiche iniziali – ma senza perdere la consapevolezza della propria transitorietà. Chi vive per anni in una tenda deve per forza di cosa organizzarsi, e magari riesce a organizzarsi anche in modo da vivere bene o benino: ma non può mai dimenticare di essere ancora in una tenda. Il senso del provvisorio blocca tutto, fino ad arrivare alla contraddizione di pensarsi come definitivo. Non è possibile vivere bene in questa condizione, e la diffusione dei malesseri o delle vere e proprie malattie psichiche tra gli adolescenti è li a dimostrarlo.
Se sul piano politico ed economico la resistenza degli adulti è tenace, negando l’accesso ai veri posti di lavoro e di comando ai giovani (che infatti scappano dall’Italia), sul piano culturale forse si potrebbe fare qualcosa.
Lo studio al liceo spesso viene percepito come inutile per la scollatura tra la cultura “adulta” che nei secoli ha prodotto tutto quello che viene distillato nei curricula scolastici e la cultura “adolescenziale” che i giovani hanno secreto per crearsi una propria identità e in questa esistere. Ma qui forse non dovrebbe essere impossibile far toccare con mano ai ragazze e alle ragazze che conviene investire sulla cultura “adulta” in quanto oggettivamente più stabile nel tempo e in quanto comunque inevitabile punto di arrivo (anche se la tabella di marcia non c’è più). In altre parole: Lazza tra dieci anni non si ricorderà più nessuno chi è (nemmeno quelli che adesso lo ascoltano rapiti), mentre Mozart continuerà a essere ascoltato. E lo stesso per tutto il resto, dalle serie tv ai tiktoker. Non vale la pena dirottare le energie su qualcosa di stabile, rinnovandone semmai l’interpretazione dall’interno, piuttosto che disperdersi in una miriade di rivoli che sono destinati necessariamente a estinguersi per evaporazione, senza lasciare alcun segno? Parlare a colpi di “fra’” e di “bro” avrà pure un senso per distinguersi dagli adulti, ma dovrebbe essere chiaro a tutti che non si può andare avanti per sempre a colpi di epiteti – appunto – adolescenziali.
Ovviamente i marxisti ortodossi, posto che ne siano ancora in giro, mi diranno che PRIMA bisogna cambiare i rapporti sociali – ossia introdurre i giovani nelle stanze del potere – e POI il salto culturale avverrà automaticamente. Io ammetto che non c’è, probabilmente, la possibilità di invertire il nesso causa-effetto (ossia: non basta che i giovani studino le cose da “adulti”, che ne so, i manuali di economia, perché vengano ammessi ai piani alti dove si prendono decisioni e si spartisce il lavoro), ma sostengo che portandosi sul piano della cultura “adulta” si guadagna almeno un certo livello di stabilità: che mi sembra cosa di non poco conto, nel mondo di oggi.
sem