L’adolescenza come problema

Ho visto recentemente la serie televisiva Adolescence. Personalmente, da un punto di vista strettamente artistico, non mi è piaciuta affatto: la scelta stilistica di realizzare ciascuna delle quattro puntate come un singolo piano-sequenza è molto cervellotica e rallenta in modo pesnate il ritmo narrativo, oltre a impedire una narrazione completa dei fatti.

In ogni caso è un buon punto di partenza per un riflessione sulla condizione esistenza della adolescenza oggi, un periodo della vita particolarmente difficile oggi.

Dal punto di vista biologico, l’adolescenza dovrebbe essere un periodo di passaggio tra l’infanzia e l’età adulta. Per un numero sterminato di generazioni, che hanno plasmato selettivamente il nostro corpo e la nostra psiche, era un periodo abbastanza breve. Non appena il corpo, arrivato alla pubertà, conmincia a produrre gli ormoni sessuali il giovane o la giovane vengono considerati adulti ed entrano nella società dei “grandi” da cui fino a quel momento erano esclusi.

Per le femmine, il momento è chiaramente stabilito dal menarca, dopo il quale le ragazze sono considerate pronte per il matrimonio. Per i maschi, non esiste un momento così evidente (le polluzioni notturne sono troppo irregolari, la apparizione di organi sessuali secondari come la barba troppo incerta) e quindi tutte le società arcaiche avevano un rito di passaggio chiaramente definito che permetteva di dichiarare pubblicamente, agli occhi della società ma anche del singolo ragazzo, che il “bambino” era sparito e che al suo posto c’era un “uomo” (per quanto giovane).

Qui possiamo già indicare un problema importante: nelle attuali società occidentali capitalistiche non esiste più un “rito di passaggio” chiaramente identificabile e socialmente riconosciuto, che permetta a tutti (soggetto compreso) di distinguere un adolescente da un adulto. Negli ultimi secoli questo momento decisivo si è trasformato: dal dover passare una notte da solo nel bosco senza armi e senza luce nelle società cosiddette “primitive”, al rito della consegna della toga praetoria nell’antica Roma, fino al servizio militare obbligatorio degli stati ottocenteschi. In momenti ancora più recenti altre esperienze hanno assunto un valore (sempre più debole) di rito di passaggio, come per esempio la patente automobilistica.

In ogni caso, in un torno di tempo relativamente breve un adolescente aveva il suo primo rapporto sessuale, entrava nel mondo del lavoro, usciva di casa e metteva su famiglia: in una parola, diventava “grande” (cioè adulto).

Oggi questi quattro momenti sono disarticolati: la diffusione dei sistemi di contraccezione ha separato l’esperienza del sesso da quella della maternità/paternità; il capitalismo avanzato spinge una parte consistente degli adolescenti verso una formazione universitaria terziaria di lunga durata, allontanando di molti anni il momento di ingresso nel mondo del lavoro e quindi della autonomia della famiglia (fatta eccezione per quelle società che prevedono un sostegno economico pubblico per i giovani adulti che vanno a vivere da soli); il matrimonio (religioso o civile non importa) inteso come momento di formalizzazione pubblica (e quindi di un impegno anche sociale oltre che economico) di una relazione affettiva privata è stato sostituito sempre più spesso dalla semplice convivenza more uxorio (ma non mancano i casi di relazioni stabili senza la convivenza sotto lo stesso tetto).

Soprattutto, questi momenti di passaggio (prima esperienza sessuale, ingresso nel mondo del lavoro, indipendenza abitativa, maternità/paternità) non sono più collegati tra loro e non avvengono più o meno simultaneamente. Questo ha prolungato moltissimo la adolescenza rendendone i confini vaghi e nebulosi, con la conseguente inevitabile sfocatura della identità di chi ci si trova dentro.

Il non sapere chi si è, a cascata, si traduce in ogni forma possibile di disagio psicologico. Poiché però una vita umana non è possibile senza un orizzonte di senso che funga da riferimento, la reazione del gruppo adolescenziale al fatto di essere tenuti fuori dal mondo “adulto” è quella di produrre una “cultura” giovanile propria. Si tratta di una costellazione di riti e di simboli che vanno ricreati a ogni generazione con enorme dispiego di energie psichiche e simboliche, che non possono in linea di principio essere condivisi con gli adulti (che vivono una identità diversa rispetto a quella degli adeloscenti).

Nel passato, l’adolescenza durava troppo poco perché tale cultura potesse consolidarsi o anche soltanto nascere: come abbiamo detto, si passava nel giro di poco tempo da una identità basata sul rapporto con i genitori a quella basata sul rapporto tra pari adulti. Il prolungarsi dello stato intermedio permette invece il proliferare di culture tra pari adolescenti.Il problema è che queste culture non hanno un futuro, non possono in linea di principio accompagnare il giovane quando questo passa di livello diventando, sia pure non in un colpo solo ma in modo abbiamo detto disarticolato, adulto. Si tratta quindi di una sforzo e di una fatica psichica inutile, da un certo punto di vista. Si tratta di “vuoti a perdere”, come dice una famosa canzone di Noemi, un involucro necessaria ma che probabilmente viene percepito inconsciamente dagli stessi protagonisti come privo di un vero sbocco sulla realtà. E con questo il cerchio si chiude.

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L’età cui appare il menarca è progressivamente scesa nel tempo: agli inizi del Novecento si verificava tra i 16 e 17 anni, nei primi anni del XIX secolo appare attorno ai 12 anni.

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