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Le radici del Sessantotto in Italia


Ciò che noi chiamiamo il "Sessantotto" fu un fenomeno complesso, il luogo, nel mare della Storia, in cui si intersecarono molte onde lunghe provenienti da varie direzioni. Un evento polimorfo, quindi, che non si lascia appiattire in una rilettura ideologica o ridurre a una rievocazione più o meno nostalgica. La distanza cronologica che ci separa da quegli anni, e soprattutto il grande evento epocale rappresentato dalla caduta del muro di Berlino (1989), con tutto il carico di conseguenze che questo fatto ha portato con sé, dovrebbe consentire oggi uno sguardo più equilibrato di quello che si poteva avere allora e negli anni immediatamente posteriori. La memoria diretta di chi visse quel periodo, infatti, non necessariamente ne è il miglior testimone: spesso chi ne parla oggi lo fa in toni entusiasti oppure disincantati e scettici a seconda del percorso esistenziale che ha seguito negli anni successivi. Invece si tratta di capire il Sessantotto, individuando e seguendo i molti fili di cui è tessuta la sua trama: le trasformazioni economiche di un paese che entrava definitivamente nell'orbita dell'occidente industrializzato, la crisi culturale che ne seguì, la rivolta esistenziale di una parte della giovane borghesia (la prima generazione che non aveva conosciuto la guerra), il contrasto generazione con i padri e le madri che avevano ricostruito l'Italia, gli esempi di ribellione non violenta provenienti dagli Stati Uniti, la passione per nuove forme musicali (come i Beatles, la musica country o le sonorità africane), la corrente terzomondista, l'orrore della guerra nel Vietnam, la protesta contro il golpe dei colonnelli in Grecia (1967) e poi in Cile (1976), l'esempio di Che Guevara, la primavera di Praga, l'incendio del Quartiere Latino nel tanto mitizzato Maggio francese. La coincidenza di tutti questi fattori ha contribuito a creare ciò che noi chiamiamo "il Sessantotto".

L'Italia entra nella modernità

Il fatto è che negli anni Sessanta l'Italia entrò, con un brusco scossone, nella condizione di paese avanzato e moderno. Tutto ne fu sconvolto, plasmato, modificato: la scuola e la famiglia, il lavoro e il divertimento, la religione e la politica. La cultura e la società italiane registravano allora la presenza di due "chiese", quella cattolica e quella comunista: due organizzazioni che da un punto di vista sociologico erano insieme fortemente centralizzate e capillarmente diffuse, capaci di controllare ampi strati della popolazione e di mobilitarli in difesa dei rispettivi dogmi. L'ingresso dell'Italia nella modernità scosse profondamente entrambe queste "chiese", ma fu indubbiamente quella cattolica a subire i danni maggiori. La Chiesa cattolica aveva appena realizzato con il Concilio ecumenico Vaticano II un grande sforzo per comprendere meglio il proprio ruolo nella società della seconda metà del Novecento. Per alcuni questo sforzo arrivò troppo tardi, per altri, come lo scrittore cattolico Messori, fu prematuro o addirittura inopportuno. Quello che è certo è che i cristiani negli anni immediatamente successivi al Concilio dovettero affrontare una profonda crisi, sia individuale sia collettiva, e molti si allontanarono dalla Chiesa o pensarono di trovare altre forme per la loro fede. Questi "cristiani in libera uscita" confluirono poi in massa nell'esperienza del Sessantotto, contribuendo a rafforzarne inizialmente alcuni aspetti chiave (come la solidarietà o l'ugualitarismo, ma anche una sorta di "attesa messianica" della società nuova "qui e ora"). Questa "crisi religiosa" può forse spiegare perché la rivolta vera e propria iniziò in università dichiaratamente cattoliche, come il Sacro Cuore di Milano e la facoltà di Sociologia a Trento. Anche i comunisti ebbero i loro problemi (la polemica contro il Pci fu un filo conduttore di tutto il Sessantotto), ma il loro contributo al Sessantotto fu molto meno incisivo: secondo un'inchiesta apparsa su "Rassegna italiana di sociologia" all'inizio del 1971, il 44% dei gruppi extraistituzionali attingono i propri seguaci esclusivamente dal mondo cattolico, il 20% da quello marxista e il 15% da entrambi.


La dinamica dell'economia

Una delle dinamiche di lunga durata più importanti per spiegare l'inizio del processo è quella economica. Alla metà degli anni Cinquanta l'Italia era ancora per molti versi un paese sottosviluppato. L'economia era ancora basata prevalentemente sull'agricoltura (nel censimento del 1951 ben il 42,2 % degli italiani che lavoravano rientravano nella categoria "agricoltura, caccia e pesca"). L'industria era concentrata quasi esclusivamente nelle regioni nordoccidentali e il suo peso sull'economia nazionale era relativo; ancora minore, in termini di occupazione e di produzione di reddito, era il ruolo del settore terziario. Complessivamente l'economia italiana assomigliava, da molti punti di vista, a quella della Spagna franchista: verso la metà del decennio, tuttavia, una serie di fattori intervenne a trasformare profondamente questo quadro, e i destini dei due paesi mediterranei si separarono. Gli economisti e gli storici non sono d'accordo sull'ordine di importanza dei fattori che entrarono in gioco: un elemento decisivo fu la scelta europeista fatta dai governi a guida democristiana di quegli anni.
L'adesione al Mercato Comune Europeo era vista con apprensione da molti industriali, abituati a una situazione di protezionismo, ma in realtà questo confronto rivitalizzò il sistema produttivo italiano, obbligandolo a rinnovarsi e premiando i settori più rapidi a sfruttare le nuove opportunità. Naturalmente questo elemento da solo non sarebbe bastato: al boom contribuirono molti altri fattori, tra cui la disponibilità di metano e idrocarburi (scoperti dall'ENI in Val Padana), la importazione massiccia di petrolio a basso costo, voluta da Mattei (presidente dello stesso ENI), la nascita di una siderurgia moderna grazie all'intervento parastatale dell'IRI a Cornigliano, Piombino e Bagnoli, il rapido sviluppo di una rete autostradale efficiente e ramificata, la stabilità della lira, il fatto che la Banca d'Italia non alzò il tasso di sconto (cioè il costo del denaro) e infine i bassi livelli del costo del lavoro (fatti 100 i valori del 1953, nel 1960 la produzione industriale era 189, la produttività operaia 162 e i salari operai 99,4).
Il "miracolo economico" italiano conobbe due fasi abbastanza distinte: la prima, che potremmo dire di "preparazione", va dal 1951 al 1958, la seconda, quella del vero e proprio boom, comprende gli anni dal 1958 al 1963. Se il primo periodo vede una crescita del prodotto interno lordo del 5,5 % medio annuo, dovuto soprattutto alla crescita delle domanda interna nei settori dell'edilizia, dei lavori pubblici e dell'agricoltura, nei cinque anni successivi si raggiunse un valore record del 6,3 % annuo di crescita economica, dovuto una crescita vertiginosa (14,5 % annuo) delle esportazioni, dirette per lo più verso paesi europei.
Si verificò inoltre un importantissimo cambiamento qualitativo: non erano più i prodotti agricoli a prendere la via dell'Europa, ma i beni di consumo corrispondenti a paesi più avanzati e con un reddito procapite migliore: frigoriferi, lavatrici, automobili, televisori, macchine per scrivere, prodotti in plastica. Anche le aree industrializzate cominciavano ad estendersi: lo storico "triangolo industriale " (Milano, Torino, Genova) si ampliò verso sudest verso Bologna, e verso est, fino a Venezia-Marghera. Il censimento del 1961 dimostrò che gli addetti nell'industria avevano raggiunto il 38 % del totale della popolazione attiva, contro il 30 % rappresentato dagli agricoltori.
Uno degli aspetti più importanti di questo sviluppo fu il suo carattere spontaneo. Esistevano naturalmente dei progetti governativi di sviluppo economico, ma il boom, quando venne, seguì una logica tutta sua e il suo dinamismo fu così prorompente che non si riuscì o non si volle controllarlo e incanalarlo. Il risultato di questa deregulation fu triplice: in primo luogo, la crescita orientata verso l'esportazione esaltò la crescita dei beni di consumo privati, senza un corrispettivo sviluppo dei beni pubblici (come scuole, ospedali, case popolari, trasporti). Il secondo squilibrio che si amplificò tra il 1958 e il 1963 fu quello tra la parte più dinamica dell'economia e quella più arretrata, che rimase progressivamente sempre più in ritardo assorbendo finanze e manodopera. Infine, il boom economico riguardò quasi esclusivamente le regioni nordoccidentali del paese, soprattutto le città, e poche eccezioni localizzate nel Lazio e nel Veneto.


L'emigrazione interna

Quest'ultimo squilibrio era così evidente che ben presto un numero sempre crescente di meridionali cominciarono a trasferirsi nelle grandi città del nord, attratti dalla speranza di un lavoro in fabbrica. Il fenomeno ebbe vastissime proporzioni: si calcola che tra il 1951 e il 1971 si spostarono circa 9.140.000 italiani, un po' meno di un quinto della popolazione totale. L'emigrazione più massiccia si ebbe tra il 1955 e il 1963, seguita da un momentaneo arresto negli anni successivi e da una forte ripresa tra il 1967 e il 1971. La maggior parte degli immigrati, tuttavia, arrivava dalla campagna: il 70 % di quanti si trasferirono a Milano, per esempio, provenivano dalla Lombardia o al massimo dal Veneto. Nei cinque anni del boom, tuttavia, circa 900.000 meridionali si trasferirono al nord, concentrandosi nei capoluoghi di Lombardia e Piemonte. I contadini compivano il grande passo del trasferimento in città spinti dal desiderio di un salario più elevato e di un orario di lavoro regolare, che permettesse loro di accedere al mondo conosciuto attraverso la televisione troneggiante nel bar del paesino d'origine. Gli emigranti meridionali spesso cominciavano a lavorare nelle imprese edili per poi passare alla fabbrica. Qui le condizioni erano dure: l'orario di lavoro, compresi gli straordinari, durava raramente meno di 10-12 ore, i contratti sempre brevi (tra i 3 e i 6 mesi), la mobilità molto elevata, le misure di sicurezza sul lavoro praticamente inesistenti e così pure la previdenza e l'assistenza sanitaria. Quando riuscivano a mettere da parte risorse sufficienti, gli immigrati facevano venire in città le proprie mogli o fidanzate: divenne allora acutissimo il problema degli alloggi, per il quale le grandi città del nord non erano assolutamente preparate. Furono soprattutto le aziende edili private a intervenire, costruendo i grandi quartieri-dormitorio che caratterizzano ancora oggi gli hinterland delle grandi città del nord, ma ci vollero diversi anni prima che si potesse intravedere un calo della "tensione abitativa". In questo modo anche il problema della casa per tutti era ancora vivo nel 1968 e negli anni successivi, e contribuì potentemente ad acuire la tensione sociale e politica.


Le trasformazioni della politica

Parallelamente a queste trasformazioni economiche e sociali si sviluppò un decisivo passaggio politico: dai governi di centro destra si passò gradualmente alle formazioni di centro sinistra, basate cioè sull'alleanza della Democrazia Cristiana con il Partito Socialista Italiano. In teoria questi nuovi governi si proponevano di realizzare le riforme necessarie a guidare le trasformazioni in atto. Nei fatti, prevalse la linea "minimalista", sostenuta da ampi settori della Democrazia Cristiana: i governi di centrosinistra avrebbero dovuto sì sviluppare riforme correttive, ma senza minare la centralità della Democrazia Cristiana a favore del PSI, anzi indebolendo quest'ultimo. Il primo governo di centro sinistra, guidato da Fanfani, venne varato nel marzo 1962 e portò a termine due importanti riforme: la nazionalizzazione della produzione di energia elettrica e la introduzione della scuola media unica obbligatoria fino a 14 anni d'età. Ma subito dopo la spinta riformatrice si bloccò. In effetti la situazione economica si era deteriorata con una serie di duri scioperi per i rinnovi contrattuali dei metalmeccanici (182 milioni di giornate di lavoro perse, il valore in assoluto più alto prima della crisi del '69-'70): nel luglio del 1962 Torino era stata teatro di aspri scontri tra la polizia e i manifestanti ("battaglia di Piazza Statuto", 7-9 luglio). Si impose un clima di incertezza e di sfiducia: gli investimenti ebbero una brusca contrazione, i capitali cominciarono a essere portati all'estero, la borsa conobbe un tracollo e l'inflazione, per la prima volta nel dopoguerra, cominciò a crescere sensibilmente. La Democrazia Cristiana non seppe far altro che bloccare il processo riformistico: con i tre governi Moro, che guidarono l'Italia dal '63 al '68, tutte le riforme strutturali (introduzione delle Regioni, riforma urbanistica, riforma agraria, riforma della scuola, del fisco e delle pensioni) vennero accantonate. In questi cinque anni le pressioni e le tensioni esistenti nella società reale crebbero continuamente senza che si facesse il minimo tentativo di risolverle o almeno di pilotarle verso un esito meno drammatico di quello che avrebbero poi avuto.


Le tensioni nella scuola


Particolarmente grave fu l'inerzia nel settore della scuola. In effetti la scuola italiana era ancora strutturata come l'aveva voluta il filosofo Giovanni Gentile, ministro della pubblica istruzione nel 1923: un'educazione umanistica per i ragazzi appartenenti alla classe borghese, destinati all'università, e una formazione di tipo tecnico e priva di sbocchi ulteriori per i ragazzi provenienti dalle classi sociali inferiori. La pressione delle sinistre era solo riuscita a spostare più in là il momento in cui queste due strade, quella umanistica e quella tecnica, si separavano: infatti, prima dell'introduzione della scuola media unica obbligatoria fino ai 14 anni, gli studenti (ovvero le famiglie) dovevano compiere questa scelta decisiva per il loro futuro già al termine delle scuole elementari. Nel dopoguerra le discussioni sulla riforma della scuola si erano incagliate sul delicato problema della scuola privata: la Democrazia Cristiana infatti considerava prioritario il tema della "libertà della scuola" (espressione ambigua che indicava la possibilità per i cattolici di organizzare e gestire proprie scuole), che per ragioni opposte e simmetriche diventò centrale anche per le sinistre. Così, nonostante qualche indagine informativa (come quella del ministro Gui), non si tentò minimamente di adeguare la scuola alle mutate condizioni economiche e culturali. Così negli anni che precedettero il Sessantotto gli unici episodi significativi sono il cosiddetto "caso Zanzara" e l'esperimento di don Milani nella scuola di Barbiana, nel Mugello fiorentino.
"La Zanzara" era il giornalino dell'associazione studentesca del liceo Parini, una delle grandi scuole di Milano. Nel febbraio del 1966 il giornale dell'associazione studentesca del liceo pubblicava un articolo dal titolo "Che cosa pensano le ragazze". Si trattava di un indagine che, partendo dall'assunto che "a un graduale evolversi della società abbia fatto seguito un analogo processo evolutivo anche nel campo dell'emancipazione femminile", si proponeva di discutere con "ragazze di diversa età e di differente formazione" dei problemi ritenuti più scottanti: l'educazione, la sessualità, la religione e la morale, il matrimonio e il lavoro. Nonostante le sue ingenuità metodologiche rappresenta un documento di grande importanza per testimoniare il grado di consapevolezza dei giovani (almeno della borghesia milanese) a meno di due anni dal Sessantotto. I curatori dell'indagine notavano che "il punto su cui praticamente tutte si sono trovate d'accordo è stato quello di ribadire un'educazione tendente a dare coscienza delle proprie responsabilità". La libertà concessa dai genitori "nella maggior parte dei casi è stata giudicata soddisfacente": il tema della libertà però conduce direttamente a quello della sessualità, dato che "l'autoritarismo dei genitori si risolve specialmente in un autoritarismo sulle questioni sessuali" La posizione di alcune ragazze su questo tema è molto esplicita: "L'educazione sessuale nella scuola, e non solo dal punto di vista medico, è assolutamente necessaria per una modifica della mentalità verso moltissimi problemi quali le ragazze madri, i figli illegittimi, ecc... Vogliamo che ognuno si a libero di fare ciò che vuole, a patto che ciò non leda la libertà altrui. Per cui, assoluta libertà sessuale e modifica totale della mentalità". Ma la frase che forse colpì di più i lettori perbenisti fu l'affermazione di un'altra ragazza: "Se mi offrissero una vita solo dedita al matrimonio, alla casa e ai figli, piuttosto che vivere così mi ammazzerei". Il Sessantotto, appunto, era alle porte.

 

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