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Il Sessantotto nelle università





Il Sessantotto in Italia si apre ufficialmente il 14 novembre del 1967. Quel giorno, per un aumento improvviso delle tasse universitarie, gli studenti dell'Università Cattolica di Milano iniziano una agitazione spontanea che prosegue per tre giorni.

Uno studente dell'Augustinianum, il collegio che ospita gli studenti fuori sede della Cattolica, con indosso un impermeabile nero che lo fa assomigliare vagamente a un sacerdote, in piedi davanti all'ingresso informa con il megafono di quanto sta accadendo gli studenti che entrano. Il suo nome, Mario Capanna, diventerà famoso nei mesi avvenire. Il 17 viene tenuta una grande assemblea nell'aula principale dell'università, l'aula Gemelli. È sicuramente la prima volta che questo vasto e severo ambiente rettangolare, con i banchi disposti a scalare, ricavato al primo piano degli edifici universitari, assiste a un incontro così acceso e intenso tra gli studenti da una parte e il rettore e le autorità accademiche dall'altra. Il migliaio circa di ragazzi che vi partecipa decide dopo ore di assemblea di occupare a tempo indeterminato l'università. Le richieste che vengono presentate sono abbastanza semplici: si chiede che gli aumenti delle tasse siano ritirati, i bilanci dell'università resi pubblici e infine che l'assemblea degli studenti sia riconosciuta come unico referente da parte delle autorità accademiche. Lo scontro col mondo accademico è frontale: alle tre di notte il rettore, professor Ezio Franceschini, chiama la polizia e fa sgomberare con la forza l'aula.


Con questo episodio, tanto più clamoroso in quanto risultava coinvolto un ateneo di grande prestigio e di ispirazione cattolica, l'opinione pubblica italiana veniva messa bruscamente di fronte al disagio di un'intera generazione di studenti.



L'accumularsi delle energie

In realtà l'episodio della Cattolica di Milano è solo il punto di arrivo di una escalation della tensione nel mondo universitario, che inizia a manifestarsi già nella prima metà degli anni '60 e che riguarda nodi strutturali quali l'effettiva corrispondenza tra le materie di studio e le richieste del mondo del lavoro, l'effettiva possibilità di assorbimento da parte delle aziende dei nuovi laureati, oppure la delicata questione degli studenti-lavoratori.


Gli studenti vivono, in tutte le università, una situazione di forte disagio, che non viene né recepita né canalizzata dalle strutture rappresentative esistenti all'epoca
Senza questo lento accumularsi di energie, durato almeno un mezzo decennio e comune a tutti i centri universitari italiani, non si spiegherebbe la rapidità con la quale divampa la rivolta, a cavallo tra il '67 e il '68. La possibilità che i fatti della Cattolica rimangano isolati svanisce immediatamente. Nel giro di poco più di venti giorni vengono occupate le sedi universitarie di Torino, Genova, Pavia, Cagliari, Sassari e Napoli, e a gennaio, alla ripresa delle lezioni dopo la pausa natalizia, anche gli atenei di Pisa, Roma, Trento, Padova, Messina, Perugia, Palermo, Trieste, Catania, Bologna, nonché la Statale di Milano, conoscono le loro occupazioni. Praticamente non c'è università in tutta Italia in cui gli studenti non si riuniscano in assemblea e non protestino contro il sistema universitario.


I centri più importanti di quello che rapidamente comincia a indicare se stesso come "movimento studentesco" sono Torino, Milano e Roma. È in queste sedi che vengono sviluppate le tesi più importanti e significative, è qui che si cercano con maggiore decisione strade alternative rispetto alla cultura e alla politica tradizionali. Le differenze tra queste città è piuttosto sensibile: a Torino viene messo maggiormente l'accento sulle dimensioni esistenziali e "vitalistiche", mentre a Milano e a Roma (qui l'occupazione inizia più tardi che nelle altre città) si punta più decisamente verso la politicizzazione del movimento.





Contro l'autoritarismo

All'inizio il seme della rivolta germina dappertutto dalla reazione all'autoritarismo presente nelle università, concordemente descritta dalle testimonianze come feudi di potenti e intoccabili "baroni" che da un lato impongono contenuti e argomenti percepiti come astratti e dall'altro si permettono spesso prepotenze e ingiustizie nei confronti degli studenti. Da qui la polemica si allarga a quella diretta contro la società e contro la famiglia, assumendo così la sua connotazione tipica di critica globale al "sistema".

Per i primi mesi prevale nettamente l'aspetto "vitalistico" di ribellione quasi istintiva; poi, gradualmente, il movimento si politicizza pur senza farsi assorbire dai partiti tradizionali. Decisivo è il momento in cui il movimento sceglie di cercare un collegamento con le forze operaie, come vedremo più avanti.
La forma iniziale della protesta è quella della occupazione delle sedi universitarie. È l'aspetto che colpisce e preoccupa maggiormente l'opinione pubblica adulta, nonché i docenti e le autorità accademiche, che lottano con ostinazione per contendere agli studenti il controllo delle università. Luisa Passerini, che partecipò al movimento di Torino e che in seguito realizzerà uno dei più acuti e intelligenti scritti su questo periodo, dice: "L'ostinazione degli studenti si traduceva in un comportamento che, osservato dall'esterno, attraverso gli occhi dei mezzi di comunicazione di massa, presentava caratteri quasi biologici: cacciati ritornavano, più e più volte, come a un proprio habitat, a una casa, nonostante le minacce e le botte. Il palazzo [in questo caso Palazzo Campana, sede delle facoltà umanistiche di Torino; ma l'osservazione vale per tutte le sedi universitarie] era diventato il luogo di una grande comunità, articolata in comunità più piccole". La contesa per gli spazi ha un valore simbolico oltre che pratico: per gli studenti, significa disporre di uno spazio fisico da cui partire per liberare, idealmente, il mondo intero; per i professori e le autorità accademiche, si tratta letteralmente di riprendere il controllo della situazione, come se "riportare l'ordine" nelle aule e nei corridoi potesse magicamente ricondurre le coscienze alla condizione precedente.





L'assemblearismo

Lo strumento iniziale di questa liberazione viene istintivamente indicato nella parola: non a caso, uno degli slogan di successo di quegli anni fu "Riprendiamoci la parola". Ma attenzione: si tratta soprattutto di parola parlata, non di parola scritta. L'esigenza di una democrazia diretta all'interno del movimento porta infatti a privilegiare fortemente il momento dell'assemblea come momento in cui si prendono le decisioni grandi e piccole, e l'assemblearismo fu certamente uno dei caratteri distintivi del movimento.

Il numero di quanti prendevano parte attiva alle assemblee fu sempre piuttosto basso: secondo Luigi Bobbio (figlio di Norberto e uno dei capi del movimento a Torino), nelle assemblee torinesi non si superarono mai le settecento persone, mentre a Milano, dove forse erano a disposizione degli spazi più grandi, si riuscì talvolta a superare le mille. Risulta chiaro che in ogni caso, rispetto al totale degli iscritti (ma non forse di quanti effettivamente frequentavano), questi numeri rappresentano una minoranza. Queste assemblee sembrano riprodurre nelle loro dinamiche interne quelle di altri movimenti rivoluzionari: lo spontaneismo è la regola, le testimonianze concordano nel riconoscere che non esiste una gerarchia stabilita né procedure fisse. Le divisioni dei compiti e spesso anche le decisioni avvengono quasi per caso. La leadership non è consolidata ma spetta di volta in volta a chi riesce  a guadagnarsela con la forza, la durezza, la precisione, la magia del proprio discorso.  Ma questo stile, una volta trascritto sulla pagina stampata, oppure ripreso da epigoni che non sono in grado di controllarlo, decade presto nel cosiddetto sinistrese, di cui è stato detto che fu "una delle lingue più brutte mai parlate e scritte in Italia" (Giampiero Mughini): periodi lunghissimi, pieni di subordinate di ogni genere, farciti di incisi (di cui il più famigerato fu certamente l'onnipresente "nella misura in cui"), ripieni di citazioni di vaga ispirazione marxista, al termine dei quali rimane sempre il sospetto di non aver capito nulla di quanto si è appena letto o udito.


Su un altro piano la parola concreta, quella degli studenti in carne ed ossa, una volta riconquistata la sua libertà, si dirige immediatamente contro due bersagli: verso i professori, ai quali "sputa" in faccia tutto quello che ha sempre pensato o detto solo di nascosto, e verso la società, che cerca di provocare, scandalizzare, ferire con l'uso pubblico di parolacce, oscenità, bestemmie. In questo passaggio, fondamentale è la partecipazione delle ragazze, che conquistano un gradino verso la parità dei sessi.
Ma le assemblee non sono tutto. A Torino, per esempio, quasi subito si diffondono i controcorsi. Si tratta, nelle intenzioni degli studenti, di strumenti per elaborare, sia sul piano dei contenuti sia su quello del metodo, un modo di studiare alternativo a quello proposto tradizionalmente dall'università. L'idea è quella di affrontare argomenti di studio non più scollegati dalla vita sociale e politica e di affrontarli attraverso una discussione collettiva tra "pari". I titoli di alcuni di questi controcorsi rendono l'idea di cosa intendessero gli studenti: Vietnam, Scuola e Società, Giovani e protesta, Pedagogia del dissenso, Psicanalisi e repressione sociale.

Nella realtà dei fatti, queste esperienze si dimostrano quanto meno ambigue: da un lato permettono un effettivo scambio alla pari tra studenti e professori, come testimonia questo documento torinese datato 5 dicembre 1967 (risalente quindi alla primissima fase del movimento):
"Non si discute di fronte all'autorità (e il docente è un autorità); gli studenti hanno soggezione, paure, timidezza di fronte al professore, o semplicemente non si sentono all'altezza del docente. Per imparare a discutere bisogna trovarsi tra uguali, bisogna che le differenze  di potere tra docente e discente vengano completamente eliminate. Gli studenti che occupano Palazzo Campana [...] per la prima volta riescono ad esprimersi liberamente in presenza degli assistenti che hanno aderito all'occupazione, perché si sentono tra uguali, uniti nella stessa lotta per la conquista di una propria autonomia didattica e culturale"
D'altro canto però questo lavoro autonomo  si dimostra presto più difficile e complicato del previsto, come testimoniano le Cronache di una occupazione:
Nella seconda settimana di occupazione i contro-corsi non hanno funzionato nel senso che ci si aspettava. Cioè non si è fatto molto, non si sono fatte le bibliografie, ci sono stati contrasti e discussioni metodologiche, soprattutto su un tema fondamentale: bisognava cominciare da una critica della didattica tradizionale, per poi eventualmente arrivare alla formulazione di nuovi metodi didattici, oppure scegliersi senz'altro un tema di studio, per poi vedere se su questo tema, per il fatto stesso che era scelto da noi, era possibile elaborare dei nuovi metodi? Su questo, c'erano discussioni e contrasti continui, e non si riusciva a decidere nell'uno o nell'altro senso. Le persone che partecipavano attivamente  era questo punto circa quattrocento. Oltre a questo, c'erano le convocazioni periodiche  di assemblee di facoltà, cioè le solite domande che ritornavano , cioè la paura di restare orfani, "senza i professori, saremo capaci di studiare?" e dubbi del genere. Dopo questa seconda settimana di discussione a vuoto, la conclusione più politica e interessante che è stata raggiunta è che non eravamo capaci di studiare senza i docenti. Il che vuol dire che in quattordici anni  di scuola elementare e media non ci avevano insegnato a studiare".
Dalla prevalenza assegnata alla parola parlata e al momento vissuto segue una delle caratteristiche più tipiche del Sessantotto, o almeno che è apparsa tale all'opinione pubblica borghese: l'idiosincrasia per i libri. Il libro viene presentato come una delle forme con le quali si perpetua il dominio della società capitalistica, e perciò viene contestato come strumento didattico: in alcuni casi i libri vengono letteralmente fatti a pezzi, divisi per quinterni e divisi tra i partecipanti ai controcorsi. Da questo punto di vista il Sessantotto rappresenta uno spartiacque tra una cultura che vive di libri e di riviste e una che invece pensa di farne a meno e che così (col senno del poi) apre la strada allo strapotere della televisione.




Valle Giulia

In questa prima fase del Sessantotto quello che viene percepito come "magico" da chi l'ha vissuta fu la convivenza di elementi opposti, la capacità dei gruppi di riassorbire e mediare le contraddizioni presenti al loro interno, trovando appunto "miracolosamente" un punto di equilibrio. Per molti fu la scoperta di un modo nuovo di vivere e di convivere. Nelle testimonianze e nelle dichiarazioni di molti, questa prima fase fu decisamente pacifista: gli studenti si lasciavano trasportare fuori della aule senza opporre resistenza, oppure opponendo una resistenza simbolica. A Milano, per esempio, durante uno sgombero da parte della polizia gli studenti iniziano a leggere la Costituzione italiana e ciascun lettore, nel momento in cui stava per essere portato via dalla polizia, consegna il testo a un altro e così via finché tutti non furono trascinati fuori. A Torino, invece, alcuni studenti entrano in un'aula con il cappello in testa per protesta contro il professore, che ingiunge loro di toglierselo. Gli studenti rifiutano, il braccio di ferro si prolunga fin quando non arriva la polizia che peraltro passa più di mezz'ora a tentare di convincere con le parole gli studenti ad obbedire al professore.


Tuttavia la tensione tra concezioni opposte della rivolta era presente da subito, anche se viene mascherata dall'atmosfera di emergenza e di attivismo totalizzante dei primi mesi. Da un parte stavano quanti volevano un "riformismo avanzato" (ed erano la minoranza) ossia contavano di ottenere una riforma generale dell'università, dall'altra stavano (ed erano i più) coloro che volevano spingersi verso una contestazione radicale del sistema.


Il primo segnale di crisi è rappresentato dalla cosiddetta "battaglia di Valle Giulia", ossia gli scontri, avvenuti il 1° marzo 1968 a Roma, tra la polizia e gli studenti universitari che volevano occupare la facoltà di architettura. La facoltà, occupata da parecchi giorni, era stata sgomberata dalla polizia la notte prima, senza che si fossero verificati incidenti. Il 1° marzo era una giornata tiepida, uno di quegli anticipi di primavera che il clima della capitale sa donare ai suoi abitanti. Quel giorno, dopo un'assemblea generale di tutti gli studenti universitari, si formò un corteo di circa 2000 persone che si diresse fino alla facoltà, apparente presidiata da un piccolo numero di poliziotti. Gli studenti cercarono di penetrare all'interno della facoltà. Le testimonianze qui divergono: per alcuni gli studenti cominciarono a tirare uova e arance, per altri si scatenò una gragnuola di sassi, pietre, pezzi di legno. In realtà negli edifici universitari si trovava un gran numero di poliziotti, in tenuta da combattimento, che contrattaccarono immediatamente. La novità fu che gli studenti, invece di disperdersi, resistettero alla carica: ne nacquero scontri e tafferugli, anche se la durata della "battaglia" per alcuni fu di un'ora sola, per altri di più ore. È in occasione di questo episodio che Pier Paolo Pasolini compose una famosa poesia in cui prendeva le parti dei poliziotti contro quelle dei dimostranti.
Una seconda battaglia avvenne a Milano il 25 marzo, quando un grande corteo partito dalla Statale arrivò davanti alla Cattolica, che era stata chiusa tre giorni prima dalle autorità accademiche. Dopo qualche tempo la massa dei dimostranti cominciò a premere sul sottile cordone di poliziotti che presidiava l'ingresso dell'ateneo. Sull'altro lato della piazza, tuttavia, si trovava (e si trova tuttora) una grande caserma di polizia: da qui improvvisamente uscirono i poliziotti che caricarono i dimostranti. Gli scontri durarono anche in questo caso molto tempo, frazionandosi e frammentandosi nelle piccole vie circostanti.
Da questo momento gli scontri e gli episodi di violenza diventarono sempre più frequenti: il 13 aprile per esempio fu assalito il Corriere della Sera, considerato in qualche modo il simbolo stesso della società borghese che viene contestata. La sede della testata milanese viene attaccata a colpi di pietre una seconda volta l'8 giugno e in questa seconda circostanza si tentò per la prima volta, da parte del movimento, di organizzare un attacco "militare", cioè studiato a tavolino, per bloccare l'uscita del quotidiano milanese. Il risultato dell'azione fu fallimentare. Sull'onda degli avvenimenti del Maggio francese, si cominciò a pensare alla necessità di unire l'azione degli studenti con quella degli operai, sulla base del ragionamento che anche gli studenti, in quanto espropriati del proprio lavoro, andavano considerati come autentici proletari. Ben presto, nel corso dell'estate, si avvertì l'esigenza di dare una struttura più stabile al "Movimento": stava per iniziare l'epoca dei partiti dell'ultrasinistra.

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