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Storia
I fatti della storia
dal 1848 al 1870
in Italia
Breve storia della scuola italiana





La scuola italiana nel suo impianto di base è cambiata solo molto lentamente.
Per capirla occorre risalire al suo momento di nascita, cioè alla legge Casati del 15 novembre 1859. Il Regno d'Italia a questa data non era ancora nato (la proclamazione ufficiale avverrà solo il 17 febbraio 1861): il Piemonte, sotto la guida di Vittorio Emanuele II e di Cavour, stava attraversando una delicata fase di ristrutturazione dopo la guerra contro l'Austria (aprile-luglio 1859), vinta grazie all'aiuto della Francia e di Napoleone III. Il conte Gabrio Casati da Milano (1798 - 1873), ministro dell'istruzione del Regno di Sardegna, intendeva fornire un quadro unitario per la scuola del nuovo stato in formazione (la legge fu in effetti emanata per il Piemonte, la Liguria e la Lombardia, e solo successivamente estesa alle altre regioni). Egli si proponeva due obiettivi fondamentali:
Il primo punto rispondeva al progetto di uno stato laico moderno, quale voleva essere il Piemonte, di togliere alla Chiesa il suo secolare predominio nel campo dell'educazione. Non bisogna dimenticare infatti che tradizionalmente in tutta Italia l'istruzione era impartita, sia al livello elementare sia a quello superiore, da istituti ecclesiastici, spesso controllati dai gesuiti. Nel corso dei secoli la Chiesa è sempre stata molto gelosa di questa sua prerogativa e anche nei paesi d'oltralpe e non cattolici la lotta per il controllo dell'istruzione è stata aspra e senza esclusione di colpi.
La separazione dell'istruzione classica da quella tecnica interpretava invece il timore che la ristrettissima classe egemone (valutabile, in base al possesso dei diritti politici, intorno 2% della popolazione) provava nei confronti di qualunque cambiamento sociale. Non va dimenticato infatti che secondo la concezione liberale ottocentesca uno dei requisiti essenziali per partecipare alla vita politica era il saper leggere i giornali, perché solo questi permettono di aggiornarsi sul dibattito politico e di formarsi proprie opinioni. Il controllo sulla scuola perciò diventava immediatamente uno strumento di controllo politico.
La legge Casati cercava quindi di cristallizzare la società attraverso una struttura scolastica assai rigida: una scuola di ispirazione "classica" per la classe dirigente; una scuola di formazione "tecnica" per il ceto piccolo-borghese e impiegatizio; per tutti gli altri, l'analfabetismo o, nel migliore dei casi, vaghe scuole "professionali" a gestione privata. Con questa legge vennero poste due caratteristiche della scuola superiore italiana, che in forme diverse sarebbero arrivate fino a oggi:
Il percorso formativo degli studenti previsto dalla legge Casati si biforcava definitivamente al termine delle elementari con la scelta senza alternative tra il ginnasio, con il suo naturale prolungamento nel liceo, e la scuola tecnica che permette esclusivamente l'accesso agli istituti tecnici.
Il ginnasio-liceo, la cui gestione viene integralmente riservata allo stato, era il cardine della scuola superiore, la via normale per approdare alle facoltà universitarie. A esso si poteva accedere solo attraverso un esame che funzionava da potente filtro selettivo. Per quanto riguarda i programmi, Casati si ispira alla ratio studiorum dei Gesuiti.
La scuola tecnica, per la quale si prevede "il fine di dare ai giovani che intendono dedicarsi a determinate carriere del pubblico servizio, ai commerci e alla condotta delle cose agrarie, la conveniente cultura generale e speciale" (art. 272 della legge Casati), veniva invece posta sullo stesso piano della scuola "primaria", cioè delle elementari: entrambe vengono affidate, o per meglio dire abbandonate, alla gestione dei singoli comuni, che molto spesso non hanno neppure le disponibilità economiche necessarie allo svolgimento regolari delle lezioni. Le scuole professionali infine vengono lasciate completamente all'iniziativa dei privati.
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(fonte Wikipedia )
Per quanto riguarda invece il rapporto con la Chiesa, il neonato Stato vorrebbe contenderle il compito di formare le coscienze degli italiani, ma si trova impigliato in una duplice contraddizione: non solo il numero delle scuole superiori statali resta abbastanza modesto rispetto a quelle guidate da religiosi (ancora nel 1866, accanto a 210 scuole statali esistevano 232 istituti gestiti da seminari o istituzioni religiosi), ma la concezione stessa degli studi secondari classici dipende dalla tradizione cattolica, in particolare quella gesuitica.
La scuola superiore italiana disegnata dalla legge Casati è complessivamente un organismo di piccole dimensioni, concepito per classi sociali ristrette: nel 1866 contava in tutto appena 49.185 alunni, di cui solo 30.245 in scuole statali, comunali o provinciali (rispettivamente lo 0,2 % e lo 0,12 % della popolazione italiana del tempo: oggi gli studenti delle superiori sono 2.780.000 circa, pari al 4,87 % della popolazione attuale). Su questa istituzione ancora così poco radicata si concentra però, con speranze eccessive, una grande aspettativa sociale e politica: plasmare in senso unitario e nazionale la coscienza della classe borghese, generare un nuovo consenso sociale, unificare il paese nato dalla somma di stati che per secoli avevano vissuto separati. Se la politica ha creato lo stato italiano, la scuola dovrebbe crearne lo spirito, quasi rispondendo al celebre aforisma attribuito a Massimo d'Azeglio ("L'Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani!"). Questo progetto di fondo giustifica almeno in parte l'impostazione umanistica e linguistica scelta sin dall'inizio per il liceo: la lingua italiana viene vista come il miglior strumento per unificare gusti, sensibilità e valori di borghesie che fino ad allora hanno avuto contatti relativamente scarsi.
Per comprendere il senso di queste scelte, va ricordato anche che l'Italia era un paese ancora essenzialmente agricolo, in cui la modesta presenza industriale non può incidere sulle scelte educative con la richiesta di una classe di operai specializzati e istruiti o di quadri intermedi. La classe dirigente italiana non ha chiari progetti per il futuro economico del paese, a parte quello di restare al potere. La scuola perciò è concepita in funzione non dello sviluppo dell'economia, ma della conservazione della cultura esistente: tutto ciò confluisce nella centralità assoluta assegnata al liceo classico, cardine assoluto del sistema scolastico italiano.
Eppure i tempi cambiano. Dopo Vittorio Emanuele II salì al trono Umberto I, e alla morte di questi per mano dell'anarchico Bresci nel 1900 assume la corona Vittorio Emanuele III. Le maggioranze politiche si modificarono: alla Destra storica subentrò la Sinistra (1876), che ben presto inaugurava il trasformismo. Il nuovo secolo si aprì con il lungo periodo di governo di Giolitti (1842-1928), lo statista piemontese attento alle trasformazioni sociali del suo tempo.
Sui problemi della scuola venne istituita una commissione regia che lavorò tra il 1905 e il 1909 proponendo significative riforme: una scuola media inferiore uguale per tutti, di durata triennale, e la tripartizione degli istituti superiori in liceo classico, moderno e scientifico. Nei fatti nasce solo, nel 1911, il liceo "moderno" caratterizzato da una seconda lingua straniera al posto del greco e dall'introduzione del diritto, dell'economia, della geografia fisica e astronomica e del disegno. Si tratta del primo timido e poco fortunato tentativo di creare un canale culturale alternativo al liceo classico in grado di permettere il passaggio all'università.
Esisteva quindi indubbiamente, agli inizi del secolo, un indirizzo di pensiero favorevole a una trasformazione della scuola superiore in senso più scientifico. Contemporaneamente però si stava diffondendo nella cultura italiana anche la corrente filosofica del neoidealismo, i cui rappresentanti più importanti erano Benedetto Croce e Giovanni Gentile, e fu proprio quest'ultima ad avere il sopravvento nella discussione sulla scuola secondaria che si sviluppa in Italia dopo il 1910.
La svolta decisiva nella storia della scuola italiana si verificò nel 1923 con la riforma Gentile, un insieme di decreti emanati senza discussione parlamentare che rappresentano tutt'oggi l'ossatura della scuola italiana. Giovanni Gentile non inventa nulla ma riprende dichiaratemente le posizioni liberali emerse durante il dibattito sulla scuola negli anni 1905 - 1915, teorizzando per prima cosa l'irrigidimento della simmetria tra classi sociali e percorsi formativi: "a ciascuno la sua scuola" potrebbe essere il motto della scuola gentiliana.
L'asse portante della scuola superiore resta il ginnasio-liceo classico, reso volutamente ancora più selettivo e dichiaratamente riservato ai figli della borghesia medio-alta. In un'intervista del 29 agosto 1923, alla domanda "Come si fa a trovar posto per tutti gli alunni?", Gentile risponde: "Non si deve trovar posto per tutti". La logica di questa impostazione si riassume nella frase: "Poche scuole, ma buone". I pochi licei statali mantenuti aperti vengono invitati una severa selezione sia al momento dell'ingresso sia al momento degli scrutini di fine anno.
Invece di allargare la base della scuola superiore, consentendo l'accesso a nuove classi sociali, si rafforzano così i privilegi della borghesia, incitando peraltro i suoi membri a un più severo sforzo didattico e morale. In questa prospettiva va vista la sostituzione del vecchio criterio linguistico (l'italiano e il latino come strumento di formazione civile e morale) con quello filosofico, che dovrebbe favorire l'impegno nell'azione.
Se il regime fascista incoraggia la riforma (Mussolini arriva a definirla "la più fascista di tutte le riforme"), la reazione dell'opinione pubblica borghese delude profondamente Gentile: invece di ringraziare per gli steccati artificialmente eretti al fine di proteggerla, attacca duramente il filosofo per il suo energico richiamo alla severità degli studi, che porta a un drastico calo del numero delle iscrizioni alle scuole pubbliche (da 300.000 circa nel 1922 a meno di 200.000 nel 1925). Di fronte a questa pressione, i successivi ministri non tardano ad ammorbidire i criteri selettivi. L'anacronismo della concezione di Gentile risulta più evidente se si considera che il paese aveva conosciuto una sia pur fragile industrializzazione: l'insistere sulla cultura umanistica mentre il paese si avvia gradatamente in direzione opposta segna l'inizio di una crepa tra società e scuola destinata a diventare sempre più profonda.
Accanto al liceo classico la riforma Gentile istituisce sì un liceo scientifico, aperto a quasi tutte le facoltà universitario, ma si tratta di una struttura ambigua, una specie di liceo classico depotenziato: privato del greco, ridotto a soli quattro anni, senza un proprio corso propedeutico (si arriva allo scientifico dopo aver fallito al ginnasio o dopo aver frequentato i quattro anni dell'istituto tecnico inferiore) esso dedica solo il 34% delle ore complessive di insegnamento alle materie scientifiche. Accanto a quello che resta dell'istituto tecnico, infine, veniva creato un istituto magistrale per la formazione dei maestri.
La riforma Gentile rimane ancor oggi il cardine della scuola secondaria italiana. Nel dopoguerra non viene infatti apportata alcuna sostanziale modifica alla struttura prevista dal filosofo idealista, a parte la "defascistizzazione" dei programmi (cioè la cancellazione dai libri di testo di tutti i riferimenti positivi a Mussolini e al fascismo) imposta dagli alleati nel 1945. Nulla avviene in campo scolastico, in realtà, perché nulla o quasi avviene in campo sociale: la sconfitta militare e il crollo del fascismo non modificano in modo decisivo la struttura sociale del paese, che verrà alterata solo dal boom economico degli anni Sessanta.
Il dibattito sulla scuola nell'immediato dopoguerra si focalizza perciò su due questioni: la cosiddetta "media unica", ossia il prolungamento degli studi obbligatori fino ai 14 anni di età in una scuola uguale per tutti, ma soprattutto il problema della "libertà della scuola", cioè la possibilità di istituire scuole private. Poiché la maggioranza di queste scuole era di ispirazione cattolica, la discussione su questo tema trascina immediatamente con sé quello dei rapporti tra Chiesa e Stato. Gentile aveva incoraggiato la nascita di nuove scuole private per poter scaricare su di esse gli studenti espulsi dal sistema scolastico statale e ne era stato ricompensato da un ambiguo appoggio da parte del mondo cattolico. Il suggello di questa alleanza era rappresentato dall'"esame di stato" di "maturità" al termine del ciclo di studi superiori, uguale per tutti gli studenti, che forniva il titolo necessario all'accesso universitario.
Nel dibattito alla Costituente nel 1947 la Democrazia Cristiana si fa portavoce attraverso la relazione di Aldo Moro delle posizioni cattoliche chiedendo la sovvenzione delle scuole private in nome del diritto dei genitori di scegliere liberamente il modello culturale in cui educare i propri figli. Il fronte laico replica con la proposta del comunista Concetto Marchesi, garantendo il carattere neutrale e aconfessionale della scuola statale, unico luogo in cui tutte le posizioni culturali possano confrontarsi. Al termine di un acceso dibattito viene approvata la formula di compromesso che appare nell'art. 33 della Costituzione: "Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza oneri per lo Stato".
Quanto alla riforma della media inferiore, il centrosinistra riesce effettivamente nel 1962 a introdurre la scuola media unica per tutti fino a 14 anni. Viene abolito così l'obbligo di scegliere in modo definitivo il proprio percorso scolastico all'età di dieci anni e si apre la possibilità di formare addetti meglio preparati per l'industrializzazione di massa che il paese sta attraversando. Ma questa decisione arriva con troppo ritardo. Verso la metà degli anni Sessanta il nesso tra scuola e mondo del lavoro comincia a incrinarsi. Da un lato il tasso di crescita inizia a rallentare, dall'altro la pressione dal basso obbliga (non solo in Italia) a una rapida apertura delle carriere scolastiche: nel 1969 l'esame di maturità viene semplificato e viene concesso l'accesso universitario a tutti i diplomati di corsi superiori della durata di cinque anni (già nel 1961, però, un semplice Decreto presidenziale ha aperto ai diplomati degli istituti tecnici l'accesso a molte facoltà universitarie). Il numero dei diplomati e dei laureati comincia a risultare eccessivo rispetto alle offerte del mondo del lavoro e la scuola inizia a trasformarsi spesso in un'"area di parcheggio" dei giovani. Nel 1974 vengono introdotti i cosiddetti "Decreti delegati", un complesso di norme con i quali si cerca di permettere una gestione più democratica della vita della scuola. Accolti con grande speranze, questo strumento legislativo si svuota progressivamente di significato con il tramontare della spinta alla partecipazione negli anni Ottanta.
Riferimenti bibliografici:
Bibliografia abbastanza ricca a cura di Patrizia Valoya. Il testo più recente è del 2001
La legge Casati La pagina del sito Bibliolab.it contiene sono gli articoli dal 244 al 270 (in pratica, solo quelli relativi alla scuola secondaria superiore)
La legge Coppino La pagina appartiene al sito Educazione e Scuola
Un interessante approfondimentosui libri di testo in epoca fascista fino al 1945 si trova sul sito di History on line
Per citare la pagina:
http://www.ariannascuola.eu/filodiarianna/it/storia3/i-fatti-della-storia/dal-1848-al-1870/162-italia/151-breve-storia-della-scuola-italiana.html#link