L'«Altro», intendendo con ciò l' «altra persona», l' «altro uomo», dal punto di vista antropologico rappresenta un paradosso. Infatti, perché si possa davvero parlare di Altro bisogna che quest'ultimo sia contemporaneamente «come me» e «diverso da me». Chi incontro, perché possa davvero «incontrarlo», deve rispettare il principio della uguaglianza e quello della diseguaglianza. Senza la prima condizione, non riesco a riconoscere chi incontro come una vera persona e lo considero inevitabilmente inferiore a me. Se però non riesco a riconoscere anche il lato della diseguaglianza, l0altro verrà assimilato a me fino a assere una mia emanazione, un mio riflesso, una mia proiezione: non esisterà come «persona», ossia come centro autonomo di decisioni e di valori.
I tre assi su cui si sviluppa il rapporto con l'Altro sono
l'asse della conoscenza (ossia l'insieme delle nozioni che si hanno sull'Altro)
l'asse valoriale o assiologico (considero l'Altro portatore di un valore o di un disvalore: l'Altro è «buono» o «cattivo»),
l'asse della assimilazione (io rifiuto l'Altro oppure mi fondo con esso; e la fusione può avere due polarità a secondo che io rinunci alla mia identità per assumere quella dell'Altro oppure costringa l'Altro ad assumere la mia e a diventare come me). [Todorov, p 225]
Questi tre assi sono collegati strettamente tra loro: è evidente infatti che se io non conosco nulla dell'Altro che ho davanti a me non posso formulare nessun giudizio di valore sulle persone che sto incontrando e ben difficilmente potrò attivare un processo di assimilazione di qualsiasi tipo. Io e l'Altro resteremo due universi che non hanno nulla in comune (anche se questo non porta automaticamente al contrasto e alla lotta: io e l'Altro ci ignoreremo, limitando i nostri rapporti al minimo indispensabile, di solito condizionato dalle esigenze minime vitali, come la disponibilità di acqua e cibo).
D'altra parte, se ho delle conoscenze (più o meno approfondite) sull'Altro ma parto dalla convinzione di essere «migliore» di lui, in uno qualsiasi dei molti significati possibili, ben difficilmente potrò davvero «incontrarlo» in modo autentico, perché probabilmente interpreterò in modo sistematicamente negativo tutte le informazioni che posso avere su di lui. La conoscenza verrà distorta e produrrà un comportamento di sostanziale rifiuto.
Ma è anche vero il contrario: per esempio, «se il pregiudizio di superiorità è indiscutibilmente un ostacolo sulla via della conoscenza, si deve riconoscere che il pregiudizio di uguaglianza rappresenta un ostacolo ancora maggiore, perché porta a identificare puramente e semplicemente l'Altro con il proprio ideale di sé (o con il proprio io).» [Todorov, 200] Anche in questo caso non incontro l'Altro in quanto tale con tutte le ambiguità che questo rapporto trascina con sé: «credo» di incontrare l'Altro ma in realtà mi sto rapportando solo con la proiezione, fuori di me, di una serie di idee e convinzioni che «mi convinco» appartengano all'Altro ma che invece sono solo mie. Credo di incontrare (e magari amare) l'Altro e invece sto solo incontrando e amando me stesso.
L'arrivo di Colombo nei Caraibi e la successiva espansione degli spagnoli in America centrale e Meridionale (quel processo che in Europa viene chiamato la «scoperta» dell'America) rappresenta un laboratorio storico ideale per studiare le reazioni di interi gruppi umani nel momento del loro sorprendente incontro. Gli abitanti dell'Europa e quelli dell'America non avevano il minimo sentore gli uni degli altri e dovettero affrontare la nuova situazione utilizzando solo le strutture concettuali disponibili in quel momento.
Todorov segue tre figure chiave tra gli spagnoli (Colombo, Cortes e Las Casas, affiancate da una serie di personaggi minori) per illustrare tre possibili modi di reagire all'incontro con l'Altro, e prende in considerazione, per quanto possibile, il personaggio di Montezuma per descrivere il punto di vista degli Aztechi.
In modo abbastanza sintetico, Colombo è al «punto zero» dell'intersezione degli assi che abbiamo ricordato sopra (asse conoscitivo, asse valoriale o assiologico, assimilazione): non conosce gli Indiani, non intende assimilarli né tantomeno farvisi assimilare, dà una valutazione ambigua delle popolazioni che incontra. Per lui gli indiani sono soprattutto un elemento della natura, e non a caso sono sempre descritti all'interno di contesti naturalistici.
Cortes invece conosce bene gli Aztechi, stima la loro civiltà ma non la vuole affatto assimilare, in nessuno dei sensi possibili, al punto che la distrugge.
Las Casas infine conosce bene gli Indiani e li mette suo suo stesso piano antropologico partendo dalla sua esperienza cristiana ma li vuole assimilare a sé attraverso la conversione, negando così la loro differenza. Anche per lui quindi, nonostante il suo atteggiamento aperto e positivo, non si può parlare di vero rapporto con l'«Altro» in quanto tale.
Lo scontro tra spagnoli e aztechi si svolge (anche) sul piano della comunicazione.
Gli aztechi sono una società fondamentalmente oralista: i loro «libri» sono in realtà delle raccolte di pittogrammi, ossia di disegni che «stanno per» certi determinati oggetti. I pittogrammi «fanno riferimento all'esperienza, non alla lingua» [97]
La loro comunicazione è rivolta essenzialmente verso il mondo, i cui segni devono essere interpretati dalla collettività nel modo corretto per garantire l'equilibrio dell'universo e quindi la sopravvivenza della collettività.
Come in tutte le società oraliste hanno grande importanza presso gli aztechi i discorsi rituali, o huehuetlatolli, che «materializzano la memoria sociale, cioè l'insieme delle leggi, delle norme e dei valori che debbono essere trasmessi di generazione in generazione per garantire l'identità collettiva» [97]
Questo significa che i leader aztechi sono imprigionati in schemi interpretativi fissi, che non riescono ad adattare alla novità della situazione o che riescono ad adattare solo in parte e tardivamente.
Al contrario Cortes, in questo esempio e prototipo di tutti gli spagnoli e di tutti gli europei, accetta la improvvisazione e la varianza.
«Una società può favorire, o al contrario, fortemente scoraggiare le parole che, anziché descrivere fedelmente le cose, si preoccupano soprattutto del proprio effetto e trascurano quindi la dimensione della verità»[110]
Il linguaggio presso gli aztechi serve soprattutto a descrivere stati di cose; la menzogna viene punita severamente.
Invece per gli spagnoli il linguaggio serve soprattutto per gli effetti che produce sulle altre persone: Cortes se ne serve in modo spregiudicato, adattandosi continuamente alla situazione per trarne il maggior vantaggio possibile, accettando tranquillamente la possibilità di mentire se ciò gli torna comodo. [110]
È interessante notare che le tre principali società amerinde, ossia gli inca, gli aztechi e i maya, hanno forme di scrittura diverse.
«gli incas ne sono completamente privi (e si servono, a scopo mnemotecnico, di un linguaggio – molto elaborato – di cordicelle); gli aztechi usano i pittogrammi; i maya possiedono alcuni rudimenti della scrittura fonetica. Ora, è possibile osservare una gradazione corrispondente nella credenza che gli spagnoli siano degli dei. Gli incas credono fermamente in questa loro divina. Gli aztechi ci credono solo in un primo momento. I maya si pongono la domanda ma vi rispondono negativamente». [98]