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L'Apologia di Socrate


La principale descrizione del processo di Socrate si trova nel dialogo platonico intitolato Apologia di Socrate (per leggere il testo, clicca qui).

La procedura ateniese prevedeva che in un processo prendesse la parola prima l'accusa e poi la difesa; seguiva quindi la decisione della giuria che doveva stabilire la colpevolezza o l'innocenza dell'imputato, ma non ancora emettere la sentenza definitiva. In caso di colpevolezza veniva concessa di nuovo la parola all'accusato che doveva proporre una pena alternativa a quella proposta dall'accusa, e la giuria valutava se la pena proposta dall'imputato era adeguata al colpa di cui era già stato riconosciuto colpevole. Il testo platonico è quindi diviso in due parti: nella prima Socrate cerca di scagionarsi dalle accuse che gli vengono rivolte, nella seconda (che si immagina pronunciata dopo il verdetto di colpevolezza) propone per sé non una pena ma addirittura una ricompensa per quello che ha fatto nella vita.


Socrate inizia il suo racconto dicendo di trovarsi in tribunale perché aveva sempre incitato i cittadini a prendere coscienza di sé e ad essere virtuosi: questo suo impegno era stato però male interpretato dagli Ateniesi. Da giovane si era occupato della physis, come Anassagora (di cui aveva acquistato il libro a caro prezzo), ma si era presto allontanato da quel tipo di filosofia perché non trovava soddisfacente le spiegazioni di Anassagora.
Un giorno l’amico Cherofonte, di ritorno da una visita all’oracolo di Delfi, gli rivela che alla domanda su quale fosse l’uomo più sapiente, l’oracolo aveva risposto: “Socrate”.

Socrate dichiara di essere rimasto perplesso da questa risposta, perché da un lato sa di non essere sapiente, e dall'altro è convinto che l’oracolo non avrebbe mai potuto dire una falsità.
Socrate narra allora di aver iniziato una sorta di “pellegrinaggio” in cui egli si reca presso gli uomini considerati sapienti e li interroga sulla sapienza e sulla virtù, per capire quale fosse il mistero celato sotto la profezia del dio. Dopo tutta una serie di incontri con i "saggi" del suo tempo, ossia quelli che l'opinione comune riteneva tali (uomini politici, poeti, scrittori, pittori, tecnici) si accorge che nessuno sa spiegare il motivo per cui fa quello che fa nel modo in cui lo fa; detto con parole di oggi, essi non sapevano fondare (ossia dare una giustificazione razionale) quello che facevano, e perciò il loro sapere è solo apparente.

Ma Socrate si rende conto di una cosa ancora più importante: mentre lui non sa nulla dell'argomento a proposito del quali interroga i "sapienti", e tuttavia riconosce la sua ignornanza, ossia "sa di non sapere", i cosiddetti "sapienti" sono al contrario convinti di sapere la loro arte, ma in realtà non la conoscono affato e ne danno definizioni arbitrarie, spesso solo per mezzo di esempi.
La paradossale "scoperta" di Socrate consiste allora in questo: essere ignoranti e sapere di esserlo rappresenta una "sapienza" maggiore del semplice credere di sapere. In questo consiste quindi la sapienza di Socrate: nel riconoscere la propria ignoranza .

 

A partire da questo momento, continua Socrate, inizia una nuova fase della sua vita, durante la quale egli si dedica ai suoi cittadini per cercare di farli diventare migliori.

A un livello molto esteriore il suo modo di comportarsi ricorda quello dei sofisti, perché Socrate dialoga con le persone che incontra in piazza, in palestra, per la strada, nelle case private, e apparentemente si diverte a far fare loro le peggiori figure davanti a lui e al pubblico eventualmente presente. Per questo, spiega Socrate ai giurati che devono giudicarlo, si è creato molti nemici, che adesso vogliono vendicarsi.
In realtà il suo approccio è totalmente diverso da quello dei Sofisti: prima di tutto non si fa pagare, ma soprattutto la sua dialettica ha una finalità del tutto diversa.
Se è vero che inizla un primo approccio il discorso appare volto a far contraddire l’interlocutore, gli sviluppi sono invece diversi: le domante incalzanti di Socrate servono all’interlocutore per capire di non sapere quello che credeva di sapere, per poi cambiare e crescere.

Per questo motivo il Socrate platonico alla fine del suo discorso non chiede una riduzione della pena (come per esempio l’esilio, una scappatoia frequente in casi simili), ma anzi pretende dei riconoscimenti e dei premi, perché era stato un benefattore della città.
A questa risposta la giuria si indigna e lo condanna a morte.
 

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