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L'essenzialismo ontologico platonico

Per essenzialismo ontologico platonico si intenda una concezione della realtà esistente come insieme di essenze intelligibili – idee - illuminate dalla luce del Sommo Bene e da questa riflesse nei singoli enti. Si preferisce la predetta locuzione a quella di idealismo platonico, in quanto, rispetto ad esso, più pertinente e meno equivoca, essendo l'idealismo una forma espressiva, per lo più usata a indicare una delle correnti fondamentali del pensiero moderno.


L' essenzialismo ontologico rappresenta il frutto mirabile di tutta la filosofia greca dagli inizi al sec. IV a. C., e quindi non si può veramente comprendere in genesi, struttura e valore, se non si ha dinanzi alla mente, nelle sue linee essenziali, lo svolgimento del pensiero filosofico anteriore: pre-socratico, sofistico e socratico.
La filosofia, amicizia del sapere e della sapienza, sorge in Grecia verso la fine del sec. VII a. C. per bisogno e desiderio di conoscere razionalmente la vera essenza delle cose, che costituiscono la realtà naturale : il mondo che ci circonda, nel quale noi stessi viviamo e del quale siamo una parte.

 


Il problema dell'essere

Il problema dell'Essere o della Realtà è il primo problema che si impone alla riflessione = speculazione, e i primi tentativi per risolverlo sono quelli nell'ordine: della scuola ionica e della scuola italica o pitagorica: l'essere delle cose è individuato nell'acqua da Talete, nell'aria da Anassimene, nell'apeiron o l'indeterminato da Anassimandro, nel numero da Pitagora.
Soluzioni ingenue – pur se genuine - per una mente più matura ed evoluta, ma di altissimo valore, perché anzitutto dimostrano che la ragione umana già si è innalzata a concepire un principio unico, universale, vera realtà ed essenza delle cose, principio, al quale tutte le cose si riconducono e dal quale derivano, anzi meglio: principio del quale tutte le cose non sono altro che una semplice e differenziata specificazione.
Ma non solo questo: il valore delle precedenti soluzioni sta anche nel fatto che la ragione umana già pensa di dovere (si noti bene!) distinguere la realtà vera dalle apparenze sensibili.
Per es. Talete, ponendo come realtà l'acqua, già supera, con la riflessione, quello che si presenta ai nostri sensi come molteplice, vario, diverso, per coglierne l'unità vera e reale.
E così si può dire, con Aristotele, che, con Talete, la filosofia ha avuto il suo inizio, perché, come già detto, essa non è altro che un tentativo razionale (e per questo distinto, ma non diviso, da mitologia, poesia e religione) di trovare una spiegazione unitaria della Realtà, per mezzo di una sintesi di tutto il sapere.
Platone dirà appunto che filosofo è colui che, sdegnando le apparenze, è come innamorato della Realtà e aspira a conoscere l'Essere, ossia ciò che veramente ed essenzialmente é : tò òntos 'òn. Amore dell'Essere, che è profonda virtù, non della nostra sola intelligenza, ma di tutto il nostro spirito, perché richiede, da parte nostra, lo sdegno e il disprezzo della menzogna, dell'illusione e dell'apparenza, che per lo per lo più ci alletta, affascina e insieme inganna.
Tale virtù intellettuale, morale e spirituale, in cui consiste la filosofia, richiede una continua purificazione di cuore, mente e animo per andare oltre ogni vicenda e occupazione, che non sia vita e pensiero “nella - della - per la” verità delle cose tutte.
Ora, se la perfetta sapienza è ritenuta propria e solo di Dio, come insegna Pitagora, proprio dell'uomo invece è e dev'essere l'amore e l'amicizia di tale sapienza, cioè la filosofia, attività di tutto e intero lo spirito umano, che investe e trapassa ogni sua manifestazione costituendone l'intima moralità.
Ma, se la ragione umana si pone il problema dell'essere della realtà e tenta di escogitarne le prime soluzioni, essa si accorge ben presto che in questo problema ne è implicito un altro; si accorge che non può porre questo, senza porne necessariamente un altro.


E perché si pone il problema dell'essere?

Perché vuole risalire, attraverso le apparenze, la varietà, la molteplicità, alla realtà, all'unità; ma, se si crede di poterla raggiungere, tale realtà, e “fissarla” e determinarla in un dato essere, che sia il vero essere delle cose, è chiaro che non ci si può rifiutare di rispondere a questa nuova domanda: ma perché, se questo è l'essere vero, reale, c'è poi anche l'apparenza, la varietà, la molteplicità?
Accanto così al problema dell'essere si pone il problema del divenire: perché le cose sono molteplici, si trasformano, mutano, cambiano, presentandosi a noi diverse da quello che esse in realtà sono?


Essere e divenire, permanenza e variazione, identità e differenza: ecco alcune coppie di termini di una opposizione dialettica: = posizione di due principi contrari e/ o contraddittori, ma. ugualmente necessari, che richiedono perciò di essere conciliati in un principio superiore, che li unifichi e li sintetizzi realmente nel loro concreto avvenire.
La ricerca dell'essere o della realtà o ( per usare un' altra metafora viva cara a Platone) la caccia dell'essere, quasi a indicare tutta la brama, la cupidigia di chi fa tale ricerca, come è quella del cacciatore per la selvaggina, e il bisogno ardente di conoscerlo e possederlo, fanno sentire tanto più stridente e doloroso il contrasto che lo spirito umano prova nel trovarsi davanti a molteplicità e mutamento.

I due termini di questa opposizione dialettica, l'essere e il divenire, noi li troviamo già posti, ciascuno per sé, nella filosofia presocratica:
l'essere, nella filosofia della scuola eleatica, della quale il più grande rappresentane è Parmenide di Elea;
il divenire nella filosofia di Eraclito di Efeso.


Ed ecco in quale modo:
se stiamo a quanto ci sembra di poter constatare con i nostri sensi, noi vediamo nella realtà che ci circonda e che percepiamo, l'essere e il divenire ad un tempo, simultaneamente: ci sono cioè cose, oggetti, esseri, che esistono, che sono e che vediamo dotati di una relativa stabilità; p. es. questo tavolo, sul quale scrivo, è un oggetto che io vedo stabile; mi sembra che esso sia oggi così come era ieri e credo che rimarrà tale per molto tempo.
Però, le cose, gli enti, gli oggetti, mutano anche: questo pure lo constato con i sensi, e vedo cose che mutano rapidamente, altre invece assai lentamente, tanto è vero che posso accorgermene solo confrontando due stati di quello che dico essere il medesimo ente e oggetto, a molta distanza di tempo.

Ma qui interviene la ragione: la filosofia, abbiamo detto, è esame, critica ( = valutazione) e quindi superamento, trascendimento intellettuale dei dati del senso; ora, la nostra ragione ci dice che se un dato oggetto muta, si trasforma in un lungo periodo di tempo, questo suo mutamento e trasformazione deve avvenire anche in un periodo di tempo più breve, anche se i nostri sensi non se ne accorgono (es. “micio Romeo” da gennaio a oggi “et alia”), ma quanto più breve?
Qui la nostra ragione non vede un limite; bisogna che pensi questo tempo sempre più breve sino ad arrivare all'istante, all'attimo: perché un ente e un oggetto muti in un secolo (per es. questo tavolo, che fra un secolo sarà tutto consumato dal tarlo), deve mutare anche in 1 anno, 1 mese, 1 giorno, 1 ora, 1 minuto, 1 secondo, in un istante infinitesimo...; deve cioè essere e nello stesso tempo non essere, cioè essere quel dato oggetto e nello stesso tempo già non essere più quello...; esso si muta, si consuma in quanto è e mentre è, ma nello stesso tempo è, in quanto si consuma; il suo essere è lo stesso suo consumarsi la realtà delle cose è il loro stesso divenire.
Tale è il pensiero di Eraclito, che, con grande profondità di riflessione, si innalza a concepire la vita, che è l'essenza, l'anima di tutta la Realtà: vita che è lotta, contrasto, che insieme produce e consuma-distrugge - tutte le cose in una perpetua eterna vicenda (1).
E perché Eraclito, affermando il divenire, la variazione, nega l'essere e la permanenza, che egli dice essere : semplice illusione dei sensi?
Perché se la nostra ragione pensa l'essere come ciò che veramente è, non riesce più a capire come possa mutare: ciò che veramente è, è e non può non essere; se è, è e in quanto è e mentre è, non muta, non può mutare, ma è semplicemente, così che la posizione dell'essere, che non può essere non-essere, ossia che non può mutare, ci costringe a negare il divenire.
Questa è l'affermazione della scuola eleatica e in particolare di Parmenide, Zenone e Melisso, che ritengono illusione dei sensi il divenire e sono tratti a porre l'essere come uno, eterno e, come Melisso, con coerenza, anche infinito: essere uno, eterno, infinito che è la vera unica Realtà, accessibile alla ragione umana, che sola sa e può cogliere il vero ...
Se il pensiero eracliteo e quello eleatico rappresentano i termini antitetici della opposizione dialettica, già nella filosofia presocratica ci sono i tentativi di conciliazione della predetta antitesi.

 

I naturalisti

I sistemi di Empedocle, Anassagora e Democrito cercano di spiegare la Realtà, interpretandola come essere che in sé è quello che è, non muta, è eterno, ma è dotato di forze che producono il divenire, il formarsi e il perire di ogni singola cosa.


Empedocle ritiene che il vero essere è costituito dai quattro elementi = “stoikeia”, terra, acqua, aria, fuoco: elementi eterni, che né nascono né periscono e che, unendosi variamente e disunendosi per le forze contrarie e contraddittorie dell'amore (phìlotes) e dell'odio (neikos), danno origine a tutte le cose e ai loro cambiamenti.


Anassagora pone un'infinità di particelle similari per ogni sostanza (omeo-merie), particelle che dal caos primitivo si ordinarono in un cosmo o mondo per opera di una mente ordinatrice ( nous): primo presentimento-intuizione, questo, della necessità di ammettere un principio di natura intellettuale-spirituale, che solo nella filosofia posteriore potrà avere adeguato svolgimento.


Da ultimo, Democrito, con gli atomi, il vero essere, e con il loro moto nel vuoto, ci fornisce il primo esempio di una spiegazione della Realtà, di natura materialistica, meccanicistica e deterministica.
Ma tutti questi tentativi non possono non lasciare insoddisfatti: e perché?


Si rifletta bene: essi accostano i due termini essere e divenire, ma non li conciliano in una vera sintesi o unità reale.
Li accostano, perché li pongono tutti e due insieme, a livello della stessa realtà naturale, che si presenta come l'unico oggetto di umana conoscenza, ma forse il problema sta anche e soprattutto nel soggetto conoscente della medesima.
Fin qui, la speculazione filosofica si era rivolta a considerare l'oggetto, ossia la realtà naturale, come oggetto del conoscere, della quale realtà l'uomo stesso fa parte.
Ma una riflessione fattasi più raffinata ed esigente non può non acquistar coscienza, di fronte all'oggetto conosciuto (o conoscibile), del soggetto conoscente e del loro rapporto: sorge così con piena consapevolezza accanto al problema metafisico, o problema della natura in sé del Reale, il problema gnoseologico o problema della conoscenza delle cose da parte del soggetto umano.

 

I sofisti

La scoperta dell'importanza di questo secondo problema è il grande merito dei sofisti, che, per la loro stessa professione di maestri di sapere, sapienza ed eloquenza per i giovani destinati a farsi avanti e imporsi nella vita sociale e politica, sono portati a occuparsi dell'uomo e del mondo umano e della capacità che l'uomo ha di acquistare le conoscenze per farle valere e imporle agli altri: vincendo le assemblee e facendo passare per vere le opinioni numericamente dominanti.

Ma se “sentire” l'importanza dell'uomo come soggetto conoscente, creatore di un proprio mondo e di una propria realtà umana, è il grande merito dei sofisti, loro non meno grande demerito è quello di risolvere il problema gnoseologico solamente in senso negativo, cadendo in una forma di relativismo scettico: = la verità è relativa a ciascun soggetto conoscente, a ciò che gli pare e piace, gli torna utile; l'uomo (inteso come singolo e particolare) è misura di tutte le cose,di quelle che esistono in quanto esistono e di quelle che non esistono in quanto non esistono, come dice Protagora (1), perché la conoscenza degli oggetti, che ci viene dal di fuori, attraverso i sensi, da una natura in continuo divenire, non può non essere condizionata dalla nostra sensibilità, diversa da individuo a individuo, così che ogni individuo si forma una sua propria mentalità giudicatrice e produce una sua propria realtà e verità.

Ma dire che la verità-realtà è relativa è contraddirsi, ponendo l'assoluto, come relativo, è un assurdo, perché tale relatività contraddice con la sua essenza, che è di essere ciò che è, realtà assoluta, posta invece come relativa; ed ecco quindi la filosofia di Protagora ridursi al nichilismo - di Gorgia, negatore e della realtà - “ente-ciò che è = niente-ciò che non è “- e di ogni possibile conoscenza di essa. A questo scetticismo il pensiero umano, nel suo infaticabile lavoro di ricerca di progresso nella verità, non può rassegnarsi, perché in questo modo il problema della conoscenza viene negato, non risolto; bisogna però tener conto della giusta esigenza espressa dai sofisti: l'esigenza di porre l'attenzione sul soggetto conoscente.

Per poter mantenere questa giusta esigenza e l'altra, non meno necessaria, dell'assolutezza del vero, non c'è altro possibile mezzo che quello di riconoscere tale criterio di assolutezza insito nel soggetto stesso conoscente, portatore di una ragione capace di senso dello universale, identica in ogni soggetto particolare. Tale è il compito che Socrate scopre e trova con la sua teoria e pratica del concetto. Il concetto – universale logico o del pensiero - indica l'unità delle note o caratteri essenziali comuni a tutti gli enti particolari che esso rappresenta: costituisce l'essenza."( ousia, ti esti) dei particolari, ciò che ciascuno di questi veramente è e ciò per cui ciascuno diventa conoscibile dalla nostra mente; per esempio, il concetto di giusto è ciò per cui ogni azione particolare giusta è giusta: tutte queste azioni, che possono essere infinite e anche diversissime le une dalle altre, hanno una loro essenza comune, che tutte le rende giuste e costituisce la loro verità e realtà di azioni giuste; tale essenza è il concetto, cioè il giusto.

I particolari sono infiniti, diversi fra di loro, dispersi nello spazio e nel tempo, percepibili coi sensi, continuamente mutevoli, ma il concetto è uno, immutabile, eterno, universale, pensabile solo dall'intelletto: così sottratto a spazio e tempo e a varie e svariate contingenze. Utile ancora un esempio: il concetto di vertebrato ( = animale dotato di colonna vertebrale) si riferisce a un numero indefinito di vertebrati passati, presenti, futuri, diversi tra dì loro, che nascono, vivono e periscono; ma il concetto è uno solo e rimarrebbe anche quando, per ipotesi, tutti i vertebrati perissero.

Il concetto è puramente pensabile, non può essere una realtà sensibile; perché si capisca bene questo punto, decisivo nell'essenzialismo ontologico platonico, si provi a immaginare e quindi a disegnare il vertebrato; si vedrà che ciò è impossibile; si immaginerà e disegnerà un vertebrato, non il vertebrato, e Platone ad Antistene che diceva: io vedo il cavallo particolare, non la cavallinità, cioè il concetto del cavallo, poteva ben rispondere: certo ci vogliono altri occhi oltre quelli del corpo: intellettuali, non sensoriali, metafisici, non fisici. Ora, il nostro sapere consta di concetti; i particolari sensibili, nella loro continua mutevolezza e differenza, sono per sé inafferrabili, inconoscibili e inesprimibili. Si apra un libro di geometria: si vedrà che lì si parla delle proprietà del triangolo, non di un triangolo; si apra un libro di zoologia: vi si parlerà del gatto, non di un gatto.

Non si dà scienza che del concetto, dell'universale = di ciò che vale per tutti e ognuno in ogni tempo e luogo, e il concetto è pensato dal nostro intelletto, è interiore a noi ed è cosi sottratto alla relatività dei sensi. Già Socrate aveva ben messo in chiaro che noi lo troviamo nel nostro spirito, pur servendoci della induzione astrattiva , ossia ricavandolo non dagli, ma attraverso l'esame degli enti particolari, nei quali esso, per così dire, si incarna; esso è frutto di una intuizione intellettuale di semplice apprensione, sgorga dal nostro interno (per arte maieutica) e noi lo fissiamo mediante definizione intellettuale e tutte le intelligenze, innalzandosi all'essenza intelligibile del vero, lo devono ammettere, per l'unità stessa della ragione, identica in tutti e che trova e riconosce il concetto. Socrate pratica la sua teoria del concetto solo nelle indagini morali, per poter fondare sul sapere la pratica della vera virtù, identificando poi l'uno con l'altra: per cui può compiere il bene solo chi lo conosce bene. Ma chi doveva, poggiando su tale teoria e pratica del concetto come su base incrollabile, fondere in una concezione grandiosa e coerente tutti i risultati raggiunti dalla speculazione precedente, quei risultati da noi abbiamo individuati nel loro logico svolgimento, è Platone; e l'essenzialismo ontologico platonico sarà un acquisto imperituro nei secoli.

 

Platone

Platone, del quale sappiamo che fu nella sua prima giovinezza scolaro di Cratilo, seguace di Eraclito, non può far a meno di accettare anzitutto il punto di vista eracliteo; noi abbiamo davanti, dataci dai sensi, una realtà che vediamo soggetta ad un perpetuo moto e divenire; anzi noi parliamo di essa, come di una realtà, solo per una espressione impropria e se identifichiamo delle cose o esseri sensibili, che ci paiono dotati anche di una certa stabilità temporanea, lo facciamo solo per una illusione dei sensi, incapaci di percepire nella sua interezza il perpetuo e continuo divenire di tutto; ma ciò che diviene, non è e non è conoscibile; è un continuo fluire per noi inafferrabile, anche perché è perpetua e continua contraddizione. Eppure noi diciamo di conoscere cose, esseri, corpi, che compongono la realtà naturale e sensibile; ci pare di poter dire che essi, in un certo senso, sono, esistono, anche se mutano; anzi, ci pare di poter dire che essi mutano, appunto perché sono ed esistono. Si rivela qui, nella nostra conoscenza o supposta conoscenza della natura, l'esigenza di Parmenide, l'esigenza dell'essere, che, portata alle sue estreme conseguenze e applicata alla natura, ci costringe questa volta a negare il divenire e il movimento come pura illusione dei sensi, dando luogo a un'antitesi o contraddizione con la esigenza precedente di Eraclito, dalla quale non si sa come uscire.

Ma la grande scoperta di Socrate, il concetto, con la profonda teoria corrispondente della sua interiorità oggettiva allo spirito e quindi della interiorità, in ognuno di noi, della verità permette a Platone di superare l'antitesi: se noi diciamo di conoscere esseri, cose, corpi e crediamo di fissarli come oggetti conosciuti e conoscibili, è perché li troviamo e solo in quanto li troviamo corrispondenti e simili ai concetti, che abbiamo dentro di noi. Sono i concetti che sono stabili e permanenti: essi ed essi soltanto sono conoscenze, perché soltanto essi possono avere i caratteri del vero: unità, universalità, eternità, in una parola quella assolutezza che deve esser propria di ciò che è, di ciò che veramente è, come ben videro i filosofi della scuola eleatica.

I concetti sono in noi: fin qui Socrate; ma Platone continua il maestro e si chiede: perché sono in noi? come possiamo spiegarci la presenza dei concetti nella nostra mente? Ecco il problema che costituisce il fulcro dell' essenzialismo ontologico platonico e deve esser ben meditato dal lettore, se egli vuol comprendere come tale essenzialsimo non sia il frutto poetico di una bella fantasia o di una semplice fede religiosa, come molti credono, svalutandolo a priori, ma rappresenti l'esigenza e il risultato di una rigorosa elaborazione razionale.La prima soluzione del problema, che sembra la più ovvia e la più facile, è questa: i concetti provengono a noi dalla realtà sensibile stessa; noi ricaviamo il concetto, cioè l'universale, dagli enti particolari; vediamo prima le cose e poi dalle cose ci formiamo iI concetto.

Questa è la soluzione empirica del problema della conoscenza, della quale troviamo già accenni nei pre - socratici, per es., in Democrito; ma per Platone, essa è da escludersi immediatamente e totalmente, e ciò vale per la stessa tesi eraclitea. La realtà (o meglio: la pretesa realtà) naturale non è, ma diviene; è fluttuante e imperfetta, è inafferrabile; come si potrebbe mai da essa, della quale non si può dire né che è né che non è, ricavare i concetti? Esistono mai, per es., due cose eguali in natura? e come noi allora potremmo da esse derivare il concetto di eguale?

Come si vede bene, non è da due cose eguali (che nella realtà sensibile, in natura non esistono) che noi possiamo ricavare il concetto di eguale, ma , viceversa possiamo dire di due cose che esse sono eguali (sia pure per approssimazione), appunto perché abbiamo già il concetto di eguale; e così si dica di tutti gli altri concetti e scientifici e morali, che costituiscono il nostro sapere. Per es., a proposito del concetto di giusto, potremmo ricavarlo da quelle azioni, che diciamo giuste? Ma le azioni per se stesse sono qualche cosa di materiale, sono indifferenti ad ogni valutazione morale, sono relative e fluttuanti; noi possiamo dire di esse che sono giuste e valutarle come tali soltanto perché già abbiamo in noi il concetto di giustizia, che da esse non potrebbe mai sorgere.Esclusa la provenienza del concetto dal di fuori, quale altra soluzione potrebbe esserci? Potremmo forse dire che i concetti sono un prodotto del nostro spirito? Platone rifiuta questa tesi per due motivi: primo, perché egli, intendendo il nostro spirito come particolare e individuale, non può ritenere i concetti come un suo prodotto, perché anche questi allora sarebbero qualche cosa di particolare, di individuale, al limite arbitrario, sarebbero l'antitesi del vero sapere; secondo, in forza della teoria della conoscenza propria di tutta la filosofia greca e medioevale, che intende la conoscenza come adeguazione dell' intelletto alla realtà, della realtà all'intelletto, ossia relazione intenzionale mente-ente, che è verità e realtà nello stesso tempo. I concetti sono quello che sono; la nostra mente li comprende, perché li vede e in quanto li vede; la conoscenza è sempre una visione, non più certo una visione sensoriale del sensibile, ma una visione intellettuale dell'intelligibile.Allora non è possibile che questa terza soluzione: ammettere che i concetti siano un riflesso in noi delle essenze intelligibili o idee e le idee siano i concetti stessi, ma esistenti in sé e per sé fuori della nostra mente come enti intelligibili. Come si vede, c'è il passaggio dal valore logico, ossia mentale dei concetti al valore ontologico, ossia esistenziale delle idee o essenze intelligibili.

Ecco il punto capitale dell'essenzialismo ontologico platonico. Se noi vogliamo renderci conto della nostra capacità di conoscere, con quella necessità con cui affermiamo che la nostra conoscenza consta di concetti, con altrettanta necessità dobbiamo affermare 1' esistenza delle idee, o essenze intelligibili, le quali costituiscono la vera realtà, la realtà perfetta, immutabile, eterna, cioè la realtà che ha tutti i caratteri dell'essere eleatico, luce il cui riflesso nella nostra mente ci dà i concetti, per mezzo dei quali noi possiamo, per così dire, fissare il perpetuo, per sé inafferrabile divenire del mondo sensibile, così da potercelo rappresentare come pallida copia del mondo ideale. Questa è la grande conquista del pensiero platonico, conquista della ragione, si noti, non poesia, non sogno, non immaginazione o fede soltanto: la realtà presente, immediata, quale ci appare dataci dai sensi, la realtà, che noi chiamiamo natura, mondo, universo sensibile, non è la vera realtà; l'analisi del nostro conoscere, che è l'attività essenziale del nostro spirito, ci porta a scoprire in esso elementi e caratteri tali che ci costringono necessariamente, se non vogliamo cadere in contraddizioni assurde, ad ammettere una realtà ideale, intelligibile, che è la vera, assoluta realtà.


Sulla base di questa concezione fondamentale, Platone costruisce tutta la sua filosofia e interpreta la vita individuale e sociale con una ricchezza di indagini e molteplicità di elementi tratti dai più svariati campi, e dalla tradizione religiosa e filosofica e scientifica, così da darci un sistema meravigliosamente ricco e complesso e pure armonioso e semplice; non sistema, però chiuso e fissato per sempre, ma pensiero vivo e in continua elaborazione e progresso: il “Fedone” ne è – tra gli altri - un luminoso esempio.


E se Platone, conscio delle difficoltà e dei problemi sorgenti dalla sua visione filosofica, vi lavora per tutta la vita con una indagine sempre rinnovata e infaticabile, ciò non deve stupire affatto: non vi è né vi potrà mai essere una filosofia definitiva, ché la ricerca della verità è felice-mente senza fine, come senza fine è la verità: da vivere e pensare, gustare e godere...
Così, intorno all'essenzialiamo platonico si travaglierà il pensiero dei successori e sarà elaborato, trasformato nei secoli; cambierà profondamente nella filosofia moderna lo stesso concetto della conoscenza, la quale non sarà più intesa tanto come visione, contemplazione dell'oggetto del conoscere, quanto piuttosto come sintesi attiva di natura intellettuale dello spirito umano che elabora in sé il proprio oggetto di conoscenza; purtuttavia l'-essenzialismo rimarrà nella sua intuizione fondamentale una conquista definitiva del pensiero umano, e il giovane discente studierà in seguito che anche Kant, pensatore al centro di tutto il pensiero moderno, distingue un mondo sensibile (fenomeno) da un mondo intelligibile (noumeno), e che nella filosofia moderna parlare di una vera realtà, che non sia realtà intelligibile, ossia comprensibile, spiegabile allo spirito e da esso pensabile, è da ritenersi un assurdo, stadio inferiore della riflessione umana , definitivamente superato , almeno in una prospettiva filosofica evoluta e matura.
E questa sarà la lezione di Edmund Husserl, uno dei pensatori essenziali del '900 filosofico.

 

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