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Book Ontology


Ontologia del libro

Per descrivere il cosiddetto “mondo virtuale” si usano sovente delle metafore tratte dal discorso ordinario sulla percezione e sull’azione. Questo non deve stupirci, dato che gli oggetti virtuali sono stati progettati in parte ispirandosi a queste metafore. Al tempo stesso non è detto che queste metafore siano appropriate, e che non si debba cominciare a usare concetti diversi, e inventarne eventualmente di nuovi, se questi sono più appropriati ai fenomeni che si descrivono. Può persino accadere, come mi capiterà di mostrare, che questi concetti nuovi possono venir usati ‘di ritorno’ in certe situazioni che il discorso sulla percezione, sull’azione, sui comportamenti sociali descrive in una maniera che finora ci è sembrata naturale, ma che può rivelarsi a sua volta del tutto inadeguata. Possiamo importare le nuove metafore, che nascono da nuove pratiche, da nuovi usi, per reintepretare il mondo non virtuale. Il soggetto di questo intervento è la metafisica del libro e il modo in cui il web la libera da una concezione poco adeguata. Curiosamente, questa liberazione passa per un affrancamento economico.

Vediamo l’icona di un cestino sulla scrivania del computer. La cosa che questa icona rappresenta non è un cestino. In realtà, questa non è nemmeno un’icona: non rappresenta un cestino se non in modo indiretto, è invece l’immagine di un campo sensibile che attiva un oggetto particolare. L’oggetto attivato non è un cestino (ovviamente) e a ben guardare nemmeno gli assomiglia troppo.
Un cestino contiene documenti sotto forma di pezzi di carta
Non c’è ordine tra le cose che stanno in un cestino. Chi arriva prima finisce più o meno sul fondo.
Un cestino può contenere cose di tipo molto diverso da un documento, e non ci passa mai per la mente di riorganizzarlo.
Il ‘cestino’ virtuale immagazzina dati.
Si comporta in modo intelligente, tiene un elenco delle cose cestinate, non ha limiti di contenuto, permette un (ri)uso limitato degli oggetti che contiene, e così via.
Possiamo riorganizzare il cestino.

In realtà, cominciamo a pensare che questo non sia affatto un cestino, ma un vero e proprio archivio. O un limbo. E la metafora del limbo, con tutte le sue ramificazioni salvifiche, è ben diversa dalla metafora del cestino.
In una ricerca filosofica possiamo avere intuizioni abbastanza discordi anche su oggetti abbastanza comuni e anche relativamente a concetti abbastanza elementari. Su oggetti appena più complessi (e su oggetti molto più complessi, come i libri) si è in grave difficoltà quando si tratta di dare caratterizzazioni abbastanza precise, che sono indispensabili in certi contesti, tra i quali i contesti legali ed economici. Il filosofo spesso non fa altro che soppesare queste intuizioni. Vediamo queste intuizioni riguardo ai libri. Che cos’è un libro? C’è una prima ambiguità da mettere in evidenza in questa domande.

Il mio libro pesa un chilo.

Il mio libro si ispira al tuo.

Il libro che pesa un chilo è la stessa cosa del libro che si ispira al tuo?

A. È la stessa cosa. Non ci sono due libri nello scaffale.

B. Non è la stessa cosa. Posso distruggere il libro che pesa un chilo e non ho per questo distrutto il libro che si ispira al tuo. Il libro che si ispira al tuo potrebbe restare nella mia mente; è un libro-mentale, un testo. Potrebbe venir stampato su una carta più leggera e dar vita a un libro-oggetto che pesa mezzo chilo.

Sembra un esercizio di metafisica, ma capire che tipo di cosa è il libro ha dato da pensare agli esperti della pubblicazione online che hanno cercato di definire una ontologia per l’erede numerico del libro, l’e-book. Nel 2000 l'Open eBook Forum (OEBF, un consorzio che include editori come McGraw Hill e Random House, produttori di software come Adobe e Microsoft, costruttori di computers tra cui IBM, e nuovi editori elettronici come iBooks) ha pubblicato un documento programmatico aperto alla discussione sull'ontologia dell'ebook.

Ho usato nel paragrafo che precede un'ambiguità del termine "ebook" che rende la natura del problema che interessa l'OEBF. È un'ambiguità ontologica. "Ebook" può voler dire:

Tanto la macchina che riceve il testo

quanto il testo inviato sulla macchina.


Ed è naturalmente la stessa ambiguità che sussiste anche per "libro".  
Nel caso dell'ebook l'ambiguità è più vivida. Lo stesso ebook-macchina puo ricevere un'infinità di ebook-libri. L’indecisione tra le due nozioni contraddistingue il documento dell’OEBF, il che rischia di creare difficoltà al progetto di un’ontologia che dovrebbe contribuire a definire lo standard. Vedremo che questa indecisione non dev’essere necessariamente risolta.



Il diritto d'autore

Se dico di aver letto o di ricordare a memoria un libro, parlo del contenuto immateriale. Ma se dico di averlo bruciato, parlo del supporto fisico. Se invece dico di aver venduto un libro lascio aperte le due possibilità. Ora, possiamo approfondire la domanda sulla natura del libro proprio chiedendoci quale posto occupa nelle transazioni umane. In particolare, nelle transazioni commerciali. Che cosa si vende quando si vende un libro? In un articolo pubblicato nel 1785, Immanuel Kant aveva discusso del diritto d’autore. La sua idea è semplice. Alcuni modi di copiare un testo sono forme di pirateria, altre no.

Il mio editore fa molte copie del mio libro e le rivende, e non è un pirata.

Il mio vicino di casa fa molte copie del mio libro e le rivende, ed è un pirata.

Dov’è la differenza? Secondo Kant i libri generano un diritto di impedire a chiunque altro di copiarli o leggerli in pubblico, e questo diritto può venir ceduto a un editore dietro compenso. Ma da dove proviene questo diritto? Per Kant emana dalla natura stessa del libro, che non è una cosa come le altre. Produrre un libro non è come produrre una sedia – a meno che la sedia non sia un oggetto firmato. Kant si preoccupa di trovare una buona giustificazione del diritto d’autore perché avverte che la retribuzione di parole e idee non sia affatto pacifica. Se le idee e le parole sono una merce, sono una merce strana. Restiamo per un momento su questo confronto tra le idee (e le parole che le esprimono) e le sedie.

1. Se costruisco una sedia e te la offro, la sedia se ne va con te. Per questo è facile vendere e comprare sedie: il trasferimento dell’oggetto può riassumere il trasferimento dei diritti che ho sull’oggetto.

2. Quando compri la mia sedia, ci fai poi quel che volete. In particolare potete rivenderla.

1. Se ti canto una canzone, il testo e la musica non mi lasciano quando arrivano alle tue orecchie. Per questo è difficile capire come vendere una canzone.
2. Quando ti vendo il mio libro, puoi regalarlo a un amico o bruciarlo, puoi al limite venderlo al mercato dell’usato, ma non puoi farne copie e rivenderle a tua volta. L’invenzione del diritto di copia ha permesso di trasformare la vendita di un prodotto astratto in quella di un prodotto concreto - un disco, un volume cartaceo, un supporto fotografico. Il trucco sta nel fatto che il trasferimento dei diritti è limitato.

Questo meccanismo di protezione del libro dà per scontato che i contenuti culturali siano merci - per quanto di un tipo strano. E sappiamo che non è affatto detto che debba essere così. Se nessuno fosse disposto a pagare le canzoni non avrebbe molto senso cercare di venderle e inventare un modo per venderle. Ci sono sempre stati contenuti culturali che non vengono affatto venduti: canti improvvisati durante una passeggiata, disegni regalati, libri stampati a spese dell’autore, lettere d’amore, aneddoti durante le conversazioni. Perché pagare per le canzoni o i libri? Forse perché hanno un valore intrinseco? No: se diventassimo tutti analfabeti, i libri non varrebbero più granché. Un eventuale valore dipende da circostanze esterne. Come facciamo a conoscere il valore di un contenuto culturale? Ancora una volta ci è d’aiuto un confronto.


I prodotti ‘concreti’, come le sedie, sono soggetti a certe leggi di mercato, e questo permette di valutarli relativamente ad altri prodotti concreti.

Se confronto il prezzo di una sedia con quello di un fiammifero, ottengo un’informazione sul valore relativo, in un determinato contesto, della sedia e del fiammifero. Se per esempio la sedia costa cento lire e il fiammifero cento milioni, mi verrà il sospetto che ci sia penuria di fiammiferi e eccesso di sedie.

Il sistema dei prezzi funziona per gli oggetti fisici come una miniera di informazioni. (Sappiamo però c`e il sistema può venir distorto, in particolare in situazioni in cui il mercato non è libero. In un’economia pianificata il sistema dei prezzi non informa granché, dato che il fiammifero può costare cento milioni, e la sedia cento lire, anche se c’è eccesso di fiammiferi e penuria di sedie.)

I prodotti culturali non sono mai stati veramente soggetti al libero mercato. Per il mercato dei prodotti culturali la distorsione è la norma. In effetti, la loro selezione, il marketing con cui vengono offerti al pubblico, la presenza di innumerevoli mediatori tra l’autore e il lettore, non ultimo il libraio che sceglie che cosa esporre, la pressione di istituzioni accademiche, ecclesiastiche (si pensi all’imprimatur) o statali (si pensi ai libri di certi notabili politici stampati a spese del contribuente e distribuiti nelle scuole), l’insufficienza o la parzialità dei recensori - tutti questi fattori distorcono qualsiasi tentativo di ottenere un’informazione affidabile sul valore dei prodotti culturali semplicemente guardando alla loro vita commerciale. Per esempio, gli editori accademici tendono a richiedere contributi per la pubblicazione, o la garanzia di certo numero di “adozioni” da parte degli studenti dell’autore, o invitano l’autore a comprare un certo numero di copie, hanno linee editoriali dettate da scambi di favori tra i membri dei comitati di lettura o più semplicemente da mode culturali. I contenuti culturali non sono come le sedie perché la loro economia è lontanissima dal libero mercato e non è in grado di riflettere il loro valore. Se servisse una controprova, pensate alla reazione del vostro libraio il giorno in cui gli riporterete un libro il cui contenuto vi ha deluso, chiedendogli un rimborso.

A questo punto possiamo far entrare in scena il web e passare a una serie di esempi che, spero, dovrebbero chiarire che cosa intendo quando propongo di ridefinire oggetti e funzioni del mondo pre-web in funzione di quello che possiamo imparare dal mondo web. Prendiamo il caso, un caso limite è vero, di un produttore di contenuti culturali, un ricercatore scientifico.

Potrei cercare di pubblicare il testo presso un editore, ma dovrei aspettare mesi, attendere il vaglio di un comitato di lettura che può essere ostile alla mia linea di ricerca per le ragioni più svariate.

Ho inoltre la certezza che il testo verrà letto solo da persone cui si impone un pagamento per accedere al libro, il quale a un certo punto sarà esaurito e non più disponibile.

Quando pubblico un testo specialistico di ricerca sul mio sito web, mi auspico un accesso non ristretto, anzi il più largo possibile, e gratuito.

Mi interessa che il mio articolo venga letto, che vi sia una risposta da parte dei lettori.

Di fronte alla scelta, non dovrei esitare a pubblicare sul web. I contenuti scientifici passano inevitabilmente al web, perché i loro autori sono stanchi dei filtri privati o istituzionali. E sul web la vera valutazione è possibile - anzi viene costantemente effettuata. Non dai mediatori privati o istituzionali, ma dai consumatori, in modo analogo, ma significativamente diverso, all valutazione che si riflette nel sistema dei prezzi.

La valutazione dei contenuti

Voglio proporre tre modelli della valutazione dei contenuti online.


Primo modello: le visite (salon.com)

I consumatori valutano i prodotti ‘concreti’ comprandoli.

Sul web invece i contenuti culturali vengono votati. In che modo? Visitando le pagine che si apprezzano. Una misura dell’apprezzamento è data dal numero di visite



Ci sono stati casi di periodici online (salon.com) che hanno licenziato i giornalisti i cui articoli non ricevevano un numero sufficiente di visite. L’aspetto interessante del mondo online è che è possibile ottenere indici di consultazione più precisi che con qualsiasi altro mezzo di informazione.  Le reti televisive, che pure utilizzano sistemi molto sofisticati di rilevamento, non possono sperare nemmeno lontanamente di avvicinarsi alla precisione del contatore di visite, che è in grado di discriminare il singolo computer grazie a programmi molto semplici, accessibili a chiunque costruisca un sito web. Questa precisione è lo spauracchio dello scrittore online. Se finora il suo articolo veniva valutato solo dalla redazione, adesso viene votato direttamente dal lettori.
Ci sono due ordini di problemi. È auspicabile affidare la valutazione ai lettori? La valutazione basata sulle visite è un indicatore affidabile?

È auspicabile affidare la valutazione ai lettori?
In fondo qualcuno decide pur sempre che cosa sia bene o sia male leggere: una redazione fa comunque delle scelte. Il caso limite è quello di un giornale ottimo, con delle analisi ottime, che però nessuno legge. Dobbiamo mantenerlo in vita al solo fine di difendere la qualità della stampa? Questa posizione rischia di sfociare nel paternalismo culturale, nell’immagine di lettori ideali che dovrebbero interessarsi a determinate cose. Il punto è che non si sa bene che cosa voglia dire “ottimo” né in base a quali criteri vengono definiti i lettori ideali. La conta delle visite a una pagina ovvierebbero a questa situazione: le visite sono la moneta sonante che introduce una misura della domanda finora di difficile applicazione nell’ambito dei prodotti culturali, tradizionalmente refrattari a criteri quantitativi di valutazione. E in particolare si presenta una possibilità del tutto nuova, quella di una valuazione comparativa che può riservare molte sorprese: l’articolo di un grande della penna può venir apprezzato meno di quello di un giovane sconosciuto.

Le visite costituiscono davvero un indicatore dell’apprezzamento?
Un lettore può pur sempre aver visitato una pagina senza aver letto un articolo, può aver letto l’articolo distrattamente, può averlo letto e tuttavia non averlo affatto apprezzato. Ma anche se non è chiaro che cosa misurano esattamente le visite, si deve presupporre che i lettori abbiano un’idea di che cosa vogliano leggere e abbiano visitato una certa pagina per soddisfare il proprio desiderio di lettura. Questo ci dà un’indicazione forse rozza ma tendenziale del valore di un testo. Ma esiste un modo di correggere le distorsioni del sistema di valutazione che usa le visite? Naturalmente non si può chiedere al lettore di fare un riassunto di quello che legge per verificare se il suo giudizio è informato e non casuale, ma si potrebbe chiedergli di votare gli articoli con un giudizio (“Vi è piaciuto? Si/No”). Questo argomento potrebbe non impressionare un editore. I lettori possono anche detestare cordiamente il testo di un articolo, e lo scopo precipuo dell’editore è quello di far leggere il suo giornale. Forse un pulsante può permettere di rispondere a una domanda più precisa: “Abbiamo fatto bene a pubblicare questo articolo?” se non addirittura “Qual è il valore di questo articolo rispetto agli altri contenuti del giornale?”. In questo caso un articolo sull’arte perduta del merletto potrebbe venir riabilitato a fronte di uno - probabilmente più visitato - sulle avventure estive di un’attrice di varietà. Possiamo anche immaginare un sistema di recensioni (che andrebbero naturalmente valutate a loro volta, e in effetti le recensioni su amazon.com sono accompagnate da un pulsante che permette di pronunciarsi sulla loro utilità). Ma c’è un problema più profondo. Il meccanismo del voto-visita è potenzialmente irresponsabile, in quanto i lettori non mettono in gioco nulla quando votano-visitano. In un futuro (che molti sperano o temono prossimo) in cui si trovi il modo di far pagare i contenuti online, un abbonamento potrebbe semplicemente consistere nell’acquisto, da parte del lettore, di un certo potere di voto per o contro certi articoli. I giornalista verrebbero pagati direttamente dai lettori, e l’azione dei lettori sarebbe responsabile in quanto avrebbe un costo.
C’è però una seconda possibilità di estrarre informazioni sulla qualità a partire dalle visite dei lettori.


Secondo modello: i link (google.com)

I consumatori valutano i prodotti ‘concreti’ comprandoli.

Sul web invece i contenuti culturali vengono votati. In che modo? Facendo un link verso la pagina che si apprezza.

Consideriamo di nuovo il caso del ricercatore accademico che deve scegliere se pubblicare il proprio testo online o mandarlo a una rivista. I comitati di lettura delle riviste divengono obsoleti nel momento in cui i testi pubblicati sul web vengono fatti oggetto di valutazione da parte dei lettori, che creano link verso le pagine che apprezzano. Il sistema tende a produrre un circolo virtuoso.
Se faccio link verso pagine che vengono ritenute buone dai lettori della mia pagina, la mia pagina verrà valutata positivamente da questi lettori e riceverà a sua volta molti link. Se invece faccio pubblicità a pagine non tanto buone, la mia pagina non sarà votata da nessuno.
L’onestà e la competenza vengono premiate. Una pagina ben votata è una pagina che acquisisce autorità e la trasmette ai propri link. Non sto proponendo un modo nuovo di trattare i fenomeni culturali o di valutare i prodotti culturali: sto semplicemente descrivendola realtà democratica del web, una realtà che esiste già. Un motore di ricerca come Google sfrutta le informazioni già contenute nella struttura dei link. I link dal sito A verso il sito B vengono interpretati come voti per il sito B. Questo sembra ragionevole: se uno vuole far sapere ai visitatori del suo sito A che B è il miglior sito sul calcio (o sui raggi gamma), vota il sito B con un link. Se il sito A contiene molti link utili, prima o poi viene votato da altri siti e acquisisce un'autorevolezza che trasmette ai suoi link. Google raccoglie i risultati delle votazioni. Perché fidarsi (abbastanza) del risultato? Per la stessa ragione per cui ci fidiamo (abbastanza) delle etichette con i prezzi in un negozio. Dietro alle pagine ci sono comunque individui che valutano, e dietro alle etichette ci sono consumatori che acquistano. Ciascuno di noi è un piccolo esperto. Google vede la rete come un grande sistema di voti. Il sistema è in fondo analogo al sistema dei prezzi, che ci informa sul valore relativo dei prodotti. La grande differenza rispetto ad altri modi (libri, televisione) di pubblicare contenuti culturali è che la rete contiene un'enorme quantità di informazioni (di tipo feedback) immediatamente accessibili sul valore dei prodotti pubblicati.

SCENARIO: Ma questo significa anche la morte dei contenuti culturali fatti circolare al di fuori del web. Li si riconoscerà immediatamente come non valutabili. Se gli editori non assumeranno il rischio di mettere a disposizione gratuitamente e integralmente sul web i testi dei loro autori si ritroveranno in una nicchia economica marginale.

Mi piacerebbe vedere un programma di ricerca che studia il sistema dei link e le sue potenzialità informative, le distorsioni possibili, e correzioni per queste distorsioni. A tutt’oggi non mi sembra che sia stata dedicata sufficiente attenzione a questo aspetto della struttura del web.

Terzo modello: il parere dell’esperto (about.com)

C’è naturalmente un’alternativa, il parere-filtro dell’esperto. Svariati esperti, tra cui Umberto Eco, hanno difeso la figura degli esperti come guide nella selva di informazioni del web. Eco in particolare ha trattato dell’accesso al web nelle scuole, ma il suo discorso può venir esteso a molti tipi di trasmissione culturale. L'argomento sembra solido: "Non ci sono strumenti per educare alla selezione delle informazioni. Non si sa come discriminare tra siti seri e follie. Quello di un criminale nazista come Eichmann o quello di Madre Teresa di Calcutta potrebbero diventare la stessa cosa". Servono filtri: sulla rete c'è troppo materiale. "Fino a oggi le Chiese e le istituzioni scientifiche avevano la funzione di filtrare e riorganizzare la conoscenza e l'informazione. Questi intermediari restringono la mia libertà intellettuale, ma garantiscono che la comunità ha filtrato l'essenziale... Insisto sulla funzione di un filtro esterno alla rete, che si tratti della scuola, di libri o di giornali". Di nuovo, servono filtri: praticamente tutto è disponibile sulla rete, ma senza una buona guida ci si perde.

Rischia di passare inosservata una distinzione molto importante. Eco parla di due tipi di filtri:

I filtri del primo tipo, chiamiamoli filtri negativi, impediscono l'accesso a pagine deplorevoli.

I filtri del secondo tipo, i filtri positivi, selezionano solo pagine ritenute degne.

Ma non è affatto detto che uno stesso filtro debba fare entrambe le cose. In particolare Eco sembra suggerire che l'esigenza (in fondo abbastanza condivisibile) di filtri negativi serva a motivare la proposta di filtri positivi. Un filtro positivo, secondo Eco, è un esperto, o un'istituzione esterna alla rete. L'esperto compila – per fare un esempio – una pagina che contiene link verso altri siti degni di visita. (Su questo principio funziona un sito come about.com). Il sito ottiene credibilità perché l'esperto che lo compila è autorevole.

Qui c'è un problema. Come si giunge a un sito credibile? Io mi fido di Eco, ma Eco conosce tutti i siti? Magari un sito che Eco non conosce dà informazioni più autorevoli di quelle che dà un sito che Eco conosce. E come arrivo a Eco? Certo, lo Stato può creare dei portali educativi. Ma se lo spauracchio del sito negativo deve farci riflettere sull'opportunità di vietare l'accesso, non deve per questo indurci nella tentazione di selezionare i contenuti da proporre. Altri studiosi, come Omar Calabrese, si sono pronunciati in questo senso, favoleggiando di siti “doc”. Non sembra un’idea balzana? Si pensi a che cosa significherebbe in campo librario il riconoscimento, da parte dello Stato, di editori doc.

Google non è un esperto – di fatto è ignorante e agisce ciecamente. Ma si approssima al bibliotecario perfetto che Musil descrive nell’Uomo senza qualità per fare bene il suo lavoro non deve sapere praticamente nulla. Più radicalmente, si potrebbe semplicemente sostenere che non esistono esperti sull’informazione disponibile sul web.

Ma perché preferire i link-voto agli esperti? Come il sistema dei prezzi, il sistema dei link-voto può subire delle distorsioni. Di fatto, nei sistema dei link ciascuno è considerato come un mini-esperto. Perché preferire tanti mini-esperti a un grande esperto-filtro? Non sarebbe meglio fidarsi degli esperti? No. Se mi si consente una metafora, gli esperti-filtro stanno al sistema dei link-voto come l'economia pianificata sta al mercato. Il destino degli esperti filtro sulla rete è quello dell'economia pianificata. Tra cinque anni tutte le nuove conoscenze transiteranno sulla rete. E se non servono sulla rete, dove servono gli esperti?

Per tirare le fila della discussione di questi tre modelli. Il web e la link-economy rendono esplicita la natura dei contenuti culturali. Sul web i contenuti diventano quello che sono, entità astratte, difficili da inquadrare nel diritto di copia. Questo dipende dalle particolari possibilità della valutazione che si basa sul feedback.

Torniamo ora al libro e alla sua natura. Abbiamo visto che i contenuti culturali sono immediatamente valutabili una volta che si smaterializzano nel web, e questo ne mette in luce un aspetto che il libro cartaceo tendeva a occultare. Ma che cosa possiamo aspettarci, quanto sarà profondo il cambiamento dei veicoli culturali? Lo vediamo nel prossimo esempio.

Nel 2000 Stephen King vende per due dollari e mezzo Riding the Bullet. Potete comprarlo (solo sul web), scaricarlo sul computer o sull'e-book, e spedirne un capitolo a un'amica per e-mail. Avvinta dalle prime righe, costei non esiterà a cliccare sul pulsante che le permetterà di avere la versione completa, pagando a sua volta due dollari e mezzo.

SCENARIO: Il libro cartaceo intona il canto del cigno. A meno che non si dimostri che il libro cartaceo è insostituibile.

Vediamo. Le obiezioni (noiose) di solito sollevate contro la possibilità di trasferire all'e-book la produzione a stampa riguardano vari fatti:

  • Si può strappare una pagina del libro di carta e spedirla a un amico.
  • Se il libro cade non si guasta.
  • Il libro non rischia di essere scarico a metà del capitolo tre.
  • Il “funzionamento” del libro dipende soltanto dal lettore, non c’è manutenzione.
  • Il libro è ergonomicamente perfetto, è un tipo di oggetto che non invecchia.
  • Lo hardware degli e-book e il formato dei testi possono cambiare molto velocemente (si pensi a come sono cambiati negli ultimi dieci anni i computer e i documenti .doc)
  • L’e-book non può venir scomposto senza danneggiarne significativamente la funzionalità.
  • Essendo hi-tech, è soggetto a svariati rischi di rottura o di cattivo funzionamento.
  • Non c’è ancora un accordo su un e-book standard.
Questi dettagli sono interessanti, ma sono fumo negli occhi rispetto a problemi ben più seri cui non mi sembra si presti sufficiente attenzione. Come nel caso del libro, possiamo spostare la discussione sul ruolo funzionale che l’e-book occupa nella catena delle relazioni sociali, per esempio sul modo di proteggere l'autore (e il suo editore) dalle violazioni del copyright. Ma possiamo spingerci oltre e pensare a una ridefinizione dei legami sociali creati dalla circolazione e dalla vendita elettronica dei contenuti culturali.

Posso regalare un libro. Nessuno regala il capitolo introduttivo di un libro per invogliare un amico a leggere il libro.

Posso rivendere il libro al mercato dell’usato.

Posso prestare un libro a quante persone mi pare e piace senza privarmi del piacere di leggere mille altri libri nella mia biblioteca.

Io troverei molto maleducato un amico che mi spedisse per e-mail il primo capitolo di un testo di King o di chiunque altro con annesso pulsante di acquisto.

Non posso prestare un e-text senza privarmi dell’e-book (lo hardware). L’idea di prestito è difficile da realizzare nel mondo dell’e-text. E l'idea di un libro che non posso prestare (o rivendere) dopo che l'ho letto mi rende leggermente antipatico l'autore.

L'idea che l'autore si difenda con una chiave software mi fa pensare che l’autore mi vede come un potenziale pirata - non esattamente l'immagine di lettore che pensavo avesse in mente quando scriveva il suo testo.


Vediamo subito che allargata in questo modo la discussione sulla natura dell’e-text e dell’e-book ci obbliga a ripensare le sue prospettive d’uso. Il settore è stato elettrizzato dalle vendite di alcuni bestseller, ma è ancora in cerca di una collocazione precisa nel mondo della trasmissione dei contenuti. Nonostante il grande impatto mediatico il contenuto elettronico a pagamento fatica a trovare la sua strada. Forse c'è un problema di costi. Contentville.com vende per dodici dollari la versione elettronica di un romanzo che rilegato ne costa diciassette. Il risparmio non sembra di grande impatto. Si ritiene a volte che la difficoltà del contenuto elettronico dipenda dalla mancanza di gadgets appropriati su cui leggerlo (e in effetti gli ebook oggi in commercio sono un po' primitivi), ma questo non sembra corretto. Una famiglia americana su tre ha accesso a internet e può scaricare un libro sul computer di casa senza dover acquistare i nuovi gadget.

Per riassumere:

Intorno al libro si sono cristallizzate, nei secoli, norme e regole sociali collaudate, che lo proteggono. Non è un discorso nostalgico ma un fatto, legato alla funzione del libro: far circolare idee a bassissimo costo e in un formato che ha una serie di vantaggi, non solo la manipolabilità ma anche la trasmissibilità, la riconsultabilità, la regalabilità: il libro è un oggetto di scambio, comunicazione. Non si sa ancora come sostituire queste pratiche sociali che avvolgono il libro. L’e-book in realtà è un prodotto ibrido, a metà tra libro e palmare: qualcuno ha guardato un libro e ha pensato: "come posso rendere questo libro elettronico?" Ma ha guardato al passato e non alla natura delle nuove tecnologie, che creano macchine totalmente integrate in cui passa ogni genere di comunicazioni. È necessario capire questo e inventare qualcosa di nuovo o l’e-book sarà solo un gadget tra mille altri. Il libro su carta, quindi, resisterà per un certo tipo di funzioni: la cultura è un fenomeno molto complesso che non è legato solo ai mezzi ma a delle pratiche sociali. E cercare di imbrigliare il contenuto elettronico nella metafora del libro significa non approfittare delle diverse opportunità che offre.


Accettiamo la doppia natura del libro. Il formato numerico libera il contenuto, ma il libro cartaceo è un prodotto perfetto. Come risolvere questa antinomia? Non è detto che ci sia bisogno di risolverla. Il mercato potrebbe stabilizzarsi verso un prodotto duale.

Gli autori metteranno a disposizione gratuitamente sul web la versione integrale dei loro testi. Leggerete il libro online? Forse sì, forse no.

Ma il libro è pur sempre un oggetto che si regala volentieri. Cliccando su un pulsante, e pagando due dollari e mezzo a uno stampatore-distributore on demand, farete avere alla vostra amica un gradito tomo cartaceo.

SCENARIO: Si pensi, a titolo di esperimento mentale, allo scenario seguente. Milioni di persone ogni anno pubblicano libri a proprie spese (ingrassando una categoria speciale di editori a pagamento). Milioni di persone desiderano semplicemente pubblicare, ovvero rendere pubblici, i propri prodotti culturali. Oggi possono farlo sul web gratuitamente; centinaia di milioni di altre persone possono leggere questi libri gratuitamente, senza pagare due dollari e mezzo. Certo, Stephen King è Stephen King, e un autore dilettante è un autore dilettante. Ma i grandi numeri sono i grandi numeri. La scelta tra due dollari e mezzo per l'arcinoto Stephen King e zero dollari per un autore alle prime armi (magari segnalato da qualche aficionado, magari in una nicchia di mercato piccola ma accessibile grazie a una pagina di segnalazioni) ripetuta milioni di volte in un giorno diventa semplicemente la scelta tra due dollari e mezzo e zero dollari. Gratis è gratis, in particolare se quello che ricevo sono delle schermate e non un volume con un peso.

Altro problema:

Il contenuto a pagamento dev’essere protetto

Il contenuto libero non rischia di essere oggetto di pirateria

Se il mercato dei prodotti culturali si squilibra in direzione dei contenuti elettronici deve fare i conti, letteralmente, con il fatto che nel mondo elettronico il contenuto gratuito non ha concorrenti. Quindi i contenuti diventano gratuiti o scompaiono. Quindi scompare il contenuto a pagamento. Con lui si inabissano l'editore, l'agente e l'autore che vive di royalties. Del resto, la figura dell'autore che vive dei suoi diritti è cosa recente e non abbiamo motivo di pensare che sia un'istituzione sempiterna. Questo scenario può attrarne altri. Per ovviare alla scomparsa del commercio culturale, si potrebbe impedire la pubblicazione di contenuto gratuito comprando tutti i provider; imporre monopolisticamente cento libri all'acquisto di un computer come oggi si impone un certo software.

Il copyright? Continuerà ad esistere in una versione più "leggera", perché un autore può essere contento che la gente legga gratis il suo libro, ma non che qualcuno ci guadagni a sue spese. (Questa visione degli autori può sembrare ottimista, ma l’alternativa sarebbe che tutti pensano di essere Stephen King e di poter guadagnare una montagna di dollari con i loro libri, ma ciò è completamente irrealistico.)

Di nuovo, il web rende esplicita la natura dei contenuti culturali. Sul web i contenuti diventano quello che sono, entità astratte, difficili da inquadrare nel diritto di copia.

SCENARIO: la morte dell’autore? Potremmo distinguere tra l’autore prima dell’epoca delle royalties, durante, e dopo. La ragione per cui si pagano le canzoni e i libri è contingente, ed è certo legata a un momento storico molto preciso. Finora gli autori avevano bisogno di un intermediario per arrivare al pubblico. Questo bisogno tende inevitabilmente a scomparire. Un largo pubblico pagante esiste da poco tempo. Questo pubblico si troverà sempre di più di fronte a un’offerta sterminata di contenuti culturali gratuiti e avrà sempre meno voglia di pagare quelli paganti. Senza il diritto di copia, la vita dell’autore professionista sarà appesa al filo della solidarietà del lettore, che gli verserà un obolo - come a un aedo - per ringraziarlo di mantenere in vita l’arte della parola. Senza quest’obolo, lo scrittore professionista diventerà una figura socialmente marginale, e il Diciannovesimo e il Ventesimo secolo verranno ricordati nella storia culturale dell’umanità come i Secoli dell’Autore. Per duecento anni l’umanità avrà potuto permettersi - dietro il compenso, o grazie al miraggio, di royalties sontugse - il lusso di schiere di autori che hanno dedicato la loro vita a scrivere opere magnifiche, con rari eguali nei millenni precedenti e in quelli successivi. La fortunata (per gli autori e gli editori) associazione tra contenuto e supporto a lenta riproducibilità è stata una contingenza storica, non una necessità legata alla natura dei contenuti.

Un’etica del lettore

Voglio passare adesso al lettore e raccontare una storia con un elemento politico per mostrare quanto il vecchio modo di concepire i libri debba essere rivisitato alla luce di una riflessione profonda sui contenuti culturali.

Nel 2000 trecento scrittori francofoni hanno firmato una petizione indirizzata da alcune società e corporazioni editoriali al ministro francese della cultura. I firmatari sono grossi calibri: Bernard-Henry Levy, Tahar Ben Jelloun, André Compte-Sponville, Jean Ziegler... Grandi firme per una causa curiosa: bersagliare le biblioteche pubbliche. Le biblioteche agirebbero da pirati dando in lettura gratuita i libri ai lettori. Pirati, perché il lettore che prende in prestito un libro in biblioteca non lo compra e quindi lo legge a sbafo, senza ricompensare l’autore per il suo lavoro e l’editore per il rischio commerciale. Secondo la petizione lo stato dovrebbe darsi da fare e trovare il modo di far versare un compenso agli autori e ai loro editori ogni volta che un libro s’invola dalle mura della biblioteca.

Le cifre sembrano parlare chiaro. Negli ultimi tempi, trecento milioni di copie all’anno vengono acquistate in libreria in Francia; centocinquanta milioni vengono prese in prestito in biblioteca. Dividendo per i sei milioni e mezzo di iscritti alle biblioteche pubbliche si ha una media di ventitré libri all’anno per utilizzatore (uno ogni due settimane). Si chiedano allora trentamila lire (cento franchi) annui a ciascun utilizzatore, e si dividano i circa duecento miliardi di ricavo dando un 30 per cento agli autori e il rimanente agli editori.

È un ragionamento cui si possono opporre e di fatto sono state opposte varie obiezioni. I dati citati sono grossolani: quanti dei 150 milioni di libri prestati generano diritti d’autore? Gli autori non perderebbero meno soldi se gli editori liquidassero i loro diritti con resoconti mensili e non annuali? Come fare a tener conto di tutti i movimenti di un libro in biblioteca? Per semplificare un’esazione tecnicamente difficile si è proposto di rimunerare indiscriminatamente tutti gli autori i cui libri si trovano sugli scaffali delle biblioteche, senza tener conto del numero di prestiti. Questo sembra inficiare uno degli argomenti di fondo della lettera. Perché mai un autore che nessuno legge deve ricevere altrettanto di uno il cui libro viene preso in prestito da molti? L’ingiustizia nei confronti del secondo non è sanata, e non si capisce quale giustizia sia resa al primo. E si dimentica che avere a disposizione una biblioteca significa riequilibrare un’altra fondamentale ingiustizia di cui è vittima il lettore-cliente. Perché mai si dovrebbero comprare i libri a scatola chiusa? La biblioteca ci dà la sola possibilità di leggere un libro, trovarlo insoddisfacente, e restituirlo senza costi.

Ma al di là degli aspetti economici c'è un problema morale che dovrebbe essere discusso. I destinatari morali della lettera dei Trecento non sono le biblioteche o i ministri della cultura, ma i lettori. Siamo di fronte alla rottura unilaterale di un sottile, quasi invisibile patto di fiducia che lega autori e lettori nella repubblica delle lettere. Di fatto tutti i lettori vengono criminalizzati per il semplice fatto di entrare in una biblioteca. E non c’è prestito che alla lunga non possa venir considerato criminale – anche il libro passato a un amico è in fondo in infrazione.

Se giudico legalmente perseguibili coloro che scaricano gratuitamente dal web il mio brano di musica, a questo punto, se fossi coerente, dovrei chiamare la polizia ogni volta che qualcuno fa ascoltare quel brano agli amici, o quando due persone si scambiano un cd (senza copiarlo). Ma ciò è assurdo. Naturalmente sarebbe inaccettabile che una casa discografica pirata facesse dei profitti su contenuti senza aver chiesto l’autorizzazione all’autore. Ma bisogna fare una grossa differenza tra contenuti pirata, contenuti scambiati e contenuti gratuiti, e bisogna fare attenzione che nella regolamentazione il tentativo di colpire i contenuti pirata non nuoccia anche gli altri due.

Quando si rompono i patti sociali i comportamenti si fanno incerti. Alcuni autori hanno chiesto alle biblioteche di segnalare chiaramente che i loro libri sono esclusi dal prestito. Non riesco a immaginare nulla di più strano per un autore – un bollino rosso che dice al lettore: non leggermi.

In conclusione: il libro liberato e la sua natura duale

Il web ci permette di capire che cosa sono i contenuti, li ha liberati economicamente e metafisicamente. Rende espliciti i loro criteri di identità proprio per le particolari caratteristiche della circolazione e della vendita dei contenuti in forma elettronica. Tutti i contenuti, non solo quelli che si trovano sul web, perché la trasmissibilità è l’elemento più profondo della natura dei contenuti.

La zona grigia è molto ampia e bisogna stabilire norme molto strette sulla concorrenza, che evitino le concentrazioni di providers: bisogna impedire che un grosso editore compri molti providers recuperando tutte le pagine web dei loro clienti e imponendo loro di non pubblicare contenuti gratuiti. Questo sarebbe un attentato al diritto all’espressione libera. Internet permette all’utente di dirigersi direttamente ai contenuti che lo interessano; si potrebbe pensare che vi sia il rischio di creare una «cultura on demand», ma è un rischio minimo di fronte all’immensa quantità di dati cui è possibile accedere. L’autonomia dell’utente è un mezzo per sottrarsi al filtraggio dell’informazione, che in teoria dovrebbe migliorare la qualità della nostra conoscenza ma che in realtà è la difesa retrograda di una casta di intellettuali, che cercano di imporsi come l’unico accesso possibile alla conoscenza.

In questo testo ho sostenuto che non si porrà il problema della trasformazione del libro, perché i due attrattori concettuali costituiti dal libro fisico e dal libro immateriale (approssimato dalla sua evanescente incarnazione digitale) possono perfettamente convivere in un prodotto duale. Pagheremo gli aspetti fisici del libro, e faremo circolare liberamente gli aspetti immateriali. Se si pensa che la condizione di sopravvivenza di un contenuto a pagamento sia che questo si trovi in un’area protetta dalla libera circolazione di fuori del web, protetto da bollini rossi e leggi contro la riproduzione, si farà un passo nella direzione della scomparsa del mediatore culturale.

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Note sulla pagina

Autore: Roberto Casati
Numero battute: 39843
Data pubblicazione FdA: 22 marzo 2011

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