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Introduzione alla bioetica

Il termine “bioetica”, composto dalle due parole greche bios (vita) ed ethos (morale) è stato coniato dal cancerologo statunitense V. R. Potter che, di fatto, lo ha utilizzato per la prima volta in due suoi articoli del 1970 e in una famosa opera del 1971. Con tale termine Potter alludeva al tentativo di coniugare le scienze della vita con un’etica della vita in grado di fungere da “scienza della sopravvivenza” → Accezione ampia di “bioetica”, concepita come scienza globale: dovrebbe comprendere anche questioni ambientali e sociali.

Tuttavia in seguito il termine venne prevalentemente utilizzato nell’accezione di W. T. Reich, desunta dal fisiologo A. Hellegers (fondatore del Kennedy Institute of Ethics), che definì la bioetica come “lo studio sistematico della condotta umana nell’ambito delle scienze della vita e della cura della salute, in quanto tale condotta sia esaminata alla luce di valori e principi morali” → Accezione più ristretta di “bioetica”: sezione dell’etica applicata dedita allo studio delle questioni derivanti dalla ricerca biomedica e sanitaria.

Il termine venne poi importato in Europa ed ha trovato buona accoglienza anche in Italia.

Esistono notevoli divergenze circa la natura, gli ambiti applicativi, le finalità e le origini della disciplina, circostanza che ne rende problematica una definizione univoca:

- secondo alcuni si tratta di una scienza, per altri di una generica “branca” del sapere;

- secondo alcuni è una disciplina autonoma mentre per altri, come si è visto, è da intendersi come “ramo” dell’etica tradizionale;

- alcuni prospettano i compiti della bioetica in termini di “barriera” o di “frontiera” etica, cioè come attività volta a porre limiti invalicabili allo sviluppo tecnico-scientifico; altri invece la interpretano come una libera e spregiudicata discussione critica intorno alle nuove chance offerte dalle attuali competenze biotecnologiche;

- alcuni privilegiano l’appello ai principi (i fautori del “principilismo”), altri l’appello ai casi concreti (i fautori della “casistica”);

- secondo alcuni sarebbe nata in seguito alla svolta storica rappresentata dal processo di Norimberga e dalla scoperta dei crimini nazisti, che portarono alla “Dichiarazione dei diritti dell’uomo” (1948); a parere di altri, sarebbe invece nata a seguito della cesura culturale degli anni ’60 e ’70, cioè in un contesto in cui la democratizzazione della società, la parallela rivoluzione biologica e l’avvento di situazioni di grave conflitto etico avrebbero modificato il sentire morale comune, ingenerando una richiesta di legittimazione filosofica del “nuovo sentire”.

Meno controversa è la tesi dell’intrinseca interdisciplinarietà della bioetica, la quale implica un intreccio combinato e dialogico di competenze specifiche, coinvolgenti settori disparati del sapere (biologia, medicina, diritto, economia, psicologia, sociologia, ecc.).

Particolarmente stretto è il legame con la filosofia, dovuto alla natura etica dei problemi trattati e al carattere esistenziale dei suoi dilemmi. La bioetica rappresenta infatti una delle maggiori incarnazioni dello spirito filosofico, cioè di un atteggiamento mentale che, invece di limitarsi a ciò che è legalmente o tecnicamente possibile, si interroga su ciò che è moralmente auspicabile, cioè su quel “dover essere” o “dover fare” che costituisce il tratto specifico dell’etica filosofica. Merito della filosofia è aver dato alla bioetica una dimensione più ampia, come fenomeno culturale diffuso; da parte sua la bioetica si configura come “banco di prova” per le teorie e le categorie filosofiche, inducendo inoltre i filosofi ad interrogarsi nuovamente riguardo ad alcuni concetti fondamentali (persona, vita, morte, ecc.).

Se è vero che esistono tante bioetiche quanti sono i modelli etici di riferimento[1], è altrettanto vero che si possono individuare due grandi modelli teorici contrastanti che fungono da paradigmi:

1) la bioetica cattolica della sacralità della vita

2) la bioetica laica della qualità della vita

Le differenze tra questi due paradigmi emergono soprattutto nella cosiddetta “bioetica di frontiera”, ossia in presenza di quei casi che danno luogo ad inestricabili dilemmi e mettono a dura prova le convinzioni di pazienti, medici e parenti (esempio: caso di Anthony Bland)

I problemi di bioetica (strettamente correlati alle questioni aperte dalle tecnoscienze) implicano una messa in discussione della validità degli stessi principi etici in base ai quali l’azione dovrebbe essere guidata: ciò significa che in campo bioetico il riferimento ai presupposti ultimi del proprio operare e alla propria concezione dell’uomo e del mondo non può essere eluso.

Analizziamo nel dettaglio le principali differenze tra i due modelli teorici citati:

1) Per bioetica cattolica s’intende la specifica forma di bioetica e di biofilosofia professata dalla Chiesa di Roma e dagli intellettuali che ne condividono le posizioni: si tratta di una bioetica fondata sul principio della sacralità della vita e può anche essere definita una bioetica di indirizzo personalista (tomista) - ontologico (basato cioè su una determinata metafisica, che pone l’accento sul valore fondante dell’essere). Tale paradigma fa appello, oltre a principi scritturali e dogmatici, a concezioni razionali filosoficamente fondate.[2]

Il paradigma della sacralità della vita si fonda su tre principi interconnessi:

* creaturalità: la vita è dono di Dio ed è questa sua origine a conferirle un intrinseco valore (la vita umana è sacra in quanto relazionata ad un Essere creante da cui proviene e che ne è fine ultimo);

* non disponibilità: la vita propria e altrui, come dono e possesso del Creatore, è per principio sottratta alle scelte individuali, ovvero alla capacità umana di disporne a piacimento;

* inviolabilità: per lo stesso motivo di cui sopra, ogni vita innocente (non nocens) è inviolabile, cioè ha il diritto di essere preservata (accolta e rispettata) e di non essere menomata o oppressa.

La convinzione che l’uomo possieda una natura ontologica predata (già progettata e per lui non disponibile) si connette alla concezione in base alla quale l’ordine naturale del creato e la legge morale naturale[3] in esso contenuta siano riflesso e iscrizione della legge eterna divina. Ne consegue la norma in base alla quale ogni atto non conforme alla finalità intrinseca che per propria natura possiede o che contrasta con i fini naturali di un altro atto (es. la contraccezione in rapporto all’unione sessuale) risulta essere immorale poiché contrario alla legge divina.

I fini naturali cui tende ogni corpo sono l’autoconservazione e la riproduzione della specie; per cui ogni operazione medica o tecnico-scientifica che ostacola il raggiungimento di tali fini (intervento contro natura, come l’aborto o l’eutanasia) o ne manipola il corso naturale (intervento innaturale, come la fecondazione in vitro) è da considerarsi illecita.

La teoria cattolica della sacralità della vita assume quindi la forma di un deontologismo rigoroso, incentrato sulla nozione di divieti autoevidenti e dal valore assoluto; il non ottemperare a questi divieti è ritenuto immorale, a prescindere da considerazioni intenzionali, teleologiche o storico-circostanziali[4] (la soddisfazione di esigenze umane è sempre subordinata al rispetto del finalismo bio–metafisico). Il deontologismo cattolico trova corrispondenza anche in ambito politico– giuridico: una legge positiva (dello Stato) non conforme alla legge naturale non è legge, ma corruzione della legge e pertanto chi la approva o ne fruisce compie un atto immorale.

Precisazioni sulla bioetica cattolica:

∙ per “vita” s’intende sempre e soltanto la vita umana, ossia la vita della persona in quanto forma concreta in cui la vita esiste nell’uomo (“L’uomo non è intangibile per il fatto che vive […] La vita dell’uomo rimane inviolabile perché egli è una persona”). Per la bioetica cattolica, dunque, non esiste una distinzione tra “vita” e “persona”, poiché per l’uomo vivere ed esistere come persona sono la stessa cosa;

∙ la posizione cattolica non va confusa con una forma di vitalismo che esalta incondizionatamente l’esistenza fisica della persona; esistono eccezioni legittime al principio dell’inviolabilità come la legittima difesa e il suicidio di testimonianza dei martiri. La vita corporea non esaurisce infatti la dimensione dell’uomo e non è pertanto un bonum absolutum[5]: essa può essere abbandonata per amore del prossimo o per testimoniare la verità;

∙ il pensiero cattolico tende a concepire la propria bioetica in termini di coscienza critica dello sviluppo scientifico, protesa alla tutela della persona nella sua olistica complessità;

∙ la bioetica cattolica non esclude dalla propria visione il concetto di qualità della vita; la qualità del vivere deve essere certamente fatta oggetto di attenzione, ma non si configura mai come il primo valore da salvaguardare ed implica il rispetto del finalismo ontologico–naturale (il piano divino del mondo, che si riflette nell’ordine naturale del creato).

Dalle precedenti considerazioni si ricavano i due assunti fondamentali su cui la posizione cattolica si fonda in ambito bioetico:

· Il dover essere è inscritto nell’essere.[6]

· L’assiologia è precontenuta nell’ontologia.[7]

Per la dottrina della Chiesa dalla rinuncia a questi principi conseguono da un lato la relativizzazione dell’etica della vita e la sua riduzione a materia convenzionale, dall’altro il mancato riconoscimento dell’impronta creatrice e provvidenziale di Dio inscritta nell’ordine naturale.

Ricordiamo che la bioetica cattolica ufficiale è solo una tra le molteplici bioetiche di matrice religiosa. Tra le altre ricordiamo in particolare la bioetica cristiana riformata. Essa, a differenza di quella cattolica, insiste sulla negazione della possibilità di dimostrare per via razionale l’esistenza di Dio e di cogliere nell’ordine naturale una legge morale universale. Da ciò, in sintonia su questo punto con la bioetica laica, conclude che, al fine di produrre soluzioni etiche adeguate alla convivenza civile di una società pluralista, sia necessario ragionare etsi Deus non daretur (si veda sotto).

2) Prima di procedere alla definizione della bioetica laica, occorre una precisazione del campo semantico del termine “laicità”. Di “laicità” si danno due accezioni:

- in un’accezione debole il termine indica un atteggiamento critico e antidogmatico (basato sul rifiuto del principio d’autorità e che prescinde da richiami a considerazioni di fede), che si ispira ai concetti di pluralismo e di autonomia reciproca tra le attività umane; in questo senso la laicità ha una valenza metodologica, costituendo la condizione di possibilità di un confronto non autoritario tra le culture;

- in un’accezione forte (che presuppone quella debole) la laicità indica la dottrina di coloro che ragionano indipendentemente dall’ipotesi di Dio (etsi Deus non daretur, “come se Dio non fosse”) e da ogni fede o metafisica di matrice religiosa[8].

Nel parlare di bioetica laica, si adotterà la seconda accezione del termine: “laici” saranno coloro che non solo rifiutano di ricorrere ad alcun magistero che non sia quello della retta ragione, ma che soprattutto rigettano, nelle loro argomentazioni, l’uso dell’idea di Dio (della sua possibile esistenza, del suo possibile progetto sulla vita, nonché della sua conoscibilità per mezzo di una metafisica razionale).

La bioetica laica si fonda sul principio della qualità della vita: non è la vita in quanto tale o in quanto espressione di una volontà divina ad avere pregio, ma è la sua qualità ad averne (Non enim vivere bonum est, sed bene vivere, scrive Seneca).

Nel panorama della bioetica laica esistono paradigmi etico-filosofici di riferimento molto diversi; nonostante ciò è possibile rintracciare un insieme di punti condivisi che, pur a un livello altamente astratto, accomuna le molteplici e variegate bioetiche laiche:

a) umanità della morale: l’uomo (e non Dio né la legge naturale) è il principio e la fonte della moralità, cioè l’autore di ogni possibile mappa dei valori (i quali risultano quindi scelti e modificabili)

b) rifiuto del concetto ontologico-normativo di natura: la natura è un prodotto culturale e storico- convenzionale che non ha alcuna autonomia ontologica e da cui non è lecito ricavare indicazioni etiche assolute

c) principio di autonomia: poiché non esiste una natura umana metafisicamente data, ma essa stessa è un prodotto culturale derivato da scelte umane, ogni scelta individuale autonoma deve essere rispettata e posta al riparo da interferenze o limitazioni esterne

d) disponibilità della vita: gli individui dispongono liberamente e totalmente della propria vita in quanto ne sono gli esclusivi sovrani: ciascuno di essi pertanto, qualora lo ritenga opportuno, può scegliere di “manipolare” la propria attuale natura e costruirsene una nuova, in base alle possibilità che la tecnologia offre

e) conoscenza come strumento di progresso: la conoscenza scientifica è alla base di un progresso (non garantito) che può offrire soluzioni alle sofferenze umane

f) non accettazione del soffrire: contro ogni forma di sublimazione teologica o di legittimazione pedagogica della sofferenza, si afferma l’insignificanza morale del dolore e la sua totale inaccettabilità

g) diverso valore qualitativo delle vite: non tutte le vite hanno il medesimo valore, in quanto le caratteristiche proprie di ciascuna vita e il contesto in cui ognuna di esse si svolge determinano variazioni qualitative che producono esistenze tra loro differenti nel valore

h) opzione pluralistica e antiassolutistica: ovvero il riconoscimento preliminare di diversi modi di vivere (dato di fatto) e la programmatica accettazione della molteplicità delle etiche e delle bioetiche (rifiuto di ogni etica deontologica che ponga divieti assoluti)

i) concetto funzionalista di persona: la persona non è definita in base ad un presunto sostrato ontologico che ne costituisce l’essenza immutabile, ma in relazione alla presenza di determinate funzioni o caratteristiche in grado di agire da “indicatori di personalità”.

Riguardo quest’ultimo punto, significative sono le posizioni di due bioeticisti del panorama laico:

*Peter Singer: sostiene che la dottrina della sacralità della vita sia avviata ad una irreversibile crisi, mostrandosi all’atto pratico fragile e inapplicabile. Secondo Singer di fronte a situazioni umanamente inaccettabili (come nel caso di soggetti in stato vegetativo persistente) si profilano tre possibilità:

a) ci si attiene rigorosamente alla teoria tradizionale, lasciando soffrire persone senza alcuna speranza di guarigione

b) si ricorre a scappatoie teoriche ed etiche[9] che servono a camuffare un giudizio sulla qualità della vita

c) si abbandona l’idea che la vita sia sempre e comunque un valore da difendere e si conclude che in taluni casi sia lecito sopprimere la vita di un essere umano innocente allo scopo di porre fine ai suoi patimenti o a quelli altrui.

Infatti per Singer si definisce persona, cioè soggetto meritevole di tutela e portatore di diritti, non colui che semplicemente appartiene alla specie umana, ma chi possiede determinate caratteristiche che lo rendono in grado di manifestare determinati interessi. Da questo punto di vista è possibile distinguere tra:

1. esseri autocoscienti (umani adulti capaci di intendere e di volere, ma anche animali non umani adulti che presentano un certo grado di razionalità e autocoscienza come gorilla e scimpanzè) per i quali vale il principio del rispetto dell’autonomia;

2. esseri coscienti (tutti gli altri animali non umani adulti, i feti sviluppati, i neonati e gli umani affetti da disabilità o patologie mentali) in rapporto ai quali si pone il problema della massimizzazione del piacere e della minimizzazione delle sofferenze;

3. esseri non coscienti (embrioni, feti non ancora sviluppati, neonati anancefalici, individui in stato vegetativo persistente, piante …) di fronte ai quali non si pongono problemi morali, in quanto la discriminante minima perché un individuo sia degno di considerazione etica è la sensibilità al dolore.

In base a questa classificazione per Singer risulta moralmente lecita non solo la soppressione di un embrione, ma anche quella di un neonato che presenti gravi patologie.

*H. T. Engelhardt: riguardo al concetto di persona, egli si attesta su una posizione di personalismo funzionalista analoga a quella di Singer: sono le persone e non gli esseri umani ad essere moralmente rilevanti; ma è persona solo quell’animale (non necessariamente umano) che è razionalmente consapevole e che ha interesse a meritare la lode e a evitare il biasimo. Il bioeticista americano è anche un esempio di pensatore che, pur muovendo da una matrice religiosa, giunge a posizioni laiche in campo bioetico: egli infatti crede in Dio e rifiuta l’eutanasia e l’aborto come forme di omicidio ma, constatando che 1. non tutti credono in Dio; 2. gli stessi credenti concepiscono Dio in modi diversi; 3. non esiste una metafisica universalmente accreditata, ritiene che una bioetica laica (in senso debole) operante nel contesto di un’etica pubblica debba, al fine di garantire il pluralismo dei valori, ragionare indipendentemente da qualsiasi ipotesi su Dio. Da ciò il suo appoggio a una forma di ateismo procedurale come base di un diritto pubblico che garantisca ad ogni individuo l’esercizio della propria autonomia (posizione laica in senso forte).

La bioetica laica è stata soggetta a varie accuse, in particolare a quelle di relativismo e di individualismo; a tali accuse i laici rispondono facendo appello a vari argomenti:

a) respingendo l’identificazione della libertà con l’arbitrio individuale;

b) chiarendo come il principio d’autonomia sia esso stesso limitato (sebbene i suoi limiti vadano continuamente ridefiniti) in quanto implica la responsabilità verso se stessi e gli altri;

c) distinguendo tra un relativismo etico descrittivo, che si limita a constatare la presenza, nelle società passate e presenti, di prospettive morali e assiologiche diverse, e un relativismo etico normativo, il quale afferma: 1. che non vi è una morale universalmente valida; 2. che ogni tesi morale vale soltanto entro il contesto storico–culturale nella quale è formulata ed è pertanto incommensurabile rispetto a tesi nate in altri contesti; 3. che tutti i comportamenti sono equivalenti sul piano etico.

In generale i fautori della bioetica laica accettano il relativismo descrittivo, ma rifiutano quello normativo. Molti di essi ritengono che l’esigenza di universalità faccia parte dell’essenza stessa dell’etica e che quindi un giudizio morale o è universalizzabile o non è morale. L’universalità dei giudizi etici non implica tuttavia la loro assolutezza metastorica: “è giusto cambiare la gerarchia dei valori e dei doveri morali quando mutano le circostanze storiche cambiando le conseguenze delle azioni”. (M. Mori). Ad essere negata non è dunque l’universalità dei giudizi morali, quanto la loro assolutizzazione metafisica.

Inoltre i laici respingono l’accusa di individualismo, sostenendo che l’individuo di cui auspicano l’autonomia decisionale non è un soggetto astratto, ma un soggetto relazionale che non può fare a meno di interrogarsi sulle conseguenze sociali del proprio agire.

Infine, per molti bioeticisti laici non è accettabile l’accusa in base alla quale per loro ogni valore o comportamento sarebbe eticamente equivalente ad ogni altro; esistono infatti dei valori “forti” che, lungi dall’essere normativamente indifferenti, sono preferibili rispetto ad altri e fungono da criteri di condotta intersoggettivamente controllabili (libertà della ricerca, equità, autonomia, qualità della vita).

Esistono anche bioetiche di matrice laica che, riconoscendo la validità del principio religioso della sacralità della vita, ne tentano un recupero in chiave secolare. In generale queste concezioni bioetiche considerano sacra la vita, non in quanto manifestazione di un creatore trascendente, ma semplicemente in quanto vita[10]: in questo senso la nozione di sacralità sarebbe più originaria rispetto a quella di Dio.

Tra i principali tentativi di offrire una lettura secolare della dottrina della sacralità della vita ricordiamo quelli di:

· Alan Donagan: lo studioso australiano ha cercato di fondare la nozione di inviolabilità della vita umana prescindendo da ogni riferimento teologico–teistico e ricollegandosi all’etica kantiana del dovere. Partendo dall’imperativo categorico kantiano che prescrive di trattare l’umanità sempre come fine e mai soltanto come mezzo, egli arriva a scorgere nella formula del rispetto (“non è concesso non rispettare ogni essere umano, te stesso e gli altri, come creatura razionale”) il principio base della moralità. Da questo principio discende l’idea della vita personale come bene oggettivo al quale l’individuo risulta vincolato in modo assoluto e di cui non può quindi disporre a proprio arbitrio[11].

· James Rachels: il bioeticista statunitense introduce la distinzione tra vita biologica (zoe) e vita biografica (bios) e propone così una nuova e non religiosa interpretazione della sacralità della vita che tenga conto non solo del suo lato biologico, ma anche di quello biografico, legato alle preferenze e ai fini individuali. Egli arriva in tal modo a legittimare l’eutanasia, la quale, in alcune circostanze, non può essere considerata distruzione della vita nel senso propriamente biografico del termine.

  • Ronald Dworkin: il pensatore americano sottolinea come esistano cose dal valore intrinseco, tra le quali va annoverata la vita, che come tale acquista un carattere di inviolabilità. La vita rappresenta per lui un tipico esempio del sacro, cioè di una realtà di fronte alla cui distruzione proviamo orrore e sdegno. L’inviolabilità della vita deve costituire, secondo Dworkin, una sorta di valore condiviso, comune alle diverse etiche e indipendente dai differenti orientamenti filosofici.

Si è dunque visto come la dicotomia bioetica laica della qualità della vita / bioetica cattolica della sacralità della vita non vada né interpretata in modo semplicistico né d’altro canto considerata una contrapposizione fittizia o polemica, dal momento che a suo fondamento stanno opposti e (ad oggi) irriducibili paradigmi etici. Si è anche precisato come la bioetica laica non si contrapponga genericamente e di necessità alla bioetica religiosa, ma solo a determinate forme di essa (tra cui quella cattolica). Tale contrapposizione (così come quella tra sacralità / qualità della vita) è un caso particolare della più ampia dicotomia tra:

1) paradigma della disponibilità della vita: il soggetto morale può disporre della propria vita e ha il diritto esclusivo di decidere in merito alle questioni ultime che lo riguardano.

2) paradigma della non disponibilità della vita: la vita non si configura come un bene alla mercè dei viventi; essa è sottratta alle scelte individuali in quanto oggetto di una superiore volontà divina.

I due paradigmi si presentano allora come opzioni preliminari che condizionano le rispettive strategie argomentative tese a impostare e risolvere problemi specifici di bioetica.

Esempio: problematica del suicidio (ma lo stesso vale per l’eutanasia attiva volontaria):

- non disponibilità della vita → condanna del suicidio:

* Tommaso:

a) l’uccisione di sé è contro la tendenza naturale all’autoconservazione e contraria alla carità con cui l’essere umano deve amare se stesso;

b) l’uomo è parte della società; dunque il suicida compie un danno contro di essa;

c) poiché Dio è autore della vita e della morte, l’uomo non ha il diritto di disporre della propria vita, ma solo di usarla.

* Kant:

a) l’uomo è fine in sé e non può mai essere usato come mezzo: il suicida invece utilizza la propria persona come mezzo per sfuggire ad una situazione penosa;

b) la massima che induce al suicidio non può portare ad un’azione morale, poiché non può essere assunta a legge universale della natura: se così fosse il medesimo principio che spinge alla conservazione di sé, l’amor proprio, giustificherebbe contemporaneamente la propria distruzione.

- disponibilità della vita → ammissione del suicidio (accolta anche da talune bioetiche di matrice religiosa)

* Seneca: il suicidio è la massima espressione della libertà concessa all’uomo, il quale può privarsi della vita nel momento in cui abbia perso la libertà esteriore o la dignità.

* Thomas More: nella sua costruzione utopica immagina che quando le malattie prospettano a qualcuno un destino di sofferenza prolungata, i sacerdoti ed i magistrati hanno il compito di esortarlo a “non porsi in capo di prolungare ancora quella peste funesta e […] non esitare a morire”.

* Hume: autore del più famoso testo moderno sulla morte volontaria, argomenta che quando la vecchiaia, la malattia o la disgrazia rendono la vita un peso insostenibile, il suicidio non danneggia gli altri e si accorda con l’interesse e il dovere dell’uomo verso la propria persona.

* Nietzsche: ritiene che l’uomo veramente uomo sappia morire “al momento giusto” e nell’aforisma 80 di Umano, troppo umano annota: “Perché dovrebbe essere più lodevole per un uomo invecchiato, che sente il declino delle proprie forze, attendere la propria lenta consumazione e il disfacimento, che non porre termine in piena coscienza alla propria vita?”

In conclusione, se una mediazione teorica tra la bioetica laica e quella cattolica appare possibile quanto ad alcuni principi[12], questa resta fondamentalmente impossibile se riferita alle posizioni di fondo. In effetti la bioetica cattolica, pur accogliendo il principio della qualità della vita, non si spinge a ridimensionare quello della sacralità della vita stessa, laddove con “ridimensionare” s’intenda rendere tale principio suscettibile di eccezioni sulla base di considerazioni concernenti la qualità della vita.

Mediazioni di parte cattolica che tentano di conciliare il riconoscimento della signoria di Dio con l’affermazione del potere, da parte dell’uomo, di disporre della propria vita (vedi sopra la tesi di Küng) si avvicinano ai principi della bioetica laica, ma paiono inconciliabili con quanto sostenuto dal Magistero della Chiesa. Eccone le ragioni:

1) è vero che l’uomo, in virtù del libero arbitrio, è soggetto del proprio essere, ma non lo è illimitatamente, né può disporre a piacimento della propria vita: ciò contrasterebbe con la sua natura creaturale e la sua costitutiva dipendenza da Dio;

2) come l’uomo non crea l’essere, così non “inventa” la verità (di se stesso e del mondo), ma la “riconosce”: la verità è l’adeguarsi dell’intelletto alla cosa e, in ambito etico, il libero e razionale conformarsi dell’uomo ai progetti divini impressi nel suo essere e nell’essere delle cose. Non è in definitiva la libertà che fonda la verità, bensì è la verità a fondare la libertà (libertà che consiste nel conformarsi alla verità);

3) ne consegue evidentemente che bene e male non sono valori stabiliti dall’uomo, ma sono già dati e posti da Dio nell’ordine del creato.



[1] Paradigmi antropologici ed etici diversi tendono a generare bioetiche (e conseguenze normative) diverse.

[2] La generica denominazione “bioetica cattolica” è insufficiente a designare la specifica bioetica della Chiesa romana, perché non tiene conto del fatto che all’interno del mondo cattolico esistono orientamenti bioetici diversi, alcuni dei quali non conformi alle posizioni ufficiali della Chiesa.

[3] Legge morale che spetta al Magistero della Chiesa interpretare.

[4] Considerazioni che alcuni teologi contemporanei tengono presenti, arrivando a negare la possibilità di formulare norme etiche assolute di carattere contenutistico riferite a beni contingenti.

[5] La sacralità della vita corporea della persona non dipende dal suo essere valore supremo in sé, ma dal suo essere relazionata ad un Dio d’amore che ne è creatore.

[6] Rilevante, a mio avviso, è a questo proposito il chiarimento intorno allo statuto dei diritti universali dell’uomo: questi non possono essere spiegati in termini di mere opinioni universalmente diffuse e accettate, come fossero diritti scelti dalla soggettività individuale o collettiva; si tratta invece, per la Chiesa, di diritti che discendono direttamente dalla verità della natura umana.

[7] La natura è al tempo principio onto–biologico ed etico–assiologico.

[8] La distinzione tra laicità in senso “debole” e laicità in senso “forte” non coincide in pieno con la distinzione tra laicità come “metodo” e laicità come “contenuto”; la laicità in senso “forte” contiene infatti indicazioni anche procedurali, come la stessa ipotesi di “pensare senza Dio” suggerisce.

[9] Tra le quali Singer annovera la distinzione tra mezzi di cura ordinari e straordinari.

[10] Scrive a tal proposito Shils: “L’idea di sacralità è generata dall’esperienza primordiale dell’essere vivi […]”.

[11] Ciò non toglie che per Donagan sia il suicidio che l’aborto siano moralmente leciti.

[12] Tra questi ad esempio quello di equità, che prevede che ogni individuo possa accedere a cura mediche del più alto livello possibile, tenuto conto delle risorse a disposizione; ma anche il principio che assegna alla pratica medica il compito di garantire agli individui il maggior grado possibile di qualità della vita (ricorrendo alla medicina palliativa) e non solo la sua maggior durata.

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