Il 20 giugno del 1995 il prof. Massimo Roncoroni, mentre stava andando in bicicletta in una località dell'alto Varesotto, venneinvestito da un furgoncino rimanendo gravemente ferito. Trasportato d'urgenza in ospedale, vi rimase in coma per quaranta giorni prima di risvegliarsi. Da questa terribile esperienza Roncoroni ha scelto di dare testimonianza, a distanza di anni, col testo che qui volentieri pubblichiamo.
E' come se avessi sempre abitato al quarto piano di un palazzo, quello della realtà, e avessi tentato costantemente, per non essere superficiale, ma per andare al vero midollo delle cose, di scendere in cantina, nel profondo del midollo dell'essere.
Poi, un giorno qualsiasi di giugno sono improvvisamente precipitato là dove avevo sempre tentato di arrivare.
Da allora, stranissima mi sembra la vita e la sua sostanza (il sentimento della vita mi è totalmente mutato, con esso i suoi orizzonti): un incrocio tra la sensibilità narrativa di Franz Kafka, il praghese, quella del milanese, almeno d'adozione, Dino Buzzati, del comico Marchesi, il signore di mezz'età e il senso tragicomico della vita.
Tutto mi sembra, a questo punto, possibile, tra assurdo e mistero: strane combinazioni, a volte, è il mio caso, forse positivamente coincidenti, squallida banalità quotidiana, pure straordinariamente ricca, per me, di incontri o re-incontri significativi con persone in carne e ossa.
Mi pare, tuttavia, d'esser tornato al mondo in un paese strano e lontano.
Il tutto inizia, ma qui è come se raccontassi cose da me, almeno in una prima fase, mai vissute, quasi Iliade e Odissea della mia vita, in quanto del tutto dimenticate e non ancora rivissute dalla memoria, alle 18.35 di martedì 20 giugno 1995.
Era la sera del giorno immediatamente precedente quello della “maturità”; il giorno prima avevo visto per l'ultima volta i miei studenti, per ripassare con loro filosofia; avevo visto trafelato Francesco T. nell'affannosa ricerca di una sede d'esame, che avrebbe potuto essere Luino, e poi, dopo pranzo – ma qui i ricordi iniziano a sfumare – ero venuto a Induno con Fabrizio D. V., che doveva ultimare la tesina su Popper che intendevo rivedere, come avevo fatto con quasi tutti gli altri, il sabato precedente.
Poiché erano persone buone e intelligenti, quelli che avevano deciso di scriver la tesina, avevo deciso di aggiungere a quella di ciascuno una dichiarazione autografa, che ne attestasse il valore non di copiatura, ma , entro i limiti della maturità liceale, significativo e utile.
Della sera di Lunedì e del mattino di Martedì non ho impressioni, se non molto vaghe, accompagnate dall'idea d'esser andato dal barbiere la mattina e di aver sistemato alcuni libri della biblioteca il pomeriggio.
Dell'investimento, della sua dinamica, poi ricostruita mediante racconti altrui e deduzioni mie, non ricordo alcunché.
Come nulla mi viene in mente del soccorso e della combinazione, per me positivamente favorevole, dei vari fattori:
L'arrivo dell'autoambulanza, il mio trasporto su essa sino all'ospedale di Varese, le prime cure prestatemi in pronto soccorso, l'operazione e la degenza in rianimazione (20-23 giugno sera, da qui trasferito in neurochirurgia per urgenza di posto-letto in rianimazione).
L'unica cosa che posso dire è che di tutti questi passaggi, altamente drammatici e traumatici, da incubo se me li fossi prefigurati con l'immaginazione, l'unica sensazione che mi è rimasta è quella di un sonno buono, senza sogni, ma nemmeno incubi e disagi: quasi un sonno del giusto protetto in una specie di seno materno.
Resta comunque il fatto che questa sensazione di benessere si staglia in un ambiente che, quando l'ho rivisto, mi era consueto come se fossero pronto soccorso e rianimazione di Vladivostok.
Anche per quanto riguarda neurochirurgia (23 giugno – 4 luglio) è significativo il fatto che non ricordi un medico ch'è uno, nemmeno l'urologo dal quale fui condotto per una visita specialistica a seguito di strappamento notturno del catetere.
Anche questo reparto e momento, per me, sono ancora avvolti in un'orizzonte molto nebbioso, dai contorni assai sfumati; di tutto, più che impressioni percettive, ritengo idee o sentimenti.
Mi pare di sapere che le cose siano andate in un certo modo, ma non ricordo più bene come concretamente si siano svolte. Mi sono più presenti sensazioni e idee sbiadite che non le vive impressioni delle cose accadute e delle persone incontrate.
Anche delle persone affettivamente care dalle quali fui circondato, soprattutto i miei allievi cui ero affettivamente molto legato, ricordo più sensazioni vaghe piuttosto che percezione nitida dei volti e delle parole dette, se si eccettua la sensazione della presenza calda, soffusa e continua di mia moglie.
Anche nel per me, tuttora, buio fitto della rianimazione mia moglie racconta che cercassi, al di là di sbarre e lacci di contenzione, gesti affettuosi che mi mettessero in rapporto con chi amavo.Potenza veritativa dell'inconscio.
Tra le tante presenze ricordo quella di Francesco D. P., il senso del saluto iniziale: “siamo due miracolati”.
In particolare, parlando con Mirko C., ragazzo intelligentissimo e umanamente sensibile, è poi emerso che io gli avrei detto: “Lei è la quintessenza della consapevolezza della IV C”; cosa assolutamente vera e probabilmente detta dal mio subconscio se non inconscio.
Parlavo, dice Mirko, con grande fatica, nel tentativo continuo di essere “compus mei”, cercando il legame tra percezione di persone e cose, parole, concetti e cose che tale situazione potessero esprimere e soprattutto comunicare.
Il periodo neurochirurgia- Quiete, lo ricordo come privo di sentimenti di angoscia e o di paura, ma come caratterizzato da un lento risveglio da un sonno buono e riposante, senza quasi sogni o incubi: dicevo sopra un sonno fetale nel seno materno e non a caso, ricordo il mio atteggiarmi nei confronti del mondo esterno in un'aura magari un po' acritica, ma tuttavia di dolcezza e di disponibilità affettiva piuttosto che di aggressiva reattività.
Alla Quiete ( 4 – 10 Luglio) ricomincio gradatamente, con l'ausilio della televisione, a occuparmi di ciò che accade nel mondo: chiedo qualche giornale e qualche libro che vedo pubblicizzato sul giornale, lasciando cadere l'uno e l'altro.
Ancora nella condizione prevalentemente onirica del coma vigile, preferisco in ogni caso il sonno e il riposo, uniche cose veramente desiderate. Sono esausto – in terapia gardenalica – e quando torno a casa sono felice d'esser tra le mie cose e tra i miei cari.
A Cuasso al Monte ( 13 – 25 luglio) si rafforza la tendenza allo stato latente e larvale in ospedale, alla coazione a ripetere e sentirmi ripetere la vicenda relativa all'incidente, anche per la contrapposizione che vivo tra “fiction” e “realtà”.
Una sera salgo al terzo piano e mi chiedo: che cosa succederebbe se mi buttassi giù, quasi convinto che non mi sarebbe potuto accadere di nuovo nulla di male, quasi fossi stato immunizzato dall'esperienza appena vissuta.
La decisione di non buttarmi obbedisce al senso buono delle cose che ancora mi anima e alla fiducia nelle persone intelligenti che mi vogliono bene, e che non vogliono mi faccia male più.
Incontro quello che chiamo arcipelago-sofferenza che non mi fa paura, ma in cui mi sento solidalmente accolto.
Mi sento insieme con gli altri sulla stessa barca e svanisce d'un colpo ogni patofobia e ipocondria che avevano inibito la mia vita a partire dalla vicenda di mio padre stroncato a 40 anni da un infarto il 4 novembre 1957, il giorno dopo nel quale avevo compiuto 8 anni.
Il malato non mi fa più paura, lo sento quasi come mio compagno di scuola, con il quale diviene familiare il convivere, l'aiutarsi e l'essere solidali, a iniziare dalle cose più piccole quali i bisogni quotidiani più semplici fino a i desideri più profondi e veri.
Come osserva Francesco D.P., proprio in visita da me a Cuasso, molto colpito dal caso di Giorgio G. e da senso e significato del luogo per la necessità d'attenzione alle persone dei degenti, la solidarietà pare più facile a svilupparsi tra gli umani nella sventura, che non nella buona sorte che rende invece il mondo “l'aiuola che ci fa tanto crudeli”.
Esistenzialmente a Cuasso inizio a imparare una lezione che assumo come criterio del vivere, pensare e agire giusto e buono: esperisco e sperimento vera la lezione di E. Levinas, quando insegna che “l'etica del volto dell'altro” precede sempre “la metafisica della verità delle cose”.
Dunque, nel caso, esistono propriamente le persone singole in carne e ossa, desiderose – tratto emergente nell'evento malattia e nella connessa esperienza della sofferenza – di essere amate, stimate, rispettate, ammirate, in una, comprese e valorizzate senza alcun banale e svalutante e deprimente compatimento.
Tale desiderio trascende il carcere della finitezza e si protende all'infinito, che ogni atto umano presagisce e anticipa nei suoi fattori costitutivi.
Quanto appena detto, ho imparato a scorgerlo negli altri miei colleghi sofferenti, per lo più anche e ben più di me, condividendo la condizione dei quali mi sono progressivamente riconciliato con l'evento della morte – compresa la mia -, più che non con la fatica del morire che intesse e crocifigge ogni agonia: penso a quella anginosa o cancerosa, ma anche al calvario della sclerosi multipla come il caso di Lucia A.
Da quest'estate drammatica percepisco l'evento morte con presentimento dell'aprirsi di una finestra misteriosa di una pace ascosa, appunto custodita nell'evento morte.
Anche a Cuasso sono molto preso dal bisogno e dal desiderio di “realizzare” che cosa fosse accaduto”, e di auto-chiarificazione non solo relativa alla contingenza particolare dell'evento accadutomi, ma all'essenza di tutto quello che sono ancora in piena consapevolezza: da dove sono venuto, dove potrò ancora andare, chi sono ancora. Questo l'orizzonte completo della mai “compos-suitas”, consapevolezza e auto-consapevolezza psicologica, intellettuale e morale.
Desiderio di ritrovare me stesso che deve fare i conti, sino alla fine di settembre, con l'opposizione “fiction”-”realtà” di cui sopra.
Chiedevo sovente anche a Franci – la mia bambina di 7 anni - : ma è vero quello che è accaduto o no?
Tale dualismo fantasmatico, con più di qualche venatura autistica, si attenua sino s svanire pian piano in tre circostanze:
a) la telefonica: la mia meraviglia che ai numeri telefonici composti corrispondessero esattamente le voci delle persone chiamate;
b) l'automobilistica: nel viaggio in automobile per raggiungere Lecco insieme con Popa, tocco quasi con mano che esiste uno spazio geografico e di viabilità automobilistica, autonomo ed esterno rispetto ai miei fantasmi interni, che è la concretissima struttura viaria lombarda fra Varese e Lecco. Lecco e il monte Barro esistono anche fuori della mia fantasia;
c)la ferroviaria: in treno, all'inizio, sono così chiuso in me stesso, che non sento nulla di quanto dicono le persone e attribuisco tale sordità psicologica alla mia ipoacusia da otosclerosi dell'orecchio destro e tendenzialmente bilaterale; il mondo è da me percepito come estraneo e io mi difendo arroccandomi in me stesso. Finché il 30 novembre, inizio di nuovo a sentir tutto o quasi quanto intorno a me si dice.
Le ore trascorse in palestra a Cuasso furono caratterizzate da iniziale titubanza, ma anche da molto benessere psico-fisico e di riacquisto graduale di una certa sicurezza di postura e di locomozione, grazie al fatto che Laura, la fisioterapista, si interessava molto a me come persona umana, magari inizialmente con il semplice farmi osservare, perché lo correggessi, il mio approccio molto nevrotizzato e quasi a gesti coatti all'attività psicomotoria, invitandomi a compiere ogni gesto consapevolmente e, quindi, con ritmo e toni pacati.
Quello che la fisioterapia costruiva al mattino, la logopedia distruggeva al pomeriggio.
Era per me una costante umiliazione recarmi tutti i giorni, dopo mangiato, verso le quattordici, dalla logopedista ed esser da lei trattato come un “minus habens”, un bambino che tutto doveva di nuovo riapprendere, di fronte a un impassibile e indiscutibile esaminatore, chiuso nel castello inespugnabile dei suoi tests, presunti onnipotenti e oggettivamente incontrovertibili, dal punto di vista valutativo; da qui, quelli che vivevo come desolanti errori, come ad esempio “lapsus” su piazza d' Induno e su mia timida richiesta relativa a modalità di riporto dei prodotti.
Uscivo, da tali “sedute”, sempre frustrato e triste, con una percezione aumentata a dismisura della mia disabilità.
La mia dignità era offesa dalle reiterate domande sull'elenco delle quattordici cose disparate, di cui ne avrei ricordate solo tredici.
Di qui, supplizio di tre quarti d'ora, condannato a ripeterle tutte senza sosta e senza eccezione; mi tendo quasi fossi a un esame (di esami, nella mia vita, ne ho fatti tanti, ma nessuno così stressante) per la paura di sbagliare, e finisco effettivamente per fare una catastrofe (le cose dimenticate aumentano in rapporto proporzionale ai tentativi di ricordarle richiestimi) che mi stanca e mi umilia.
Vengo fuori distrutto, educatamente dicendo che non sono a “Rischia-tutto”.
L'ineffabile, quasi assoluta e incontrovertibile risposta (“Roma locuta, causa finita”) comunque dogmatica, è che sono tests.
La logopedista rifiuta di rispondere a mia domanda sui riporti, mi rimprovera, quasi fossi un ragazzino, per aver osato toccare le sue matite, poste in un contenitore dietro la cattedra.
Mi manifesta tutto il suo fastidio, che io sento misto di disprezzo e scherno, per il mio modo di scrivere e prosegue imperterrita nella sua freddezza e assoluta incapacità di coinvolgimento nel lavoro dei tests, la funzione e il significato dei quali, mai mi sono stati spiegati.
Anche il mio tentativo di allacciare una conversazione umana su argomenti quali il tempo (temporale notturno ad es.) e i figli, viene sostanzialmente frustrato.
Di fronte alla prospettiva di continuare simile tortura, dico chiaro e tondo al primario che non sono né un cane di Pavlov né un gatto di Skinner ( mi perdonino le povere bestie!), umiliato e offeso anche da un nozionismo ottuso e acritico, ignorante che nessun oggetto è rappresentabile, spiegabile e comprensibile, se non in riferimento a un soggetto (con tanti saluti alla pretesa oggettività di stampo positivistico).
Altro esempio che mi pare utile citare riguardo alla logopedia: dovendo rispondere “vero-falso” alla seguente domanda:
“I medici sono persone dedite alla cura dei malati o no?”
Rispondo che dipende.
Replica della logopedista:
“Lei deve dire solo se è vero o falso!”.
Evidentemente non conosce o mi si vieta l'uso del pensiero divergente di tipo ipotetico-deduttivo: per lei le cose sono nere o bianche o così si impone che siano.
Secondo esempio:
“I libri sono i migliori amici dell'uomo?”.
Rispondo che in senso metaforico ciò può anche dirsi come vero.
Per me, tra l'altro, le cose stanno proprio così, tanto è vero che una parte della mia biblioteca è appunto chiamata “settore dei libri amici”.
Di nuovo la logopedista mi ripete che devo dire soltanto “vero o falso”; ho il sospetto che non conosca il significato del termine “metaforico”.
Il senso del fallimento della logopedia per me non dipende tanto – come dice il primario – dal fatto che la terapista sia altoatesina (il tedesco montanaro, chissà perché, passa per rozzo e duro di testa) e che il metodo da lei adottato con me peccherebbe di nozionismo e di scarso senso critico, cioè: non funzionerebbe con gente del mio livello culturale e intellettuale.
Il problema è che simile procedura fa male a ogni paziente, perché non lo considera come totalità dinamica personale, secondo una modalità d'approccio “olistico”, personologico, bensì di tipo comportamentistico, “bestiologico”.
Forse, nemmeno con certi animali-bestie funzionerebbe, almeno se sappiamo imparare dagli studi di Konrad Lorenz e della più intelligente ricerca etologica.
Decisiva la funzione maieutica del mio medico (Vittorio V.).
Un giorno mi dice:
“Mica vorrà fare il malato tutta la vita”, il che resuscita il mio “guaritore interno”, e del libro “Al di sopra del malato e della malattia – il potere 'assoluto' del terapeuta” di Adolf Guggenbuehl Craig, donatomi da Francesco T.
In esso viene descritto un momento di consapevolezza, per me decisiva, quando si osserva quanto segue:
“Le persone sane possono avere una vita indipendente, dignitosa e rispettabile. Se il corpo è sano, uno può occuparsi liberamente e autonomamente dei propri affari, ma tutto ciò cambia non appena subentra una malattia.
L'uomo sano diventa un paziente, l'adulto si trasforma in bambino.
L'individuo pieno di dignità e di salute viene improvvisamente dominato dalla paura, torturato dal dolore e minacciato dalla morte, e allora si verifica in lui una strana forma di regressione: il paziente non è più il padrone del proprio corpo, bensì la sua vittima, e sotto l'influenza della malattia fisica anche la psiche sembra subire una trasformazione.
Innumerevoli esempi di un tale mutamento vengono segnalati da donne che hanno dovuto assistere
per un certo tempo i mariti malati. L'uomo forte, protettore della famiglia e padrone della casa, diventa un bambino piagnucoloso che chiede il succo d'arancia.
Medici e infermieri osservano la stessa regressione nei pazienti ospedalizzati: vedono adulti diventare bambini, la cui cieca fiducia negli specialisti si alterna a una capricciosità infantile.
In una situazione del genere il medico diventa il grande soccorritore, la fonte di ogni speranza. Temuto, rispettato, odiato, ammirato, in certi momenti sembra quasi un redentore divino.
Il medico può guarire, alleviare il dolore, rendere sopportabile l'esperienza della morte: senza di lui il paziente è perduto.
Specialmente per il medico ospedaliero i pazienti diventano spesso una massa di bambini irragionevoli, povere creature infelici, senza stato sociale e senza dignità, un tipo di umanità totalmente diverso, e forse inferiore al suo: non prendono le medicine, fanno cose che sono loro dannose, a volte obbediscono a volte no, proprio come i bambini piccoli.
Spesso questa situazione crea una polarità fra il paziente regredito, infantile e pauroso, da un lato, e, dall'altro, il medico superiore, orgoglioso, distante, anche se ancora abbastanza cortese” ( 1 ).
In ospedale, dice il mio medico, sono abituati ad avere pazienti pecore, con me hanno trovato un toro, nel senso che ho sempre difeso la mia dignità di soggetto-persona umana , a un certo punto prendendo nelle mie mani i criteri di giudizio e di scelta relativi alla mia terapia, soprattutto di riabilitazione integrale della mia personalità, della mia identità psico-spirituale, dialogicamente ricercata e progressivamente trovata in quanto identità narrativa di una storia che rammemora se stessa.
Nella lunga uscita ( 20 giorni) dal coma semplice, scambiavo le croste dei punti chirurgici per una profumata ghirlanda floreale di rose sul modello della corona.
Mi sentivo incoronato, traccia psichica e mnestica di ascendenza forse cristiana, in quanto in rianimazione mi sentivo “inchiodato” dai legacci di contenzione al letto, tecnicamente sprangato.
Mi dicono che dicessi: “Qui ti inchiodano”.
Ma percepivo pure la mia incoronazione come segno festivo.
Attribuirei tutto questo al linguaggio dell'inconscio che, come accaduto con quanto riferito da mia cognata medico sulla “rosticceria” che avrei detto di desiderare appena estubato, funziona a prescindere da qualsiasi nostra possibilità di “intendere e di volere”.
Davvero anzitutto siamo “parlati” e contemporaneamente “pensati” e quindi originaria-mente “fatti parlare e pensare”.
In questo specchio va' ricondotta pure l'osservazione che, sempre in coma semplice, avrei fatto di fronte a visite inattese di persone perse di vista da molto, la seguente:
“Qualcosa è davvero successo, perché non sono più io a decidere le persone da vedere”: persone peraltro – mi dicono - da me accolte con molta dolcezza.
Tutto questo, su uno sfondo di rassegnato disagio, animato dal timore di non esser più “compos mei”, parlando sovente di coscienza individuale e generale, di ciascuno e di tutti.
Per quanto l'amnesia retrograda me lo consentisse, sempre in coscienza comatosa e in autocoscienza fragile e nebulosa, ricordavo Praga, visitata dal 2 al 6 maggio precedente.
La ricordavo come un'esperienza bella e pregnante, dalla quale ripartire per “rivedere tutta la mia vita” alla luce degli incontri belli, significativi e veri, tra i quali ricordavo, dietro l'intelligente maieutica di mia moglie, quello affettivamente importante con Sabina, guida per me fascinosa (un po' troppo “angelicata” dal mio superego) della città magica, la più bella che abbia mai visto, e poi citavo quelli con i miei due maestri: Bontadini e Apollonio.
Alla luce di questo criterio dicevo insomma di “voler rivedere tutto”.
Soprattutto a partire dalla permanenza a Cuasso, ma poi diviene un Leit-motiv di tutta la convalescenza, già sopra accennato, vengo, senza quasi accorgermene, liberato da qualsiasi residuo di patofobia e di ipocondria, proprio in forza della solidarietà affettiva ed esistenziale che si instaura tra malati, che la vivono per lo più spontaneamente.
Questa prospettiva mi fa intuire e capire che tutti i nostri atti d'amore, di malvagità o, culmine di essa, di superficialità e di indifferenza, richiedono d'essere registrati, come avverte Havel, nella memoria dell'essere che ci guarda e ci vede in ogni momento della nostra vita.
E' come se ogni evento persona e cosa del mondo fossero avvolti e intessuti in un orizzonte omni-abbracciante in-abbracciabile.
In esso ci sembra di naufragare, talora anche dolcemente, ma quasi trasfigurati.
Ho la netta sensazione che allora ci ritroviamo insieme con i nostri cari, quelli che, in vita, amandoci, stimandoci, valorizzandoci, ci hanno fatto del bene, compiendo per noi atti d'amore e, quindi, facendoci essere.
Sento pure che, forse, ogni atto d'amore vero, compiuto in questo mondo, liberi l'oggetto-soggetto d'amore dal morire nella morte, manifestando così una potente forza redentiva (rivitalizzante e rianimante), al di là della “frale”, “kenotica” debolezza di quest'esistenza umana misera e grande, con intermittenza sinusoidale.
E' una fra le tante coincidenze, sensatamente significative, caratterizzanti quest'ultimo scorcio della mia vita, che io scrivessi, nel necrologio della mia allieva Federica B. di Calolzio Corte, morta in occasione di un'incidente automobilistico, accaduto l' 8 dicembre 1988, il brano di Thornton Wilder che segue:
“Presto moriremo ed ogni memoria di quei cinque sarà scomparsa dalla terra, e noi stessi saremo amati per breve tempo e poi dimenticati. Ma l'amore sarà bastato; tutti quei moti ritornano all'Amore che li ha creati. Neppure la memoria è necessaria all'amore. C'è un mondo dei viventi e un mondo dei morti, e il ponte è l'amore, la sola sopravvivenza, il solo significato” (2).
Mai in coma e quasi mai negli ospedali ho pensato a “cose religiose”, né ho visto Dio, i santi e la Madonna, luci più o meno azzurrine, esseri vestiti di luce e via...; so che altri, in situazioni simili alle mie, dicono di averli visti; rispetto le loro testimonianze e ne faccio oggetto di meditata riflessione; personalmente, per quanto riguarda l'entità di simili “visioni”, sospendo, con prudente intelligenza, il giudizio. Giudico ben fatti e degni di studio lavori come “La vita oltre la vita” (3), anche se è vero che il coma non è ancora una condizione oltre la vita e non va' troppo facilmente confuso con un'esperienza “post-morte”.
Al massimo, come ammette la maggior parte dei veri medici, si può parlare, nel caso, di esperienza di “pre-morte”, fatta tuttavia in presenza di una struttura cerebrale ancora per certi versi intera e interamente funzionante.
Nè, d'altra parte, ho coltivato in me “pensieri spirituali”.
Il mio atteggiamento di fondo era piuttosto costituito dal bisogno e dal desiderio di ricerca razionale e di ritrovamento reale della “verità delle cose”.
Per questo ho sempre resistito, quando non respinto, ogni facile “consolazione religiosa” o “ricomprensione abitudinaria a sfondo religioso-consolatorio” di tutto l'accaduto, a partire dalla causa materiale dell'incidente occorsomi; argomentazioni postemi innanzi da parenti più o meno prossimi, da qualche prete troppo desideroso di concludere ( risolvere il problema), da qualche apparente amico.
Le argomentazioni erano del tipo seguente: la buona sorte, subito (troppo frettolosamente) riportata al volere della provvidenza, vista come causa di un miracolo guidato dallo sguardo di mio padre, e via con i “ringraziamo il cielo”.
Come se tra l'altro, questa vita fosse il sommo e assoluto bene che avessi potuto mantenere, mentre a me sembrava e tuttora sembra vero il contrario: questa vita è provvisoria e contingente, forse è anche un bene che, tuttavia, non ha nulla di assoluto, di supremo di ultimativo e di definitivo (ossia manca dei requisiti necessari a tali specifici attributi).
Per dirla con il mio carissimo “Bonta”, questa incomprensibile vita è continuamente assediata e insidiata dal non essere del venir meno: ad ogni secondo battito diastolico, appunto non è.
Nei colloqui, più banalmente ovvi, rimpiangevo, tra me e me, di non essere morto quella sera, di non aver fatto le cose sino in fondo senza nemmeno accorgermi, non avendo provato dolore alcuno o quantomeno non ricordandomene.
A quest'ora, pensavo e mi dicevo, starei in ogni caso meglio e forse anche bene, avrei meno problemi e meno superficiali, sciocchi, e questo sì, mortificanti scocciatori.
Da allora, seguendo l'istanza selettiva che ogni sventura e/o malattia grave comportano nelle relazioni umane, cerco solo amici che siano testimoni veramente credibili, disposti ad accompagnarsi con me per esser discepoli sulla via della verità che sola dà la vita, in un unico movimento o moto, quello verso l'integrale salvezza di tutto ciò che esiste.
E' in questa prospettiva che solo ha ancora significato, per me, il senso religioso che costituisce la forma dell'umana esperienza.
Dio non può essere la proiezione dell'impotenza dei nostri bisogni e del nostro desiderio di vivere e di voler rappresentarci il mondo come ci pare e piace, a nostro uso e consumo.
Certo l'uomo è ciò che mangia e beve, pane e vino, ma anche amore, bene, verità, bellezza.
Questo il senso dell'evangelico “non di solo pane vive l'uomo”, il che significa che è delle altre cose appena indicate che ciascuno di noi umani vive.
Solo chi si ponga in tale condizione umana capisce che significhi che il fine ultimo di ogni uomo è il “desiderium Dei videndi”, il desiderio di vedere Dio e di ritornare alla casa del padre.
Non riesco più a rivolgermi a Dio se non come alla verità delle cose, e capisco Agostino quando insegna che “beata quippe vita est gaudium de veritate”, vita certamente beata è la gioia della verità, di tutto ciò che riceve 'l'atto di esistere, anche se a Lui-Dio non so rivolgermi che mediante una forma di teologia spirituale negativa che lascia spazio alla seguente invocazione:
“Io non so più bene chi tu sia, ho perso il senso di tutte le definizioni che prima sapevo quasi a menadito, pur se da qualche tempo mi risultavano insipide- quasi tautologici vaniloqui - ma se ci sei aiutami, illuminami e guidami verso la salute anche mentale.
In questo tratto di cammino, mi sono stati di determinante aiuto Francesco B. che mi ha promesso ricordo costante nella preghiera nel pellegrinaggio in Russia e oltre, la mamma di Marilena B. con due biglietti di autentica luce di fede e fortezza cristiane e la carissima Dora C. che, in un momento
di sconforto, mi ha ricordato che “esiste chi ci ha salvati e ci salva”. Come decisiva illuminazione ho trovata nella formula biblica prediletta da padre Romano S., il Salmo 4 che invoca: “Illuminami con la luce del tuo volto”.
Di mio ho sempre e solo aggiunto: “Se può servire qualche cosa ti offro tutto del mio calvario di questi mesi di convalescenza, per le davvero non poche persone che mi hanno dimostrato e seguitano a dimostrarmi intelligente affetto e realistica stima. A loro non so per quale misteriosa via, venga dalle mie ferite fisiche, psichiche, spiritualmente personali, ogni vero bene il loro cuore possa desiderare.
Per il resto cerco ancora e sempre la via del vero, ascoltando e, se riesco, seguendo le persone che sono per me umanamente e anche cristianamente credibili, comprese quelle morte, scomparse ai nostri occhi mutando forma di vita: mio papà, don Attilio, Apollonio, Bontadini e tutti gli altri che in questo momento non cito, ma ai quali va il mio pensiero.
V'è, da ultimo, ma andrebbe collegato a quanto detto sulla morte e sul morire, una frase di Lanza del Vasto, filosofo pellegrino, che molto mi conforta e che riporto soprattutto perché esprime un'opposizione che mi sembra reale tra referto del “polo logico” e referto del polo “fenomenologico”, la seguente:
“La morte è un assurdo: ciò che è non può cessar di essere. Eppure morremo: perché questa vita non è il nostro essere, bensì il difetto del nostro essere”.
Scandaloso paradosso dell'antinomia tra ragione ed esperienza e apertura della speranza che “non omnis moriar” (non morirò tutto) e che, forse, “vita mutatur non tollitur” (la vita è mutata, non è tolta), non dimentichi della “incomprensibile”- come la vita delle creature tutte - osservazione di Agostino secondo il quale:
“Facti sumus, mutamur enim” (siamo fatti, infatti siamo fatti mutare).
Chi morirà, se sopravviverà, vedrà.
Massimo Roncoroni
Bosisio Parini, venerdì 22 marzo 1996