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Introduzione a Descartes

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Questo filosofo francese della rima metà del XVII secolo (nasce infatti nel 1595 e muore nel 1650) è considerato il punto di inizio della filosofia moderna. Con lui inizia di fatto un approccio nuovo alle tematiche della gnoseologia e dell'ontologia: da un lato si diffonde e consolida l'intuizione secondo cui il pensare sia solo «avere rappresentazioni mentali», dall'altro si verifica una vera «virata ontologica» al termine della quale l'essere viene identificato con la materia estesa.


Molto forte è il nesso della sua gnoseologia con la scienza moderna, ossia con un sapere sul mondo fisico basato sull'uso dei numeri e delle figure geometriche: l'esigenza di dare una fondazione solida a questo nuovo sapere è una delle energie che muovo la filosofia di Cartesio, attraverso il tema del metodo.

 Ritratto di Descartes

Il metodo

Non a caso l'opera più famosa di Descartes si intitola appunto Discorso sul metodo. Pubblicato nel 1637, esso costituisce uno degli scritti con cui inizia la filosofia moderna. In origine a dire il vero doveva fungere solo da introduzione a tre scritti propriamente scientifici (Diottrica, Meteore e Geometria) ma in seguito acquistò vita autonoma e cominciò a essere pubblicato e letto in modo autonomo.
La fortuna di questo testo nasce dalla combinazione di alcuni fattori: per prima cosa è scritto in volgare (francese) ed è piuttosto breve. In secondo luogo la struttura del testo si avvicina a quella di un’autobiografia che, utilizzando la prima persona, introduce il lettore nel vivo della problematica intellettuale. Infine riassume tutti i temi più importanti della filosofia cartesiana, anche se il metodo, problema centrale per la filosofia del tempo, occupa lo spazio maggiore.

Cartesio riassume il metodo sotto forma di quattro precetti generali.

I precetto: l’evidenza

«non accogliere mai come vera nessuna cosa che non conoscessi con evidenza essere tale […] e non comprendere nei miei giudizi nulla di più di ciò che si presentasse alla mia mente così chiaramente e distintamente, che io non avessi occasione di metterlo in dubbio»

Il primo precetto contiene l’indicazione del fondamentale criterio di verità e la definizione di idea. Per Cartesio, infatti, le idee sono rappresentazioni mentali, dei veri «quadri mentali» appesi alla «pareti» della stanza della nostra mente, come dice in un'opera successiva (la Meditazioni metafisiche). I criteri di verità sono chiarezza (l'idea si impone con la forza della autoevidenza) e distinzione (non può essere divisa in idee più semplici)

II precetto: l’analisi

«dividere ciascuna delle difficoltà che esaminassi in tante piccole parti quanto fosse possibile e necessario per risolvere meglio»

Questo precetto ci suggerisce di scomporre un problema complesso in parti più piccole delle quali la soluzione è intuitivamente evidente o facilmente derivabile. Ciò non è altro che la generalizzazione epistemologica del metodo geometrico.

III precetto: la sintesi

«condurre con ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili da conoscere, per risalire poco a poco, come per gradi, fino alla conoscenza dei più complessi»

Qui si afferma la necessità di disporre i propri pensieri secondo un ordine che procede da una minore a una maggiore complessità (dal punto di vista gnoseologico). Si tratta del procedimento opposto al precedente.

IV precetto: l’enumerazione completa

«fare dappertutto delle enumerazioni così complete e delle rassegne così generali da essere sicuro di non omettere nulla»

Cartesio sollecita a ripercorrere i passaggi per essere certi di non aver omesso nulla. Questo garantisce la correttezza del metodo.

Il Cogito

Nel tentativo di ricostruire il sapere, Cartesio parte dalla convinzione che si debba trovare prima di tutto una verità certa e indubitabile che possa fungere da basamento per tutto il resto delle conoscenze.
Per ottenere una conoscenza di questo tipo è necessario passare attraverso una fase di dubbio: solo ciò che si dimostrerà in grado di resistere al dubbio più spregiudicato potrà essere accettato nel nuovo sapere.
È importate capire che il dubbio non è scettico, ma metodologico. Cartesio non intende il dubitare come fine a se stesso, ma come unico metodo per individuare qualcosa di indubitabile. In lui c’è la volontà di spogliarsi dei pregiudizi, cioè di tutte quelle conoscenze che non sono state sottoposte a vaglio critico. Il criterio fondamentale è quello di voler eliminare tutto ciò su cui si può sollevare un qualsiasi dubbio. È importante anche insistere sul carattere volontaristico del dubbio, che non si innesca da solo o per caso.

Cartesio distingue tre livelli diversi di dubbio, corrispondenti a livelli e forme diverse di conoscenze:

conoscenza sensibile: i sensi a volte ci ingannano (es. durante il sogno, oppure di fronte a illusioni ottiche particolari, come il bastone che sembra spezzato in acqua), quindi non possono costituire il fondamento indubitabile del sapere.

conoscenza razionale: a volte capita di commettere degli errori nei ragionamenti, anche di tipo matematico, quindi anche la conoscenza razionale è esposta al tarlo del dubbio.

Resta la conoscenza intuitiva delle verità semplici e immediate su cui si basano matematica e logica. Questi potrebbero costituire il fondamento indubitabile del sapere, ma anche in questo caso si può avanzare un dubbio iperbolico (cioè eccessivo, introdotto a forza): e se ci fosse un «genio maligno» che si diverte ad ingannare l’uomo, anche sulle verità più evidenti e intuitive (come il pdnc)? Nulla quindi sembra sfuggire alla potenza del dubbio.

Proprio a questo livello Cartesio però si rende conto che rimane in ogni caso una certezza: io esisto come essere dubitante, quindi pensante. Questa verità non può essere negata, neanche se mi impegno volutamente a cercare di falsificarla (con l'ipotesi del genio maligno): questa sua caratteristica gli consente di essere il vero fondamento del nuovo sapere.

È da sottolineare che io ho la certezza della mia esistenza non in quanto corpo, ma come essere pensante: tutta la mia vita concreta e materiale potrebbe in realtà essere solo un sogno.
Il cogito cartesiano sembra inoltre, almeno in parte, ricalcare il cogito agostiniano. Entrambi in effetti prendono le mosse dal dubbio per approdare alla stessa verità: se mi inganno esisto. Ciò che li differenzia è che in Agostino il cogito è fondamento di una metafisica orientata alla teologia, mentre in Cartesio è fondamento della fisica meccanicistica e parte da un problema di tipo metodologico, anziché metafisico.

Gli scolastici muovono un’obiezione al cogito, sostenendo che sia un entimema, cioè un sillogismo a cui manca la premessa maggiore (la premessa sarebbe: tutte le cose che pensano esistono; a questo punto si può proseguire con la celeberrima frase di Cartesio cogito ergo sum, ossa: io penso, quindi esisto). Cartesio risponde dichiarando che il cogito non è un ragionamento, ma è un’intuizione, una verità immediatamente evidente, una certezza immediata.


La virata ontologica
La concezione dalla realtà di Cartesio rivoluziona il modo di pensare occidentale e permette lo sviluppo della scienza moderna. Egli infatti si propone di dare un fondamento radicale alla nuova visione della natura, dimostrando come si debba concepire la realtà, affinché ad essa sia applicabile la matematica, elevata al rango non tanto di metodo particolare, ma di strumento universale del sapere: mathesis universalis.


La matematica ha la capacità di ricondurre tutti i problemi del sapere umano, i quali hanno un’analogia strutturale, a leggi che sono espressione della ragione umana.

Ne consegue che la natura non è un organismo ma un meccanismo guidato da leggi matematiche: a una concezione olistica si sostituisce una concezione meccanicistica.

Ma Cartesio interviene in modo drastico anche per quanto riguarda la metafisica.
Cartesio elabora il cosiddetto dualismo gnoseologico, conseguenza diretta dell'impostazione del cogito.
La prima fondamentale distinzione è infatti tra

res cogitans (il cogito, appunto, con i suoi contenuti) e
res extensa (che viene definita in opposizione alla res cogitans).

Per quanto riguarda la res cogitans, cioè me stesso inteso come attività pensante, bisogna definire con chiarezza cosa intendesse Cartesio con pensare. Mentre per la filosofia classica pensare significava manifestare l’essere, per Cartesio corrisponde ad avere rappresentazioni mentali, cioè idee. Le idee in quanto parte del cogito hanno la stessa certezza del cogito. Il loro modo di esistere come parte del cogito è ciò che Cartesio chiama «essere formale». Il loro modo di esistere in quanto capaci di rinviare ad altro è il loro «essere oggettivo».
La res extensa, invece, rappresenta tutto ciò che non è res cogitas. L’unica cosa concepibile col pensiero (unico mezzo conoscitivo) a proposito delle cose è l’estensione, perché è l’unica idea chiara e distinta che possiamo cogliere nelle cose.
Quindi le cose (e la realtà materiale in genere) si riducono ad essere pura estensione, cioè qualcosa che occupa dello spazio. Per questo motivo è possibile dominarla e misurarla attraverso la matematica.
All’interno di questa visione meccanicistica si trovano anche il nostro stesso corpo e gli animali, i quali vengono posti sullo stesso piano di tutte le altre cose, non essendo res cogitans, e divengono così delle macchine incapaci di provare dolore o sofferenza.

Il problema del ponte

A questo punto diventa necessario chiarire quale sia il legame tra idee e oggetti, ovvero il rapporto tra res cogitans e res extensa.

Questo problema attraverserà tutta la filosofia moderna (da Cartesio a Kant, un pensatore della fine del Settecento) senza mai trovare una soluzione definitiva. D'altro canto è stato proprio tale dualismo insanabile a permettere lo sviluppo della scienza: concepire la realtà come «altro da me», infatti, è l'unico modo per misurarla e modificarla.

Le idee sono di tre tipi:

innatae: insite all’uomo (res cogita ed extensa, verità, pensiero, Dio)
adventitiae: che provengono dall’esterno
factitiae: prodotte da me stesso

In ciascuna idea bisogna distinguere tra

una realtà formale e
una realtà oggettiva:

La realtà «formale» è uguale per tutte le idee, in quanto sono tutte modi del pensiero
La realtà «oggettiva» delle idee è ciò che le rende diverse le une dalle altre, in quanto esprime la loro capacità di rappresentare cose diverse

L’esistenza dei corpi non è evidente come la res cogitans, e quindi deve essere dimostrata.
Le cose materiali sono possibili sotto gli aspetti in cui sono oggetto della matematica (l’estensione). Qui entra in gioco una nuova facoltà: l'immaginazione.

Cartesio intende con immaginazione qualcosa di diverso dal pensiero, perché ci sono cose che si possono pensare, ma non immaginare (es. “chiliagono”, poligono di mille lati).

L’immaginazione è in me, ma essendo io cosa pensante ed essendo l’immaginazione qualcosa di diverso dal pensiero, è probabile che venga dal corpo.
Cartesio non riesce a dimostrare logicamente l’esistenza dei corpi, ma trova solo la probabilità.

Dio

Il ruolo di Dio

Chi garantisce l’esistenza dei corpi è Dio. È lui che, in quanto creatore buono, non può ingannarmi volutamente quando mi instilla la convinzione profonda che le mie rappresentazioni mentali corrispondano a qualcosa di reale fuori di me.
Ma a questo punto la dimostrazione dell'esistenza di Dio diventa essenziale nel sistema di Cartesio.

Si noti che le prove dell'esistenza di Dio devono muovere dall'unica certezza che Cartesio ha raggiunto, ossia dal cogito.

La dimostrazione dell’esistenza di Dio si articola in tre prove.

I Prova: Dio come causa dell'idea che ne abbiamo.

Abbiamo visto che le idee hanno una realtà formale e una realtà oggettiva, e che alcune idee hanno «più realtà oggettiva» di altre in funzione dell'oggetto che rappresentano.
Se si ammette, come fa Cartiesio senza ulteriori discussioni, il principio secondo cui una causa deve avere in sé almeno tanta realtà oggettiva quanto il suo effetto, ne consegue che la causa dell’idea innata di Dio non può essere altra che Dio stesso: non può essere, infatti, una realtà finita causa di una realtà infinita. Di conseguenza deve esistere Dio come causa dell’idea che ne ho.

II Prova: Dio come causa della mia esistenza come cogito.

Il punto di partenza della seconda prova è il concetto di causa efficiente. Io certamente esisto in quanto res cogitans, ma non io a essermi creato da solo: se così fosse, infatti, mi sarei creato perfetto, cosa che non sono perché io mi sono scoperto come essere dubitante. Quindi, se non sono io ad aver creato me stesso, deve esserci una causa della mia esistenza esterna a me. Poiché è impossibile andare all’infinito nell’individuazione delle cause, bisogna ammettere l’esistenza di una causa prima, diversa da me: Dio, appunto.

III Prova: Dio come essere necessario

La terza prova, detta prova ontologica, parte dall'idea innata di Dio come essere perfettissimo, ossia contenente ogni perfezione. Poiché anche l’esistenza è una perfezione, se Dio non esistesse non sarebbe più la somma perfezione (in quanto mancante della perfezione dell'esistenza) e quindi ci troveremmo di fronte a unca contraddizione.

L'uomo

L'uomo: anima e corpo

Il problema del dualismo ontologico e gnoseologico fin qui visto per quanto riguarda la realtà nel suo complesso diventa ancor più serio nel caso dell’uomo.
Infatti l’anima, come sappiamo, è res cogitans, mentre il corpo res extensa. Questo ci porta a dire che io, in quanto res cogitans, possiedo un corpo, ma non sono un corpo.
Il corpo umano diventa, in questo modo, una macchina. Per questo motivo a volte può funzionare male o può mandarci segnali che non corrispondono alla realtà (es. quando si ha la percezione dell’arto mancante).
Allo stesso tempo è innegabile il profondo legame che si percepisce con il proprio corpo: noi costatiamo che il corpo e l’anima si influenzano reciprocamente, almeno in due casi: i moti volontari e le passioni.
Ma come è possibile? A questa domanda Cartesio tenta una spiegazione, nel trattato Le passioni dell’anima, che ruota attorno a una tesi alquanto bizzarra: il punto in cui si incontrano anima e corpo è una ghiandola, la cosiddetta ghiandola pineale (detta oggi ipofisi). In questo punto l’anima eserciterebbe le sua funzioni in modo più specifico che in tutto il resto del corpo avrebbe la capacità sia di muovere la ghiandola sia di percepire i suoi movimenti, che poi vengono trasmessi al resto del corpo.

Nella prefazione dei I principi della filosofia troviamo la celebre metafora dell’albero, con la quale Cartesio esprime la sua visione del sapere:

Tutta la filosofia è come un albero, di cui le radici sono la metafisica, il tronco è la fisica, e i rami che sorgono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si riducono a tre principali, cioè la medicina, la meccanica e la morale.

Questa metafora sta a significare che le scienze particolari non sono possibili senza una visione complessiva della natura, che si basa sulla fisica. A sua volta la fisica deve reggersi sulla metafisica. Questo denota una profonda differenza con Galileo, il quel sosteneva che la fisica si potesse reggere da sola, stabilendo una base puramente scientifica del sapere. Cartesio, invece, mantiene la base filosofica, anche se la nasconde sotto terra.

L'etica provvisoria

Nella III parte del Discorso sul metodo, Cartesio espone le sue teorie riguardo alla morale provvisoria. In realtà il suo progetto era quello di creare una scienza morale rigorosamente fondata sul sistema filosofico, ma siccome il progetto si prospetta difficile elabora alcune massime «di pronto impiego», rese necessarie dalla contingenza pratica di dover agire: l’uomo nella vita quotidiana è costretto a prendere decisioni e non può attendere che venga rifondata la filosofia. È quindi necessario fornire alcune regole in modo che la volontà segua l’intelletto. Le regole non possono essere arbitrarie, ma di ispirazione razionale. Inoltre notiamo che ci sono delle affinità tra le regole della morale (guida nel campo dell’agire pratico) e quelle del metodo (guida nel campo dell’agire morale).

La prima massima impone di obbedire alle leggi ed ai costumi del proprio paese, osservandone la religione.

Cartesio mantiene un “prudente conformismo”, sostenendo che, in linea generale, è bene seguire gli usi e i costumi della propria cultura, finché, però, questi non si scontrano con la ragione. Infatti, Cartesio sostiene che la ragione sia in ogni caso l’organo migliore di giudizio e che abbia sempre la preminenza sul comune buon senso.
La seconda massima sostiene che sia necessario rimanere fermi sulle proprie decisioni, anche se non sono certe in base a criteri razionali

La terza massima sostiene la necessità di cercare di vincere noi stessi piuttosto che la fortuna, quindi di desiderare solo ciò che è considerato possibile dal nostro intelletto, riprendendo esplicitamente la concezione stoica

La quarta massima è definita massima metaetica e sostiene che sia necessario scegliere la vita che porta a maggior appagamento e soddisfazione, quindi felicità, per conseguire la quale è necessario seguire le tre massime precedenti. A differenza delle massime precedenti razionalistiche ed intellettualistiche, questa (eudaimonistica) è di derivazione epicurea.

Pensai bene di fare una rassegna delle diverse occupazioni che gli uomini hanno in questa vita, per cercare di scegliere la, migliore;[…] cioè dedicare tutta la vita a coltivare la mia ragione e a progredire, per quanto avrei potuto, nella conoscenza della verità, seguendo il metodo che mi ero prescritto

 

 

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Il Discorso sul Metodo (trad. italiana)   Il link porta direttamente alla versione italiana in Pdf presente sul sito LiberLiber.it
Discourse de la Methode  Il link porta al testo originale in francese nella versione del sito Intratext, che rende possibile evidenziare le parole e le concordanze.
   
   

 

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