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Il Discorso sul Metodo: un'analisi




Testo

1. Filosofìa e scienza

II Discorso sul metodo è come le prime note di quella grande sinfonia che è la filosofia moderna. La sua pubblicazione, nel 1637, conclude quel ristretto gruppo di date (1) in cui la storiografia filosofica indica tradizionalmente il repentino sorgere, dopo il lungo periodo aurorale del Rinascimento, della nuova concezione del reale.
È tale « energia di posizione storica », come si esprime Bontadini nel suo commento al Discorso (2), ciò che occorre indicare e ricordare prima di tutto accostandosi ad esaminare questo testo così famoso nella letteratura filosofica occidentale.
Già Descartes stesso si concepiva come un momento di rottura irrevocabile nei confronti della tradizione scolastica; tutta la storiografia filosofica ha concordato su questo giudizio, dividendosi semmai subito dopo, a seconda dei riferimenti speculativi nel valutare e interpre­tare questa rottura. Il cui senso è effettivamente — al di là di ogni giudizio assiologico — quello di un nuovo approccio al reale nella sua complessiva totalità, ossia di un nuovo porsi dell'uomo di fronte alle cose.
AI centro dei vari campi del sapere irrompe la scienza, come una polla d'acqua nuova e fresca che venga alla luce quasi contemporaneamente in molti punti diversi: non più la scienza qualitativa del Medioevo, ma quella matematizzata e sperimentale che oggi conosciamo. La filosofia moderna nasce a un parto con questa scienza, intrecciandosi poi per molto tempo con il suo cammino.
È inevitabile interrogarsi sui rapporti che si stabiliscono tra queste due forme di (o del) sapere nel loro primissimo momento di vita.

Ma chie­dersi se un uomo del '600 fosse prima scienziato o prima filosofo significa partire dal punto di vista di oggi, quando la consapevolezza della diversità irriducibile dei metodi ci impone di separare la ricerca scientifica da quella filosofica. In realtà tre secoli fa la questione si poneva in modo molto diverso. Si avevano ancora di fronte sia l'ideale di un sapere unitario perseguito dalla Scolastica, sia la decadenza di quest'ultima, esauritasi nel tentativo di arri­vare alla conoscenza della natura attraverso l'applicazione ad essa dei prin­cipi metafisici. Tentativo condannato alla sterilità, perché quei principi, estratti dal processo razionale che li costituisce e li fonda indicandone insieme i limiti di applicabilità, decadono al livello puramente immaginativo, diventando realtà fantastiche, non più funzioni del pensiero. Con essi vanamente
si tenta di penetrare nella conoscenza della natura. Bacone, Galilei e Descartes reagiscono a questa situazione speculativamente insostenibile mettendo al centro del loro interesse l'esperienza, sia pure in modi diversi.

Fra i tre, proprio Descartes può essere indicato come una figura di sintesi. Ha infatti, come l'inglese, l'aspirazione al rinnovamento totale del sapere; come l'italiano, fa propria la nuova interpretazione matematica del mondo, anche se gli è certamente inferiore nel condurre la concreta ricerca sperimentale. Quello che Descartes aggiunge è una forte sensibilità metafisica, che agli altri due sfugge totalmente, e che lascia una impronta indelebile sul­la sua riflessione. Infatti, anche se l'inizio della sua attività fu dedicato uni­camente alla ricerca scientifica (3), abbastanza presto, ben prima comunque della pubblicazione del Discorso, avvertì la necessità di cercare il fondamen­to della scienza in una teoria metafisica (o addirittura teologica).
Questo passaggio, decisivo per il successivo cammino della riflessione di Descartes, è testimoniato dal dialogo epistolare con l'amico e collaboratore Padre Marsenne sulla dottrina della libera creazione delle verità eterne, siano esse i principi della logica o le leggi della fisica (4). Per Descartes il valore di questa dottrina e l'interesse per essa risiedono tutti nell'affermazione che le verità non sono qualcosa di indipendente da Dio, tali che Egli con esse non potrebbe non avere un rapporto estrinseco, quasi di sottomissione, come ave­vano le divinità greche rispetto al Fato (5). Al contrario, per Descartes le verità dipendono e quasi sgorgano da Dio, Suprema Verità, in cui non è possibile distinzione tra intelletto e volontà, e solo in Lui trovano adeguato fondamento.
Descartes è spinto dalla profonda esigenza che il sapere umano sia unitario, senza salti o fratture; e intende perciò costruire una metafisica che serva da fondamento alla ricerca scientifica. La relazione che lega scienza e metafisica costituisce essa stessa la filosofia. Il mondo viene sì radical­mente ricondotto all'estensione e al moto locale, rendendone possibile l'inter-pretazione matematica, ma la scienza che la studia non si limita ad autogiu-stificarsì operativamente, proprio perché scorge il proprio unico fondamen­to valido in Dio. L'ideale di Descartes è infine quello di una scienza definitiva ed immutabile.

In questo tentativo — che non è nemmeno proposto, per esempio, da Galilei — sta ad un tempo la genialità e il limite di questo pensatore. La storia ha rapidamente demolito il sogno di una sintesi stabile, destinando a diversi destini i due rami del sapere.
Se la scienza di Descartes ha mostrato tutta la sua ìnsostenibilità, ve­nendo rapidamente superata nei suoi contenuti, la metafisica ha abitato più o meno esplicitamente con i suoi presupposti il pensiero posteriore, e anzi qualcosa di essa — per esempio il Cogito — è rimasto come punto di riferi­mento ineludibile per ogni riflessione successiva.


2.    Il « Discorso sul metodo »

II reciproco riferirsi e quasi l'intrecciarsi di filosofia e scienza cui sopra abbiamo accennato si ritrovano esemplarmente espressi nel testo che stiamo esaminando.
Prima di tutto va ricordato che il Discorso, contrariamente alla tradizione ormai impostasi di leggerlo come opera autonoma, non era altro che l'in­troduzione a tre lavori scientifici (6), che a loro volta volevano essere solo esempi concreti dei risultati ottenibili con la nuova scienza. Perciò il sottotitolo avverte che il metodo in questione serve per condurre bene la propria ragione a ricercare la verità nelle scienze: è questo il filo conduttore che unifica in un solo organismo la ricerca speculativa e quella scientifica.
Tuttavia il Discorso si presenta alla lettura come un'opera piuttosto disorganica e frammentaria, divisa com'è in sei parti ciascuna delle quali si sviluppa su piani diversi, come mossa da interessi propri. Così la prima parte critica il sapere tradizionale tramandato nelle scuole; la seconda contiene l'esposizione del metodo; la terza presenta la morale provvisoria; la quarta anticipa in compendio la metafisica cartesiana; la quinta è il riassunto del trattato scientifico Il mondo; la sesta infine articola alcune considerazioni sul progresso della scienza.
La critica storica del resto, basandosi anche su testimonianze esterne; conferma l'impressione che il testo si sia formato partendo da frammenti precedenti, di lunghezza minore, confluiti nella redazione finale del 1637. Non è possibile ricostruire con esattezza e completezza la cronologia dei testi originali: alcuni punti però appaiono piuttosto sicuri. La prima parte, per esempio, dedicata alla narrazione autobiografica dei propri studi, riprende probabilmente una Storia del (mio) spirito cui fa riferimento una lettera a Genez de Balzac del 30 marzo 1628. La quarta parte, dedicata ai principi della metafisica, fu aggiunta all'ultimo momento (lettera a Padre Vatier del 22 febbraio 1638) e riprende probabilmente un piccolo trattato sullo stesso argomento, che non ci è pervenuto, composto attorno al 1630. La quinta parte è semplicemente un riassunto de Il mondo e de L'uomo, trattati scientifici scritti tra il 1630 e il 1633 e non pubblicati a causa della forte impressione suscitata in Descartes dalla condanna di Galileo Galilei. L'ultima parte, infine, era l'originaria prefazione dell'opera, quando questa doveva comprendere solo la Diottrica e le Meteore (lettera a Costantino Huygens del 1 novembre 1635).
Se questa è la realtà del testo cui siamo di fronte, il primo compito di una indagine di struttura è cercare di appurare se al di sotto dell'unità pura­mente estrinseca ridata alla stesura stessa del testo sussista una unità più profonda e radicale.



3.    Il metodo

Ci può aiutare in questo il suggerimento del titolo stesso: « metodo » restituisce prima di tutto il significato di «via » o « cammino » che va « attraversato » o « percorso ».
Il primo livello al quale il materiale del Discorso si ricompone attorno a un valore unitario è il suo esser quasi l'autobiografia spirituale e specu­lativa insieme dell'autore. Autobiografia non esplicita, certo, tranne che nel
racconto del proprio curriculum di studi (racconto su cui peraltro sono stati sollevati alcuni dubbi): ma proprio il carattere composito del testo con le sue cesure e i suoi salti testimonia le tappe, anche cronologicamente distanti tra loro, della riflessione cartesiana.
La critica più recente è tornata ad insistere su questo punto (7). Ma l'idea del metodo ci fornisce anche il suggerimento per avvicinarci a una prospettiva unificante anche sul piano speculativo. Il primo precetto « per ben condurre la propria ragione» è, come noto, questo: «Non accogliere mai nulla per vero, che non conoscessi evidentemente essere tale» (8). Su­bito dopo Descartes precisa che questo significa « non comprendere nei miei giudizi niente di più di quello che si presentasse così chiaramente e distintamente alla mia mente, che io non avessi alcuna possibilità di metterlo in dubbio » (9).
L'evidenza, cioè, è l'obiettivo che Descartes indica alla ricerca metodica. Su questo punto l'inchiostro dei commentatori è corso a fiumi. Certamente hanno ragione quanti notano che l'evidenza, in quanto tale, non è una sco­perta di Descartes, ma appartiene alla natura della filosofia, ne esprime anzi un carattere fondamentale. Però allora bisogna riconoscere che proprio portare l'attenzione sul problema dell'evidenza significa riaprire consapevolmente il campo dell'indagine filosofica, indicando la condizione del suo co­stituirsi che la riflessione precedente aveva smarrito.
La domanda dell'evidenza allora precede e guida, come una sorta di pre-comprensione, la ricerca filosofica e in genere quella scientifica. Ma come agisce questa regia speculativa all'interno del Discorso? Cercare l'evidenza è prima di tutto il crinale metodologico che decida tra il nuovo sapere e quello tradizionale scolastico.
La prima parte del Discorso, vera pars destruens, contesta all'insegna­mento ricevuto e in genere a tutte le scienze particolari di basarsi sui «fondamenti così poco fermi » (10) forniti dalla filosofia del tempo. E il torto imperdonabile della filosofia è di non aver trovato « cosa alcuna sulla quale non si disputi, e per conseguenza che non sia dubbia » (11).
II reciproco contraddirsi delle posizioni filosofiche è motivo sufficiente per destituirle di ogni valore: la molteplicità dei sistemi distrugge la pretesa che ciascuno di essi avanza di essere necessario e perciò l'unico vero. Ma questo, nota Descartes, accade perché la filosofia, nel migliore dei casi, si limita a «parlare con verosimiglianza di tutte le cose» (12), invece di cercare il vero: in realtà, non è affatto filosofia.
Bisogna perciò ricominciare daccapo a fondare il nuovo sapere. E noto come l'ideale dell'evidenza del sapere sia nato nel giovane Descartes dal­l'ammirazione per la matematica e la geometria (13) e come di conseguenza queste scienze divenissero il modello cui si sarebbe dovuto ispirare la ri­costruzione del sapere (14).

In effetti il metodo che Descartes propone esplicitamente nei tre precetti successivi a quello generalissimo dell'evidenza è chiaramente desunto dalla pratica matematica. Si tratta infatti di arrivare all'evidenza della connessione di elementi semplici ugualmente evidenti: bisogna allora « dividere ciascuna delle difficoltà... in tante parti quante fosse possibile » (15); poi «con­durre con ordine » (16) il ragionamento dagli oggetti più semplici a quelli più complessi; e infine percorrere con « enumerazioni complete » (17) queste «catene di ragioni » (18).
Come si vede, siamo ben lontani da una teorizzazione del metodo scientifico sperimentale. Eppure Descartes non disprezza affatto la conoscenza sperimentale (nonostante la sua fama di «razionalista» in senso deteriore), anzi la considera il punto di partenza e la materia di tutti i ragionamenti (19), come qualcosa senza la quale non è neppure pensabile il cominciamento della scienza stessa (20). E anche nei precetti del metodo si fa riferimento alla necessità di supporre un ordine tra gli elementi semplici, anche dove quest'ordine non fosse immediato: è indicata qui la necessità di formulare ipotesi interpretative per poter arrivare alla conoscenza del reale.
Tuttavia nel pensiero di Descartes domina nettamente l'ideale classico di organizzare tutto il nostro sapere in una scienza unitaria che parta da idee semplici di cui abbiamo conoscenza certa. In realtà l'essenza del me­todo, che serve — ricordiamolo — a «cercare la verità nelle scienze» (21), consiste unicamente nel sapere riconoscere ed eventualmente istituire un ordine nell'esperienza, cioè nell'arrivare ad una unità reale che percorra e attraversi la molteplicità delle cose (22).
Ciò che importa evidenziare qui è che per Descartes non solo la conoscenza è evidenza, cioè intuito e visione, ma che essa conosce solo questo modo per realizzarsi, cioè è sempre e solo conoscenza per praesentiam. Infatti la concatenazione dei passaggi del ragionamento, cui allude il precetto delle « enumerazioni complete », è solo un distendersi dell'evidenza nel mol­teplice dell'esperienza.
Può essere utile, per chiarire questo punto, richiamare le posizioni espresse nelle Regulae (23). Qui Descartes aveva distinto inizialmente due modi fondamentali del conoscere: l'intuito e la deduzione. Quest'ultima però ve­niva immediatamente chiarita come una integrazione o uno sviluppo dell'intuito, da cui si distingue per essere concepita come un « movimento » o una « serie » e per essere una evidenza non in atto ma fondata sulla memoria. « Tali due operazioni — notava Descartes — si aiutano e si perfezionano a vicenda in modo da apparire convergenti in una sola, attraverso un movimento del pensiero che attentamente intuisce le cose singole e, a un tempo, si trasferisce in altre ».
Esiste ultimamente una sola via per arrivare all'evidenza indubitabile: la presenza immediata, il manifestarsi diretto del vero. Per Descartes si possono intendere come affermate tutte e solo quelle realtà di cui abbiamo coscienza, che nobìs consciìs, in nobis fiunt, quatenus in nobis eorum conscientia est. Poiché ciò che è presente a noi, ciò a cui termini ì'ìntentio conoscitiva è idea, l'idea è la prima realtà: questa è l'essenza del fenomenismo razionalistico di Descartes, dove il significato del sostantivo, come noto, si assesta crescendo sul presupposto dell'esistenza della res fuori del pensiero.
La decisiva imbarcatura del discorso descartesiano, cui qui si fa riferimento, non può essere osservata direttamente nel Discorso, la cui indole divulgativa porta l'autore ad evitare la discussione di tutti i problemi che non siano giudicati assolutamente centrali. Essa comunque consiste essenzialmente nel non mettere in dubbio anche l'idea dell'esteriorità al pensiero in generale. Questa dimenticanza finisce per vanificare tutte le pretese di radicalità avanzate dal nostro filosofo, alimentando nelle sue posizioni l'incendio di una vera e propria contraddizione.
Per chiarire questo punto occorre fare riferimento alle Meditazioni, là dove viene distinto l'essere aggettivo (cioè l'idea presente a noi) dall'essere formale (cioè l'esistenza reale delle cose). Il problema è che questa distinzio­ne non viene introdotta dimostrativamente, ma appare come un presupposto, cioè come il punto di partenza del ragionamento. Ma dire che l'essere for­male, concepito come esterno al pensiero, è allora un presupposto, significa dire che esso è un dato immediato, posto come originario: ma il dato, la realtà presente, è per definizione l'essere oggettivo.
Questa insostenibile frattura tra pensiero ed essere viene da un lato speculativamente superata, come vedremo, nel Cogito, ma dall'altro resta arbitrariamente mantenuta nel resto della riflessione di Descartes. La con­traddizione che abbiamo ora descritto a nostro avviso si connette con una ambiguità latente nel concetto centrale di evidenza, che oscilla tra un valore logico e un valore psicologico (24).
Per Descartes l'evidenza non si connette espressamente con il principio di non contraddizione (25): per questo al filosofo sfugge del tutto il secondo modo di manifestarsi dell'evidenza o certezza indubitabile: quello che passa attraverso la negazione dell'ipotesi opposta, in forza delle sua (dell'ipotesi) autocontradditorietà. Questa evidenza, che potremmo chiamare dialettica perché si impone attraverso la negazione del termine opposto, è l'unica che permetta di concepire l'impresa metafisica come una mediazione dell'esperienza, cioè come un cambiamento radicale nella considerazione dell'esperienza stessa. Se non si prende in considerazione questa via, il discorso sull'essere piega inevitabilmente in direzione dell'ontologismo, cioè della affer­mazione della presenza dell'Essere (inteso come fondamento del reale). II riscontro storico immediato di questo sviluppo teoretico è l'ontologismo di Malebranche.



4. Il Cogito

II senso del metodo — abbiamo detto — è di essere via per raggiungere l'evidenza. Dobbiamo ora notare che l'evidenza, per Descartes, si chiarisce solo in riferimento al dubbio: come si evince dal primo precetto del metodo,
è evidente — perciò vero — ciò che è impossibile mettere in dubbio. Questa osservazione contiene, prima di tutto, l'indicazione del valore metodico del dubbio: non sospensione dell'assenso fine a se stessa, ma appunto via per raggiungere la certezza.
Descartes applica queste considerazioni prima di tutto alla conoscenza empirica particolare: « procurando di scoprire la falsità o l'incertezza delle proposizioni che esaminavo [...] non ne riscontravo alcuna sì dubbia, che non ne traessi sempre qualche conclusione abbastanza certa, non foss'altro, questa: che essa non conteneva nulla di certo» (26). Per ogni proposizione esiste un residuo inelìminabile di certezza: per lo meno la consapevolezza della dubitabilità di quella proposizione.
Ma Descartes vuole qualcosa che sia « interamente indubitabile » (27), perché solo qualcosa che sia definitivo nella sua certezza può essere assunto come principio della conoscenza. Si deve allora passare per un dubitare che sia trascendentale, cioè che prenda in considerazione ogni proposizione e che sìa coestensivo a ogni realtà. La ricerca di un luogo indubitabile del sapere umano non è nuova nella storia della filosofia: l'indagine del IV libro della Metafisica dì Aristotele, per indicare il più classico dei riferimenti, si dirige tutto verso « il principio più sicuro di tutti », che è appunto quello «intorno al quale è impossibile cadere in errore» (28).
Con Descartes si riconosce come indubitabile la soggettività dell'io, anche se il Cogito è lontanissimo dall'idealismo: esso permette solo di cogliere l'attività del pensiero individuale, non le condizioni di possibilità dell'esperienza.
Anche sul Cogito, come su quasi ogni affermazione di Descartes, i critici si sono accaniti per secoli. è noto — ma è utile ripeterlo anche in questa sede — che il Cogito non è un sillogismo (29), anzi non è nemmeno un ragionamento: è piuttosto l'intuizione che il pensiero ha di sé nella riflessione sulla propria attività. Un passo della seconda Meditazione può aiutare a chiarire il carattere non dimostrativo e non argomentativo del Cogito: « Mi sono convinto che non vi era proprio niente nel mondo, che non vi era né cielo, né terra, né spiriti, né corpi; non mi sono dunque io [...] persuaso che non esistevo? No, certo; io esistevo senza dubbio, se solamente ho pensato qualcosa » (30), « Questa proposizione: Io sono, io esisto è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio» (31). Dove la rinuncia alla caratteristica e icastica formula del Cogito, ergo sum ne rivela però il significato vero: io mi colgo come esistente in quanto essere pensante, o pensiero.
Il Cogito così è l'unico luogo in cui si abbia la tangenza e anzi la coinci­denza dell'ordine dell'essere formale e dell'ordine dell'essere oggettivo, e proprio questo suo carattere lo trasforma nella roccaforte imprendibile al dubbio che esso è. Nel Cogito viene annullata la presupposizione dell'essere al pensiero, perché l'essere che viene affermato — il sum — è lo stesso essere del pensiero. Non c'è nessun passaggio dall'ordine del pensiero a quello della esistenza, perché non c'è più nessuna alterila da annullare o da superare. Ma questo non vale, come abbiamo già visto, per la totalità delle altre cose, la cui esistenza, essendo sottoponibile a dubbio, deve essere riconquistata mediatamente (32) invece di essere riconosciuta come un dato (anzi come lo stesso darsi delle cose).
Si noti che il Cogito nel suo svilupparsi non incarna i precetti che Des-cartes aveva indicato nella seconda parte del Discorso. Non c'è nessuna analisi, nessuna sintesi, nessuna enumerazione completa: solo la indubitabile presenza a sé del pensiero. Bisogna allora concludere che Cogito e metodo si svolgono su piani totalmente differenti? Certamente i piani sono diversi: uno è trascendentale (quello del Cogito: il dubbio investe ogni realtà), l'altro è empirico (il metodo, così come è esposto, riguarda direttamente le scienze).
Anche la funzione delle due figure speculative è diversa: fondamentale o fondante quella del Cogito, organizzativa dell'esperienza quella del metodo. E certamente il Cogito, nella sua funzione fondante, è anteriore al metodo. Ma bisogna osservare come sia il Cogito stesso, nel suo svilupparsi, a porsi come giustificazione del metodo, dettando il carattere dell'evidenza, che gli appartiene in prima persona, come criterio di verità (33). In altri termini il Cogito riscatta dalla sua immediatezza la proposta iniziale dell'evidenza come criterio fondamentale. Solo a questo punto il Cogito viene indicato da Descartes come «il principio della filosofia» da lui ricercato (34). Un principio —in generale — è tale se da esso possono « principiare » altre verità.
La prima verità che Descartes vuole ottenere come frutto dal Cogito è la distinzione dell'anima dal corpo. Il corpo infatti, nota il filosofo, è sottopo­nibile alla finzione del dubbio come ogni altra realtà: si mantiene cioè al di sotto di quel livello di certezza indubitabile con il Cogito, ed è perciò stesso qualcosa di altro rispetto ad esso. Fui qui il discorso di Descartes risultereb­be ipotecato unicamente da quel generale presupposto — già ricordato — della esteriorità dell'essere al pensiero.
Ma occorre notare a questo punto l'innesto di un altro paralogismo. Leggiamo il testo « Conobbi da ciò (scilicet dal Cogito) che io ero una sostanza della quale tutta l'essenza e la natura non è che di pensare e che, per essere, [...] non dipende da alcuna cosa materiale » (35). Contro Descartes, bisogna ricordare che una cosa è affermare di conoscere il pensiero senza passare per la conoscenza del corpo, un'altra è sostenere come conseguenza di ciò che il pensiero esiste senza il corpo.
Il primo punto può passare, anche se potrebbe essere messo in discus­sione; il secondo è una arbitraria negazione del nesso tra condizione e condizionato, sull'unica base della distinzione delle due nozioni (anima e corpo) considerate. È nota la lunga polemica che si svolse, a partire dalle obiezioni di Arnauld, su questo punto del pensiero descartesiano. Per essa preferiamo rinviare ad altri testi (36), giacché a noi preme piuttosto indagare la strut­tura del discorso descartesiano per individuarne a un tempo la continuità e le fratture.



5. Le dimostrazioni dell'esistenza di Dio

II testo procede infatti affrontando un problema di capitale importanza nella riflessione dell'autore, quello appunto dell'esistenza di Dio; alla continuita puramente esteriore si oppone una netta frattura speculativa. Fin qui infatti l'unico criterio fatto valere da Descartes è l'evidenza riflessiva del Cogito: da qui in avanti la regia teoretica è assunta dal principio della permanenza dell'essere, che appare in diverse forme. La considerazione preliminare di Descartes è questa: « io dubitavo e..., per conseguenza, il mio essere non era tutto perfetto » (37), Qui il dubbio, l'atto di dubitare, non è più con­siderato nella dialettica che lo porta alla propria autosoppressione e alla tra­sformazione in certezza, ma è visto come una semplice forma di imperfezione, cioè di non essere.
Nel Discorso, come abbiamo più volte notato, mancano tutte le distinzioni e le chiarificazioni presenti, per esempio, nelle Meditazioni (38); tuttavia le articolazioni speculative sono le stesse, messe anzi in risalto dalla mancanza di osservazioni di contorno. Se la realtà del dubbio e dell'imperfezione è la mìa realtà, da dove posso imparare a « pensare a qualche cosa di più perfetto » di quanto io non sia (39), come faccio io certamente? Scrive il Nostro: « Non vi è meno ripugnanza che il più perfetto sia una conseguenza e una dipendenza dal meno perfetto, di quel che dal nulla proceda qualche cosa » (40).
Questa è l'energia speculativa che muove la prova: infatti, se l'idea di infinito o della perfezione non può venire dal nulla né da me stesso, deve necessariamente venire da qualcosa che sia ad essa adeguata. In un caso o nell'altro, però, — ed è qui che vorremmo richiamare l'attenzione — non basta a intendere e a sostenere queste affermazioni il brevissimo commento di Descartes per cui si tratterebbe di cose « manifestamente impossibili » (41). E soprattutto l'avverbio a essere fuori posto, poiché non ci troviamo più nell'ambito del Cogito, l'unico all'interno del quale sarebbe stato ammissibile, essendo, il Cogito, esattamente il luogo della conquista dell'evidenza.
In realtà si tratta, complessivamente, di un nuovo principio che viene fatto agire senza essere stato prima adeguatamente introdotto. Si sarebbe trattato di connetterlo esplicitamente al principio di non contraddizione, riconoscendone la contradditorietà dell'ipotesi dell'incremento e del decremento dell'essere. Invece Descartes si affida a una evidenza di cui abbiamo già notato l'ambiguità, col risultato di lasciarsi sfuggire il controllo — specula­tivo — della situazione.
La seconda dimostrazione dell'esistenza di Dio, pur muovendo da un punto di partenza leggermente diverso, cioè le imperfezioni del mio essere, è guidata dallo stesso principio e procede secondo lo stesso schema. Riconosciuto che dal nulla non può seguire l'essere, e che ìo non sono il fondamento dell'essere (altrimenti mi darei tutte le perfezioni che conosco e non solo quelle poche che constato appartenermi), bisogna che tale fondamento sia esterno a me: Dio, appunto, nel quale poi bisogna negare ogni distinzione perché segno di dipendenza e di non essere.
La terza dimostrazione, esaminata sotto questo profilo, va invece ricondotta al principio dell'evidenza, esaurendosi infatti nel semplice manifestarsi, sia pure mediato, dell'esistenza di Dio: «Tornando a esaminare l'idea che avevo di un Essere perfetto, trovavo che l'esistenza vi era compresa allo stesso modo che è compreso nell'idea di un triangolo che i suoi tre angoli sono uguali a due retti » (42).



6. L'etica

L'etica, riguardando il comportamento dell'uomo di fronte all'essere, dipende sempre dalla metafisica, cioè dalla soluzione che al problema dell'essere l'uomo — ogni singolo uomo — da. Dall'esito positivo o negativo di questa ricerca dipende l'assetto che assume la riflessione morale.
Descartes voleva — lo abbiamo visto — una scienza completa e definitiva che trovasse il proprio fondamento in Dio; ma non riuscì a costruirla se non a frammenti. Parallelamente, l'intenzione del filosofo era di arrivare a una morale deduttiva che illuminasse completamente e determinatamente l'agire umano; ma dovette rinunciare a questo sogno. In realtà, come abbiamo visto, l'unico contatto con l'essere è ottenuto nel Cogito, cioè nella semplice evi­denza dell'esistenza del pensiero. La realtà, le cose, il mondo sono esterni al pensiero: l'unica verità che Descartes riesce a trarre dal Cogito è la sua separazione dalla realtà materiale, cioè la sua indipendenza.
II Cogito poi è sì aperto a Dio, ma cosa riesce a conoscerne, oltre alla sua esistenza? Si tratterebbe addirittura di scorgere in Lui le indicazioni per la nostra attività particolare e quotidiana: invece Descartes riesce solo a dirci che Dio è l'Essere in cui si trovano tutte le perfezioni. Il fenomenismo razionalistico, ha notato Bontadini, è come la ritirata strategica dell'essere al conoscere, operata in nome della certezza.
II cedimento del fronte ontologico travolge anche l'etica, di cui si potrebbe ripetere che si ritrae dall'essere all'io, assumendo quel suo tipicissimo ca­rattere di provvisorietà con il quale appare nel Discorso. Anche questa morale « provvisoria » è fondata su un'evidenza: quella dell'impossibilità di « rimanere irresoluti nelle mie azioni » come scrive Descartes (43). Non è certo l'evidenza del Cogito, e neppure quella del metodo: è la semplice constatazione dell'urgenza della vita e della necessità di una regola per affrontarla. li ricorso alla tradizione, che rappresenta il contenuto di questa morale, è illuminante anche per comprendere il significato delle intenzioni riformatrici di Descartes?
Non si tratta di rifiutare programmaticamente tutto quello che già esiste: piuttosto, si tratta di portare le idee e le convinzioni che già possediamo « al livello della ragione » (44). Fino a quando questo compito non è svolto, una sorta di evidenza morale — che, come abbiamo notato, sfugge al dubbio e alla correlativa certezza del Cogito — è motivo sufficiente per seguire « le opinioni più moderate e più lontane dagli eccessi, che fossero comunemente messe in pratica dai più assennati di coloro con i quali avrei dovuto vivere » (45). Ma nonostante tutto questo, la morale provvisoria è strutturalmente instabile, poiché esplicitamente si istituisce in vista del proprio superamen­to (46). Descartes però — è un fatto — non proporrà mai esplicitamente e chiaramente questo superamento.
Tuttavia già nel Discorso si rintracciano senza difficoltà altri due temi etici, molto discordanti tra loro, ma entrambi molto significativi. Il primo è una ripresa della morale stoica, molto stimata nel Rinascimento francese: « La mia terza massima era di sforzarmi sempre di vincere me stesso piut­tosto che la fortuna e di cambiare i miei desideri piuttosto che l'ordine del mondo; e [,.,] di abituarmi a credere che non c'è nulla che sia interamente in nostro potere tranne i nostri pensieri» (47). L'unica realtà che si può sperare di modificare, perché è l'unica realtà che posso raggiungere e che può essere in mio potere è il mio io, il mio pensiero. La cesura che il Cogito opera sul mondo amplifica ed esalta il motivo stoico dell'indipendenza dell'uomo. Bisogna essere « spettatori piuttosto che attori in tutte le commedie che... si rappresentano » sulla gran scena del mondo (48). Vivendo isolati (49) bisogna cercare di realizzare se stessi da soli, impiegando tutta la vita a coltivare la propria ragione (50); e in ciò consiste il godimento migliore del proprio tempo.
Ma accanto a queste considerazioni se ne trovano altre, legate strettamente al carattere essenzialmente utilitaristico e pratico della nuova scienza. Quando infatti Descartes si trova a enumerare i motivi favorevoli alla di­vulgazione del suo nuovo metodo, nota che le sue scoperte potrebbero con­tribuire a « renderci come padroni e possessori della natura » (51). Perché « conoscendo le forze e le azioni del fuoco, dell'acque, de l'aria, degli astri, dei cicli e di tutti gli altri corpi che ci circondano [...] le potremmo adoperare [,..] per tutti gli usi ai quali sono adatti » (52).
Prima si trattava dì modificare se stessi; ora si tratta di modificare il mondo in vista del benessere degli uomini. Questa oscillazione del significato dell'impegno etico è legata alla mancata determinazione del rapporto con l'essere. Il vuoto infatti che tale mancanza lascia permette l'inserzione di motivi diversi, in particolare della scienza.
Siamo tornati al punto di partenza, cioè all'intreccio originario di filo­sofia e scienza che caratterizza l'inizio della filosofia moderna. Questo ciclo speculativo, crescendo sul presupposto dell'alterila dell'essere al pensiero, si mette nelle condizioni di non poter formulare un'etica agganciata alla conoscenza dell'essere: il suo esito è quello di proporre un cambiamento dell'essere che non ha nessuna garanzia logica, ma solo una giustificazione pura­mente pratica.
Di questo cambiamento la scienza è — naturalmente — strumento principale, nella sua simbiosi con la tecnica. In Descartes tutti questi motivi sono affiancati senza essere composti e senza essere sviluppati nelle loro conseguenze: anche in questo però il pensatore francese è emblematico delle tensioni e delle fratture che percorrono la coscienza moderna e contemporanea.




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Testo del Discorso sul Metodo, in francese con concordanze (da Intratext)




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