"E la forza del magnanimo Parmenide non fu la molteplicità delle opinioni,
ma spazzò via l'inganno della rappresentazione visiva e innalzò i pensieri"
(Timone, citato in Diogene Laerzio, lib. IX, cap. 23)
Parmenide è uno dei cardini del pensiero occidentale: con questo pensatore vengono affrontati alcuni tra i temi più importanti di tutta la filosofia, e le risposte che Parmenide dà sono importantissime perché costituiscono il punto di riferimento per tutta la filosofia antica e, indirettamente, per tutta la filosofia moderna.
Con Parmenide viene per la prima volta posto in modo esplicito il tema del rapporto tra pensiero e realtà, e quindi il problema della verità.
Già altri pensatori si erano interrogati sul tema della conoscenza, anticipando alcune importanti intuizioni.
Ma Parmenide è il primo che riesce a indicare con chiarezza il nesso che lega la physis, il pensiero umano (il noein) e la parola.
La soluzione che fornisce, per quanto apparentemente paradossale, è destinata a rappresentare un punto di riferimento per tutta la storia della filosofia occidentale:
tra realtà, pensiero e linguaggio esiste una sostanziale identità
Questa posizione è molto lontana dal modo di sentire del XXI secolo e deve essere meditata con attenzione.
Noi uomini del XXI secolo cresciuti ed educati in occidente infatti prima di tutto tendono a non rendersi neppure conto che il rapporto tra questi tre aspetti (o dimensioni, o momenti che dir si voglia) della vita sia problematico. La filosofia occidentale infatti intorno al XVII-XVIII secolo ha attraversato una lunga fase in cui è prevalsa la convinzione che pensiero e realtà fossero letteralmente due "cose" distinte e senza nulla in comune: si parla infatti di dualismo gnoseologico per indicare questa convinzione profonda che in quei secoli era condivisa praticamente da tutti i filosofi. Tale modo di intendere il rapporto tra il pensiero e la realtà nasceva dalla necessità di fornire un solido punto di partenza per la scienza moderna, che muoveva i suoi primi passi proprio in quel periodo e sembrava all'epoca l'unica forma di conoscenza autentica, e si è quindi prolungato fino ad oggi proprio grazie al suo rapporto molto stretto con la scienza.
Il modo di concepire le cose presso i filosofi greci arcaici era invece completamente diverso.
Il pensiero, indicato con la parola "noein" esprime la capacità, tipica dell'uomo, di manifestare la realtà, ossia di renderla evidente, di portarla alla luce della coscienza.
La physis si manifesta, si apre, si dà solo grazie al pensiero che, in un certo senso, è lo stesso manifestarsi, aprirsi, darsi della physis.
La totalità nel suo schiudersi (ossia la physis nel suo manifestarsi) e il pensiero sono esattamente la stessa cosa considerata da due punti di vista diversi.
Allora si capisce bene che la physis da una parte e pensiero (noein) dall'altra sono governati da una stessa legge.
Ma il pensiero non è nulla se non può essere a sua volta manifestato e veicolato dalla parola. Senza la parola che lo esprime, neppure il pensiero potrebbe svolgere il suo compito essenziale di manifestare la realtà.
Viene intuita qui per la prima volta quella che, con una terminologia di molto posteriore, potrebbe essere chiamata "sequenza intenzionale":
La parola veicola il pensiero che a sua volta esprime e manifesta la realtà.
Tuttavia non sempre ciò si verifica: il linguaggio può staccarsi dal pensiero trasformandosi così in una semplice emissione di fiato.
Esistono così due forme di conoscenza, che corrispondono rispettivamente
al pensiero che esprime e manifesta la realtà in modo autentico
e a un pensiero che invece manifesta la realtà in modo solo illusorio.
Compito del filosofo è quello di evidenziare il pensiero autentico e denunciare quello falso e illusorio. Gli uomini, come avevano già capito Eraclito e i pitagorici, si dividono in due grandi gruppi a seconda della loro capacità o meno di oltrepassare il livello superficiale della realtà e di scorgere quello più profondo, che i primi pensatori avevano chiamato l'archè, il fondamento.
Il tema dell'essere