La scuola superiore italiana alla sua radice nasce “umanistica” nel senso migliore del termine, ossia orientata all’umanità dell’essere uomo. Questo è probabilmente un risultato non voluto del suo essere classista per definizione: Gentile voleva che fosse la fucina che preparasse gli studenti alla università, che a sua volta essendo inserita in una Italia non ancora industrializzata puntava soprattutto sulle materie letterarie. Da qui l’idea della “formazione” della persona che rappresenta adesso un tesoro da proteggere. Forse in modo confuso, i docenti italiani hanno interiorizzato l’intuizione della Scolastica per cui “operari sequitur esse”, l’agire (in un certo modo) è una conseguenza dell’esistere (in un certo modo), e hanno concentrato la loro azione sull’ “esse”, lasciando che l’ “operari” ne derivasse come effetto quasi spontaneo. Il che è nobile e vero: rinunciare alla trasmissione dei valori come missione fondamentale del processo educativo è un errore capitale, anche se ha i suoi lati negativi. Come si fa a valutare l’ “essere” di una persona, per esempio? Valutare qui va inteso nel senso scolastico di “dare una valutazione” ossia un numero. L’essere non è nella categoria della quantità e quindi non ce lo si può ficcare a forza. I voti (in quanto numeri) vanno…
Sono abbastanza convinto che nel campo dell’educazione non ci sia niente di realmente nuovo sotto il sole. Per un verso ogni generazione è diversa dalla precedente, ma per un altro è identica. È impossibile credere davvero che oggi, nel 2023, si possa “inventare” (anche nel senso etimologico di “trovare”) qualcosa di realmente “nuovo” in questo campo. D’altra parte se nel passato tutti avessero sbagliato il modo di insegnare ai loro studenti, come sarebbe possibile che l’umanità nel suo complesso sia arrivata fin dove è arrivata (nei suoi lati migliori, è ovvio)? Perciò lo scontro che si rinnova ogni volta tra “conservatori” e “innovatori” non solo è deleterio ma è anche fondamentalmente sbagliato. Basta guardare con un po’ di atttenzione nel passato e si scoprirà che si sono sempre sapute le cose che oggi talvolta si spacciano come grandi “novità” didattiche (fatta la tara sulla tecnologia, naturalmente). Devo a Marco Magni di aver richiamato la mia attenzione sul Saggio XXVI del primo volume degli Essais di Montaigne, che tratta appunto della “Educazione dei fanciulli”. Montaigne scrive tra il 1580 e il 1588 (le lettere maiuscole A, B e C tra parentesi quadre che trovate nella citazione qui sotto si riferiscono appunto…
Sono un insegnante delle scuole superiori e per lavoro devo parlare spesso con i colleghi a proposito dell’uso delle tecnologie informatiche a scuola, nell’insegnamento e nell’apprendimento. Il piano Scuola4.0 è stata l’ultima occasione per un confronto, sia pure veloce. Rimango sempre colpito dal fatto che la discussione sembra trasformarsi immediatamente in un confronto irrigidito, per non dire peggio, tra due schieramenti totalmente opposti: basta sollevare, anche per caso, il tema e subito qualcuno salta su a dire che lui è diverso, che a costo di sembrare arcaico vuole rimanere fedele al buon vecchio modo di studiare. Quelli che invece sono a favore delle tecnologie informatiche richiamano l’attenzione sulla necessità di “tenersi al passo coi tempi” ed esaltano le capacità dei programmi e delle macchine come estensioni della nostra intelligenza. Se devo essere onesto, mi pare però che negli ultimi tempi i difensori dell’informatica siano meno incisivi e radicali di dieci o quindici anni fa. Resta il fatto che quando la questione arriva da questi parti sembra che persone intelligenti, pacate e normalmente razionali e capaci di analisi pacate si lascino completamente avvolgere dai più banali bias di conferma e appaiono sorde alle ragioni dell’altra parte. Ma perché questi steccati sembrano…
Cercando di tirare le somme di quanto si legge a proposito dell’educazione mi pare di intravedere alcune cose. Prima di tutto, parlare di educazione è una continua scoperta dell’acqua calda. Dewey e Montaigne dicevano già le cose che sappiamo adesso, e che sapeva anche Socrate, ossia che il “progatonista” del processo educativo è lo studente, non l’insegnante, e che tutto il “trucco” sta nell’attivare le sue (dello studente) capacità di apprendimento: non certo nel riversare conoscenze dall’uno (il docente) all’altro (il discente). Detto questo, ne viene di conseguenza che il lavoro dell’insegnare dovrebbe essere soprattutto un lavoro di “cura” one-to-one, ma non “peer-to-peer”. Per ragioni semplicemente economiche in occidente (ma anche in altre culture: certamente in quella araba, per esempio) è più conveniente creare un rapporto uno-molti (un docente di fronte a 20-30 studenti). E non appena si fa questo nascono tutti i problemi che sappiamo (lezione versativa, aula-teatro, e così via). Esistono modelli alternativi nell’ordinamento italiano? Si, ne esiste almeno uno: quello di “Strumento” nei C0nservatori. IN questo schema, approvato dal ministero e dalla burocrazia, si riconosce che il docente debba incontrare lo studente due volte a settimana per mezz’ora. In questa mezz’ora però il docente è tutto e…
In questi giorni, grazie a una mia studentessa, che devo chiamare solo I. per la privacy, ho scoperto una funzionalità del mio cellulare che non conoscevo: l’utilizzo della app Lens. Voi direte: ma che tardone che sei! scrivi e parli dell’uso delle ICT nella didattica e non conoscevi questo programma? E che vi posso dire? Così stanno le cose: non lo conoscevo. Google Lens è un’app mobile di riconoscimento delle immagini sviluppata da Google. Annunciata durante Google I/O 2017, è stata progettata per portare informazioni pertinenti utilizzando l’analisi visiva. Inizialmente veniva fornita come app a parte, in seguito è stata integrata nell’app Fotocamera di Android. (fonte: voce Google Lens su Wikipedia) Il trucco sta nell’uso delle reti neurali che permettono un riconoscimento quasi perfetto del testo scansionato. La cosa funziona così: si apre l’app, la si punta su un testo e si scatta una specie di foto. Il programma individua il testo e chiede cosa fare: scansionare il testo, tradurlo, cercare una parola… Scegliendo “testo” scansiona il testo, che viene evidenziato, poi ti chiede di nuovo cosa vuoi fare: il software (perché sempre di software si tratta, non di magia) può leggerlo oppure selezionarlo per la copia. A me interessa…
Sono un insegnante da quasi quarant’anni. Per moltissimo tempo ho salutato mia moglie, al mattino, dicendole: “Ciao, vado a scuola”. Arrivato alla mia età, superati da un pezzo i sessanta, penso di aver sbagliato a usare quella frase per tutto quel tempo. Certo, era una cosa spontanea: in fondo, andavo effettivamente a scuola, nel senso che andavo nell’edificio del mio liceo. Ma in italiano la frase “vado a scuola” ha una gamma di significati che non ha, per esempio, la frase “vado in ospedale” detta da un medico. Dal momento che il medico è sano, la frase può voler dire solo che sta andando in quell’edificio per svolgere il suo lavoro: nessuno ascoltandolo penserebbe che sta andando al nosocomio per farsi curare, o qualcosa del genere. “Andare a scuola” invece può mantenere una sfumatura diversa: io, come tutti, sono “andato a scuola” per tutti gli anni della mia infanzia e della mia giovinezza (diciassette anni, in effetti, contando l’università e lasciando perdere l’asilo) per imparare, restando in una situazione di subalternità a qualcuno (la maestra, i professori, i docenti universitari). Ripetere la stessa frase adesso può trascinarsi dietro questo vago riflesso di “non lavoro” che era il suo mood principale…
La mia rabbia è dovuta al progressivo svuotamento della scuola superiore: svuotamento di senso, quindi di importanza, quindi di valore. C’è una “medializzazione” del liceo che è simmetrico alla “licealizzazione” delle università. Questa è una cosa che io non sopporto e davanti alla quale non riesco a conservare la calma, perché la conseguenza di questo “slittamento in avanti” della “vera” preparazione da un lato porta i nostri ragazzi a potersi inserire nel mondo del lavoro solo dopo i 30 (e siccome nessuno lo ha detto all’orologio biologico delle ragazze, sorgono problemi grossi grossi), dall’altro individua il “vero” momento di preparazione nei master post universitari, tutti costosissimi (o all’estero, che è la stessa cosa). Questo fatto reintroduce una discriminante educativa su base economica (ossia: studia solo chi ha i soldi) che mi fa vomitare. Quindi la mia visione “politica” del liceo statale lo vuole una scuola di alto profilo proprio perché è potenzialmente aperta a tutti (se poi dopo uno vuole fare la sciampista e va a fare un professionale, fa benissimo!). Ma deve essere di ALTo profilo! Io dico sempre alla prima assemblea dei genitori che ho imparato molto quando i miei figli erano a scuola. Ora mi dico: cosa avrei voluto per loro?…
Io credo che un ottimo esempio di quello che potrebbe essere un “documento” da presentare ai ragazzi durante l’orale dell’esame di stato sia questa vignetta di Giannelli pubblicata sul Corriere della Sera nel novembre 2020, quando venne introdotto il sistema dei colori per descrivere il livello di rischio nelle singole regioni e quindi la tipologia di limitazioni. Il sistema venne varato dal minsitro Speranza (riconoscibile nella caricatura che appare in televisione). Il colore rosso indicava il massimo livello di allerta, e venne attribuito alla Lombardia. Il vecchietto che sta ascoltando il telegiornale vive una dissociazione spazio temporale e crede che la dichiarazione per la quale la “Lombardia è rossa” abbia un significato politico, ossia che la regione è diventata comunista; ed essendo una persona molto anziana ha vissuto presumibilmente la stagione della Resistenza, militando evidentemente nel campo della sinistra, dato che reagisce intonando il canto simbolo di quel periodo (“Bandiera rossa la trionferà“). I due coniugi in primo piano hanno il compito di fornire il momoento di distacco che genere l’effetto comico, assistendo stupiti alla scena. Il genio di Gianelli sta nel riassumere più piani (la crisi pandemica, il riferimento alla politica presente, l’ironia verso il passato)…
C’è una questione etica che mi tormenta da tempo ma che la pandemia ha aggravato notevolmente. La scuola superiore italiana, nella quale insegno, ha da tempo abdicato a ogni pretesa di selezione. Anche le prime dichiarazioni del governo Draghi sugli ITS lo confermano: invece di mettere mano a una valorizzazione degli ITIS (come diceva Prodi) si preferisce ripartire da zero con un percorso parallelo alle università (ed esplicitamente gradito a Confindustria), contribuendo allo «slittamento in avanti» del momento in cui giovani possono prendere posto nella società inserendosi nel processo produttivo. Tuttavia, anche se noi insegnanti delle superiori non scegliamo più «i migliori» (qualunque cosa voglia dire), resta il fatto che i nostri ragazzi, prima o poi, poi verranno scelti: «uno verrà preso, l’altro lasciato» (Lc 17, 34). Ci sarà qualcuno che dirà: tu si, vieni a lavorare; tu no, non mi interessi. Il mio disagio etico è questo: chi glielo dice, ai ragazzi? Noi? La famiglia? I fratelli/amici più grandi? Lo devono scoprire da soli? (to be continued, of course…)
Forse siamo ancora in tempo per cercare di trarre qualche insegnamento da questi mesi difficili. Perché, certamente, bisogna che non siano passati invano; e che qualcosa rimanga, e che possa modificare il qualche misura quello che verrà dopo. Sarebbe terribile se alla fine ci dicessimo: ok ragazzi, l’emergenza è finita, a che pagina eravamo rimasti? Io sostengo che questi mesi sono l’occasione per una specie di «esperimento filosofico» che mai avremmo tentato da soli e che potrebbe aiutarci a capire di più e meglio in che cosa consista il processo di apprendimento/insegnamento (certo: io parto dal presupposto che ci sia qualcosa da capire e da capire sempre meglio. Chi pensa di aver già capito tutto, in effetti, potrebbe anche fermarsi qui, con la mia benedizione). In sostanza si tratta di questo: adesso che abbiamo provato a imparare e a insegnare a distanza, possiamo confrontare questa esperienza con quella di prima, ossia l’imparare e l’insegnare in presenza. Cosa è rimasto uguale? Cosa è cambiato? Cosa manca nell’uno? Cosa manca nell’altro? Come quando si confrontano due grafici, o due fotografie scattate a distanza nel tempo, dovrebbero emergere somiglianze e difformità, permanenze o assenze (ovvero nuove presenze). Quelli che dicono «lezione in presenza,…