Sono un insegnante da quasi quarant’anni. Per moltissimo tempo ho salutato mia moglie, al mattino, dicendole: “Ciao, vado a scuola”. Arrivato alla mia età, superati da un pezzo i sessanta, penso di aver sbagliato a usare quella frase per tutto quel tempo. Certo, era una cosa spontanea: in fondo, andavo effettivamente a scuola, nel senso che andavo nell’edificio del mio liceo. Ma in italiano la frase “vado a scuola” ha una gamma di significati che non ha, per esempio, la frase “vado in ospedale” detta da un medico. Dal momento che il medico è sano, la frase può voler dire solo che sta andando in quell’edificio per svolgere il suo lavoro: nessuno ascoltandolo penserebbe che sta andando al nosocomio per farsi curare, o qualcosa del genere. “Andare a scuola” invece può mantenere una sfumatura diversa: io, come tutti, sono “andato a scuola” per tutti gli anni della mia infanzia e della mia giovinezza (diciassette anni, in effetti, contando l’università e lasciando perdere l’asilo) per imparare, restando in una situazione di subalternità a qualcuno (la maestra, i professori, i docenti universitari). Ripetere la stessa frase adesso può trascinarsi dietro questo vago riflesso di “non lavoro” che era il suo mood principale…