Riflessioni per tempi difficili

Ho chben piesto ai miei studenti uno sforzo di riflessione per capire cosa ci insegna questo lungo periodo di lockdown, e in generale cosa ci insegna l’esperienza della pandemia. Mi sembra giusto dare l’esempio, per quel che può valere.

Io sono vecchio (vecchietto, suvvia…., mi suggeriscono). Comunque ho passato la boa dei sessant’anni, e questo conta. Insegno da ben più di trent’anni, e questo mi mette nella condizione di non preoccuparmi più di tanto di quello che gli altri pensano di me. Arrivato a questo punto, quello che mi interessa è aiutare gli altri esseri umani, i giovani esseri umani che incontro a scuola, a costruire la propria visione del mondo, una visione del mondo che sia la più ricca, articolata, profonda e utile possibile. Per fare questo uso tutti gli strumenti che mi vengono in mente e che sono effettivamente utilizzabili. Ma il punto chiave rimane il contatto umano. Questo è un punto su cui tutti sono d’accordo ma che è potenzialmente carico di equivoci: in molti interventi che ho letto in questi mesi, il “contatto”, la “relazione”, il “rapporto” erano messi in stretta relazione con la presenza fisica, come se fosse una questione di corpi e di spazi fisici. Ma non sono così sicuro che sia così. Io preferisco usare la nozione di “prossimità” per indicare la condizione di reale reciproca apertura delle coscienze, che può sbocciare anche nella distanza fisica e che si sostanzia attraverso qualsiasi medium.

Ma insomma, cos’è che ci da “in più” il fatto di essere presenti fisicamente, dal punto di vista dell’apprendimento/insegnamento? I ragazzi dicono: mi mancano gli amici. Va bene, ma questo cosa c’entra con il processo di apprendimento? Allora correggono il tiro: a scuola è più facile chiedere spiegazioni (e pensano soprattutto a matematica). Va bene. Ma cosa è essenziale qui, il “chiedere” o “la facilità del chiedere”? A me pare che l’essenziale sia il “chiedere”: quante volte noi insegnanti ci rivolgiamo agli studenti dicendo “mi raccomando, se non avete capito chiedete!”. E tutti stanno zitti… e noi sappiamo che non hanno  capito, perché è impossibile capire la dialettica trascendentale di Kant o l’argomento ontologico di Anselmo la prima volta che ne senti parlare, e non possiamo fare nulla se non sperare che quando si metteranno veramente a studiare queste tesi (e lo possono fare solo a casa, nell’intimità delle loro camerette, in un confronto diretto con un qualche testo, sia esso il manuale, gli appunti o i contenuti del Filo di Arianna) si ricordino della nostra supplica e vengano a chiedere veramente. Senza questo “movimento”, senza questa “apertura della coscienza” che è il chiedere non ci può essere relazione tra chi apprende e chi insegna. 

Ora, mi chiedo, se l’essenziale è il “chiedere” come apertura della coscienza, il fatto di essere tutti insieme fisicamente in un’aula aiuta questo processo? Forse si, forse no. Qualche studente potrebbe pensare che fare una domanda lo metta in condizioni di inferiorità rispetto al gruppo dei compagni (lo “sfigato” di turno che non ha capito) e se ne vergogna, al punto da andare a porre le stesse domande che avrebbe potuto porre al docente a un insegnante privato più o meno profumatamente pagato dai genitori. Qualche studente potrebbe pensare che fare domande lo fa apparire sciocco agli occhi dell’insegnante e teme che questo lo penalizzerà al momento decisivo, quello del voto: anche se non ha capito nulla, aspetta nella vaga speranza che “poi”, in un qualche momento, riuscirà a capire, magari nella illusione che “quello che viene dopo” gli renda più chiaro quella cosa lì che adesso non sta capendo. D’altra parte, può anche capitare che mentre si è li che non si sa che pesci pigliare un altro compagno dia forma esattamente a quei dubbi ponendo lui la domanda che non siamo riusciti noi a formulare, e la risposta del docente risolva anche i nostri dubbi. Può anche capitare che il fatto di vedere altri compagni in difficoltà, o con gli stessi nostri dubbi, ci aiuti a non farci sentire stupidi (un pensiero che tanti ragazzi hanno, e che noi adulti non riusciamo – o non riusciamo più – a comprendere).

Tutto ciò è reso più fluido e semplice dal fatto di essere nella stessa stanza, ma l’essere nella stessa stanza è davvero l’essenza, il “cuore” del rapporto di apprendimento/insegnamento?

Lascia un commento